In questo numero

processo ai grandi trial




Il sogno del cuore che si rigenera:
la ricerca sulle cellule staminali compie due lunghi passi in avanti con gli studi SCIPIO e CADUCEUS
L’idea di far rigenerare tessuto miocardico rappresenta tutt’oggi una delle sfide più affascinanti della ricerca cardiovascolare: il processo che apre questo numero del Giornale è dedicato a due studi, pubblicati a breve distanza l’uno dall’altro, che hanno contribuito a riaccendere l’interesse per la terapia con cellule staminali. Il commento è affidato a quattro firme autorevoli nel campo della ricerca: Giulio Pompilio, Maurizio Capogrossi, Antonio Maria Leone e Filippo Crea. Il loro contributo non ci offre solo una sapiente guida alla comprensione degli studi, ma ci consente anche di ripercorrere le tappe fondamentali che hanno segnato il complesso percorso della ricerca sulle cellule staminali, a partire dalla prima geniale osservazione di Piero Anversa nel lontano 2001, per arrivare fino ai giorni nostri.
L’interesse suscitato dallo studio SCIPIO è dovuto all’utilizzo di cellule multipotenti, capaci sia di auto-rinnovarsi sia di differenziarsi in cardiomiociti, cellule endoteliali e cellule muscolari lisce: questo tipo particolare di cellule è stato isolato da Piero Anversa nel 2007 e lo SCIPIO è, di fatto, il primo trial clinico ad impiegare staminali multipotenti per il trattamento della disfunzione ventricolare sinistra post-ischemica. Nello studio CADUCEUS sono state invece utilizzate cellule staminali derivate da cardiosfere ed iniettate per via intracoronarica in pazienti con recente infarto miocardico.
Entrambi gli studi, anche se diversi per tipologia di pazienti arruolati e di cellule utilizzate, dimostrano chiaramente che l’area di necrosi può ridursi e che dunque la rigenerazione miocardica è possibile: la strada da percorrere è tuttavia lunga e solo studi di fase II e III ci mostreranno il reale potenziale clinico della terapia con cellule staminali. •




La scelta tra angioplastica e allenamento fisico nel paziente affetto da
claudicatio: lo studio CLEVER
Lo studio CLEVER è stato condotto su pazienti affetti da claudicatio intermittens ed ha dimostrato che la terapia medica, associata ad un programma di riabilitazione, è superiore rispetto all’angioplastica nell’aumentare il tempo di cammino; lo stenting risulta invece superiore nel migliorare i sintomi e la qualità di vita. Si tratta di uno studio molto discusso, soprattutto da chi pratica terapia endovascolare. Secondo Piergiuseppe Agostoni nello studio mancano informazioni sul grado di perfusione tessutale e non è quindi possibile avere una valutazione oggettiva dell’efficacia della terapia. Anche Carlo Trani sottolinea l’inadeguatezza dell’endpoint primario: il tempo massimo di esercizio, parametro facilmente misurabile, può altrettanto facilmente trarre in inganno. La riabilitazione potrebbe infatti aumentare la capacità di cammino grazie ad un migliore allenamento muscolare, piuttosto che ad un’eliminazione dei sintomi e della loro causa. Dallo studio emerge in sostanza che la terapia medica da sola non funziona, che la riabilitazione è in grado di migliorare la capacità di cammino e che l’angioplastica è il trattamento che garantisce il massimo in termini di benefici sintomatologici: viene il dubbio che, paradossalmente, la strategia migliore potrebbe essere proprio l’associazione tra angioplastica e riabilitazione, ipotesi purtroppo non testata dallo studio.  •

editoriale




I rischi dell’ipoglicemia

“Il meglio è nemico del bene” è un celebre aforisma che ben si adatta a svariate scelte clinico-terapeutiche: la paternità della frase viene attribuita a François-Marie Arouet, altrimenti detto Voltaire, filosofo francese ed ispiratore del pensiero illuminista. L’espressione appare indubbiamente adeguata anche al difficile caso della terapia ipoglicemizzante: abbassare la glicemia va bene ma attenzione a non eccedere! Se da un lato uno stretto controllo dei valori glicemici consente infatti di prevenire le complicanze sia micro che macrovascolari del diabete, dall’altro lato l’utilizzo di una terapia ipoglicemizzante troppo aggressiva può indurre ipoglicemia. Valori glicemici eccessivamente bassi determinano effetti indesiderati dal punto di vista non solo metabolico: Agostino Consoli e Patrizia Di Fulvio ci spiegano, nel loro editoriale, che proprio i meccanismi di controregolazione che si attivano per difendere l’organismo dall’ipoglicemia possono innescare pericolosi effetti collaterali, come l’allungamento del QT e l’aumento del calcio intracellulare, con conseguente rischio di aritmie fatali. Nello studio ACCORD è stata addirittura dimostrata una chiara associazione tra ipoglicemia e mortalità, mentre nello studio VADT l’ipoglicemia risultava essere il principale predittore di morte cardiovascolare.
Le speranze per il futuro sono riposte nei nuovi farmaci ipoglicemizzanti come le incretine; grazie ad un diverso meccanismo d’azione, la stimolazione della secrezione insulinica viene a cessare quando la glicemia scende al di sotto dei valori patologici, evitando di fatto una produzione di insulina inappropriatamente elevata e fornendo quindi una protezione verso il rischio di ipoglicemia. •

rassegne




La frazione di eiezione: storia di un parametro di successo

La frazione di eiezione (FE) rappresenta di gran lunga il parametro strumentale più impiegato in cardiologia. I motivi alla base di tanto successo sono numerosi: innanzitutto la sua semplicità. La FE è espressa in termini percentuali e ciò consente una comprensione immediata del suo valore anche da parte dei medici non cardiologi, che facilmente acquisiscono una precisa informazione sulla capacità contrattile del ventricolo sinistro. Inoltre, poiché la FE indica una variazione di volumi espressa in percentuale, la sua stima può essere effettuata anche con una valutazione visiva delle immagini, che non richiede cioè misure o calcoli. Infine, l’ampia diffusione territoriale delle tecniche di imaging cardiaco rende la FE un parametro universalmente disponibile. La rassegna di Donato Mele è strutturata in modo estremamente didattico e ci offre la possibilità di approfondire lo studio di questo parametro, andando ad analizzare nel dettaglio i suoi vantaggi ma anche mettendo in evidenza i suoi limiti. La valutazione della FE ha quotidianamente un drammatico impatto su processi decisionali clinici come il trattamento dello scompenso cardiaco o l’impianto di un defibrillatore: per questo motivo la rassegna si chiude con una serie di raccomandazioni pratiche per una misurazione quanto più accurata possibile di questo parametro. •




C’è sempre un po’ di aldosterone
da inibire nello scompenso!
Razionale per l’impiego dei vecchi
e dei nuovi antialdosteronici nella disfunzione ventricolare sinistra
È ormai noto da tempo che nello scompenso cardiaco si verifica un’iperattivazione del sistema renina-angiotensina che incide negativamente sulla prognosi. Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) ed i sartani riescono a modulare il sistema renina-angiotensina ma non riducono i livelli plasmatici di aldosterone che, legandosi ai recettori mineralcorticoidi, determinano ritenzione di acqua e sodio ed escrezione di potassio. Cesare Greco insieme ad altri sei co-autori, tra i più autorevoli del panorama cardiologico italiano, ci offre una disamina delle attuali opzioni farmacologiche per l’inibizione dell’aldosterone. La rassegna parte dal vecchio studio RALES, dove lo spironolattone si era dimostrato capace di ridurre sia la mortalità che la frequenza delle nuove ospedalizzazioni per scompenso, per arrivare agli studi più recenti, che hanno valutato l’efficacia e la sicurezza dell’eplerenone. I risultati dei trial clinici sono assolutamente incoraggianti: sia nell’EPHESUS che nell’EMPHASIS-HF l’eplerenone ha dimostrato di poter ridurre sia la mortalità che le nuove ospedalizzazioni per scompenso. Nonostante la solidità dei dati scientifici, l’impressione è che questa classe di farmaci sia ancora largamente sottoutilizzata ed il messaggio della rassegna è quello di adeguare la nostra pratica clinica alle evidenze della letteratura, cercando così di migliorare sia la prognosi che la qualità di vita dei pazienti affetti da scompenso cardiaco. •




Clopidogrel ed inibitori di pompa protonica: un’associazione pericolosa
L’associazione clopidogrel+inibitori di pompa protonica (PPI) è stata tenuta, negli ultimi anni, sotto stretta osservazione. Il motivo di tanta preoccupazione è che i due farmaci, pur avendo meccanismi ed obiettivi assolutamente diversi, hanno anche qualcosa in comune: il CYP2C19. Si tratta di una isoforma enzimatica del citocromo P450 responsabile della formazione del metabolita attivo del clopidogrel. Purtroppo il CYP2C19 è anche il bersaglio dei PPI che, inibendo l’azione dell’isoenzima, possono quindi ridurre l’attività antipiastrinica del clopidogrel. La rassegna di Emilia D’Ugo et al. spiega in maniera chiara i meccanismi farmacologici alla base dell’interazione e analizza gli studi clinici condotti al fine di stabilire le reali conseguenze cliniche. Dalla disamina della letteratura emerge purtroppo una profonda incertezza: gli studi disponibili sono prevalentemente retrospettivi ed osservazionali, con risultati spesso contrastanti e lo studio COGENT, unico trial clinico randomizzato, non permette di esprimere giudizi definitivi perché interrotto precocemente. In sostanza, in attesa di prove più concrete, clopidogrel+PPI resta ancora un’associazione sospetta da tenere sotto stretta osservazione.  •




Lo scompenso cardiaco
ed il confine sottile tra terapia
e cure palliative
Nella gestione dei pazienti affetti da scompenso cardiaco (SC) esiste una linea sottile che segna il confine tra due gruppi di soggetti: quelli affetti da SC di grado lieve e moderato, in cui l’obiettivo è migliorare sia la prognosi che i sintomi, e quelli affetti da SC avanzato, la cui aspettativa di vita è molto limitata, in genere inferiore al 50% a 1-2 anni e la cui qualità di vita è pesantemente compromessa. In questo secondo gruppo di soggetti, troppo spesso si ricorre ad un approccio aggressivo ed intensivista, applicando protocolli standardizzati di trattamento che continuano a perseguire, come scopo principale, un miglioramento della sopravvivenza piuttosto che della qualità di vita. La rassegna di Antonello Gavazzi et al. merita davvero un’attenta lettura, non solo per la ricchezza e la precisione dei dati scientifici riportati, ma soprattutto per il messaggio umano che gli autori si sforzano di far emergere: riconoscere i pazienti con SC avanzato e indirizzarli verso un trattamento palliativo significa evitare a questi soggetti ulteriori ed inutili sofferenze, focalizzando l’attenzione sul trattamento dei sintomi e sul miglioramento della loro qualità di vita. •

studio osservazionale




Genitori distratti e fumo passivo: un’indagine epidemiologica nella città di Agrigento

L’esposizione dei bambini al fumo passivo non è solo un indice del grado di dipendenza dei genitori dal rito della sigaretta, ma rappresenta purtroppo un vero e proprio fattore di rischio cardiovascolare per i bambini stessi, essendo in grado di indurre disfunzione endoteliale e fenomeni ateromasici fin dalla giovane età. Lo studio di Serena Magro et al. ci offre una fotografia dei genitori fumatori della città di Agrigento, descrivendo in modo dettagliato come sono cambiate, negli ultimi 15 anni, le loro attenzioni sulla protezione dei figli dal fumo passivo. La metodologia dello studio è molto accurata ed è interessante notare come gli autori abbiano diviso i bambini esposti al fumo diretto (bambini presenti fisicamente nell’ambiente in cui il genitore fumava) da quelli soggetti a fumo indiretto (bambini che soggiornavano nell’ambiente dove il genitore aveva fumato in precedenza). I risultati dello studio mostrano un trend incoraggiante: la percentuale di genitori fumatori è passata dal 46% nel 1994 al 31% nel 2009 con un decremento più significativo nelle donne rispetto agli uomini. Anche se è evidente una maggiore consapevolezza del problema da parte dei genitori, tanto lavoro deve essere ancora fatto in termini di campagne educazionali soprattutto su quel 39% di uomini che non è ancora capace di rinunciare all’agognata sigaretta neppure in presenza dei figli.  •

caso clinico




Resincronizzazione cardiaca in un caso di trasposizione corretta dei grossi vasi
Nei pazienti affetti da trasposizione corretta dei grossi vasi con ventricolo destro sistemico, la disfunzione ventricolare porta al progressivo sviluppo di scompenso cardiaco, talvolta refrattario alla terapia medica. Questi pazienti, non di rado, possono anche sviluppare gradi avanzati di blocco atrioventricolare, necessitando pertanto di stimolazione cardiaca definitiva. Giulio Conte et al. ci descrivono il caso di un uomo di 41 anni che, dopo ripetuti interventi di correzione chirurgica della cardiopatia, aveva sviluppato un quadro di scompenso cardiaco associato a blocco atrioventricolare 2:1 con QRS largo e morfologia tipo blocco di branca sinistra. Previa valutazione dell’anatomia del seno coronarico, il paziente è stato sottoposto ad impianto di pacemaker biventricolare, con ottimi risultati clinici al follow-up ad 1 anno. Gli autori sottolineano l’importanza della valutazione dell’anatomia del seno coronarico, spesso complessa in questi pazienti ma, in casi selezionati, tale da consentire una stimolazione anche del ventricolo sistemico e offrire così al paziente la chance della resincronizzazione ventricolare con i vantaggi clinici ad essa correlati. •

position paper




I pazienti ipertesi da inviare a denervazione delle arterie renali:
il Documento di Indirizzo della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa

Dopo i risultati positivi dei due studi Symplicity Hypertension, che hanno dimostrato una progressiva e persistente riduzione dei valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica nei pazienti trattati con denervazione delle arterie renali, c’era la concreta necessità di avere un position paper per fare chiarezza sull’argomento. A nome della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa, Massimo Volpe et al. hanno quindi messo a punto un documento di indirizzo che offre una guida pratica alla denervazione. Dal documento emerge innanzitutto la necessità di porre una corretta diagnosi di ipertensione resistente o refrattaria: gli autori ci ricordano che particolare attenzione deve essere rivolta ai casi di ipertensione arteriosa secondaria, che non rappresenta attualmente un’indicazione alla denervazione, ed ai casi di pseudo-resistenza al trattamento, ossia quelle condizioni che, una volta rimosse, consentono di ottenere la normalizzazione dei valori pressori. Il messaggio che emerge in più punti dal documento è che la gestione di questi pazienti dovrebbe comunque essere affidata a Centri di Eccellenza o di Riferimento, non tanto per la complessità tecnica della metodica, ma soprattutto per la difficoltà nel porre correttamente la diagnosi di ipertensione refrattaria e nel selezionare quindi i candidati ideali al trattamento di denervazione. •




Il ruolo della terapia di combinazione nel trattamento dell’ipertensione arteriosa: il Documento di Indirizzo della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa

La complessità del trattamento dell’ipertensione arteriosa è testimoniata dal fatto che solo il 20-30% degli ipertesi in terapia farmacologica raggiunge gli obiettivi pressori raccomandati: purtroppo lo scadente controllo dei valori pressori contribuisce ad aumentare il rischio di eventi cardiovascolari maggiori con conseguente incremento della spesa per il Sistema Sanitario Nazionale. Per questi motivi la Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa ha ritenuto utile la stesura di un documento di consenso che focalizza l’attenzione soprattutto sul ruolo della terapia di combinazione. Circa il 70-80% degli ipertesi in trattamento non raggiunge infatti gli obiettivi pressori prefissati con la monoterapia e dati inconfutabili hanno ormai dimostrato che la terapia di combinazione presenta un’efficacia antipertensiva circa 5 volte maggiore del raddoppio della dose della monoterapia. Massimo Volpe et al. sottolineano che l’uso di una strategia di combinazione basata su farmaci che antagonizzano il sistema renina-angiotensina in associazione con farmaci diuretici e/o calcioantagonisti, è in grado di ridurre significativamente il rischio di eventi cardiovascolari maggiori. La possibilità poi di assumere questi farmaci con una sola pillola non può che migliorare l’aderenza alla terapia anche se la raccomandazione dell’AIFA è, per il momento, quella di ricorrere alle associazioni precostituite solo dopo aver trovato la corretta posologia dei singoli principi attivi somministrati separatamente. •