In questo numero

processo ai grandi trial




Lo studio SHARP: opinioni “appuntite” sul trattamento ipolipemizzante nel nefropatico
«Trattare o non trattare la dislipidemia del paziente con malattia renale cronica? Con quali obiettivi terapeutici? Con quali farmaci? Questi dubbi amletici hanno generato per moltissimo tempo infinite discussioni e tanta confusione nella comunità nefrologica e più in generale nell’ambito della medicina interna». Inizia così il commento di Stefano Bianchi allo studio SHARP, che rappresenta il primo (e forse, per motivi etici, anche l’ultimo) studio randomizzato che ha confrontato l’efficacia di una terapia ipolipemizzante versus placebo in una grande popolazione di pazienti con insufficienza renale cronica nel ridurre il rischio di eventi aterosclerotici maggiori. In oltre 9000 pazienti con anamnesi negativa per infarto miocardico o rivascolarizzazione coronarica (di cui un terzo in dialisi), l’associazione simvastatina + ezetimibe ha ridotto del 17% il rischio di eventi aterosclerotici durante un follow-up medio di circa 5 anni, a fronte di un ottimo profilo di sicurezza (l’eccesso di rischio per miopatia è stato solo di 2 per 10 000 pazienti-anno nel braccio trattato). Nessun beneficio veniva invece osservato per quanto riguarda la progressione della malattia renale verso gli stadi terminali. Bianchi conclude che nessuna incertezza o perplessità può essere più tollerata relativamente all’impiego di questi farmaci nei pazienti nefropatici, e che «quando i risultati di uno studio sono quelli osservati nello SHARP il compito di chi deve parlarne “a favore” è fin troppo facile: questi parlano da soli e non necessitano grandi commenti. Lascio a chi dovrà trovare punti deboli il compito di arrampicarsi sugli specchi: io non ne ho alcun bisogno». Il compito di “arrampicarsi” è stato affidato ad Achille Gaspardone, che svolge il suo compito in scioltezza, ipotizzando alcune logiche di marketing alla base del disegno dello studio, ma soprattutto puntando il dito sui dati di outcome. Ci fa notare ad esempio che il maggior contributo al raggiungimento dell’endpoint primario è stato la riduzione delle rivascolarizzazioni coronariche, mentre non c’è stato alcun beneficio in termini di mortalità totale, mortalità coronarica e infarto non fatale. Inoltre, l’endpoint primario è raggiunto solo nei pazienti non in dialisi; al contrario, nei pazienti in dialisi al momento del reclutamento, l’incidenza dell’endpoint primario è risultata sovrapponibile nei due gruppi di trattamento. A conferma che nessun trial è perfetto! Un processo di sicuro interesse ed ampie implicazioni, affidato a due autori assolutamente “sharp”. •




TRILOGY ACS: un viaggio nella ... terra di nessuno!

La trilogia del Signore degli Anelli si svolge interamente nella terra di mezzo, l’universo immaginario fantastico creato dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien. Un terreno inesplorato è, indubbiamente, quello affrontato dai ricercatori dello studio TRILOGY ACS. I pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA) non candidabili ad un approccio interventistico sono sempre stati considerati alla stregua di profughi nella terra di nessuno: di loro non si occupano espressamente le linee guida, che per definizione riguardano il terreno conosciuto (livelli di evidenza). Lo studio TRILOGY ACS è il confronto, atteso da tempo, tra prasugrel e clopidogrel in pazienti con SCA selezionati per una strategia conservativa. Prima di questo studio, l’uso di prasugrel era raccomandato solo in pazienti con SCA trattati in maniera interventistica, sulla base dello studio TRITON-TIMI 38, in cui la terapia con prasugrel era significativamente associata ad una riduzione degli eventi ischemici ma ad un aumento del rischio emorragico, anche fatale. I risultati del TRILOGY ACS sono chiarissimi: non ci sono differenze nell’endpoint composito primario (morte, infarto miocardico o ictus) tra prasugrel e clopidogrel in pazienti trattati conservativamente. Tutto qui? Forse no. Esplorando l’incognito non si sa esattamente cosa trovare ma si deve fare tesoro del viaggio stesso! Alcuni rilievi dello studio sono molto importanti. Per la prima volta, il TRILOGY ACS documenta la sicurezza, senza incremento del rischio di sanguinamento, della dose di 5 mg di prasugrel nei pazienti >75 anni e <60 kg. Inoltre, benché non sia stato raggiunto l’endpoint primario, è stata osservata una significativa separazione delle curve degli eventi dopo 12 mesi, che suggerisce un effetto tempo-dipendente in favore del prasugrel. Un vantaggio del prasugrel è stato anche documentato se considerati solo i pazienti con diagnosi di coronaropatia confermata angiograficamente. Stefano Savonitto e Stefano De Servi illustrano mirabilmente lo studio e le problematiche aperte ... alla ricerca dell’anello magico perduto. •

rassegne




Chi pensa che l’aorta sia solo un tubo ... non ha capito un’aorta?
“La forma segue la funzione” è un principio associato all’architettura moderna e al design industriale del XX secolo, ma è in realtà un assioma assolutamente usurpato alla biologia. E non ci sono dubbi che il sistema cardiovascolare, dal cuore alla periferia, rappresenti una delle massime incarnazioni di questo principio. Il cardiologo, tuttavia, sorvola spesso sul complesso intreccio tra anatomia e biologia che sottende anche alle funzioni apparentemente più semplici, quali ad esempio quelle dei grossi vasi. Ma la complessità esiste, e si ramifica in implicazioni fisiopatologiche, cliniche e terapeutiche che non è responsabile scotomizzare. Per questo, a volte fa bene tornare sui banchi di scuola, per apprendere quello che, quando sui banchi c’eravamo davvero, ancora non era stato nemmeno immaginato. La lezione di oggi è davvero multidisciplinare, ed il corpo docenti include un ragguardevole panel di clinici, anatomo-patologi, genetisti ed esperti di diagnostica per immagini. Giulia d’Amati et al. ci accompagnano attraverso le costellazioni del “sistema aorta”, dall’eterogeneità embriologica agli elementi strutturali, dai meccanismi regolatori genetici e biomolecolari alle variabili emodinamiche, elementi che si integrano in continuo per mantenere l’omeostasi parietale. Il complesso affresco che ne deriva diviene presupposto inscindibile per capire quello che non è solo una naturale evoluzione delle conoscenze intorno all’aorta, ma un’impressionante serie di cambi di paradigma. E gli autori ne identificano i più importanti: da condotto passivo ad organo multifunzione, dall’aterosclerosi all’infiammazione, dalla valutazione dimensionale all’analisi funzionale, e così via. La forma segue quindi le tante funzioni, e la patologia riflette infinite possibilità di disfunzione, in altrettanti ingranaggi biologici. Altro che tubo ... •




Rivisitazione delle indicazioni al trapianto cardiaco e all’impianto di dispositivi di assistenza ventricolare
Il 3 dicembre 1967, il cardiochirurgo sudafricano Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto cardiaco (TxC) su un cinquantatreenne, Lewis Washkansky, con insufficienza cardiaca terminale. L’evento ebbe un risalto mondiale e conferì a Barnard una fama imperitura. Purtroppo il paziente morì 18 giorni dopo l’intervento per sopraggiunta polmonite causata dalla terapia immunosoppressiva. Nel mese di gennaio 1968 furono eseguiti altri quattro TxC da Adrian Kantrowitz e Norman E. Shumway negli Stati Uniti, ma i soggetti dovettero soccombere anch’essi, nel giro di due mesi, alle infezioni. Le conoscenze immunologiche dei tempi non erano, purtroppo, ancora adeguate alla problematica del rigetto acuto. Kantrowitz è stato una delle menti più brillanti e dei massimi innovatori nel campo della cardiochirurgia. Nel 1960 egli sviluppò, in collaborazione con General Electric, il primo pacemaker impiantabile; in collaborazione con suo fratello, Arthur, ingegnere, sempre nel 1960 inventò il contropulsatore aortico e il primo dispositivo di assistenza ventricolare sinistra (LVAD). Egli impiantò il primo LVAD nell’uomo il 4 febbraio 1966, ma il paziente morì dopo 24 ore per complicanze polmonari; il secondo impianto di LVAD fu effettuato il 18 maggio 1966 con sopravvivenza del paziente per 13 giorni e netto miglioramento che lo portò ad alzarsi in piedi prima del decesso avvenuto per ictus.
Attualmente il TxC è considerato il gold standard per il trattamento dello scompenso cardiaco (SC) avanzato, ma è disponibile solo per una minoranza di pazienti a causa dello scarso numero di donatori idonei. Dall’altro lato, i dispositivi di assistenza ventricolare si sono recentemente evoluti dimostrandosi efficaci nel migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita nei pazienti con SC avanzato e possono rappresentare una valida alternativa al TxC. Enrico Ammirati et al. propongono una rivisitazione delle indicazioni a TxC e ad impianto di dispositivi di assistenza ventricolare nel contesto dello SC avanzato fornendo un prezioso ausilio nella scelta del trattamento più appropriato per il singolo paziente. •




Le donne e i “vizi” del cuore
Come notano in apertura Carolina Putotto et al., nel recente numero monografico del Giornale sul “Cuore delle Donne” manca un contributo specificamente dedicato alle cardiopatie congenite. Tale lacuna viene oggi colmata con una rassegna dedicata ai vari aspetti delle malformazioni cardiache nel sesso femminile, che spazia dall’epidemiologia ai tipi anatomici, ai risultati chirurgici e al follow-up delle cardiopatie congenite. Molti gli spunti di interesse: in particolare, le cardiopatie congenite nel sesso femminile tendono ad essere meno gravi ma più spesso associate a malformazioni extracardiache e a sindromi genetiche. Inoltre, mentre in età neonatale, la mortalità è più elevata nelle femmine con vizi cardiaci, in età adolescenziale e adulta la loro sopravvivenza è maggiore rispetto ai maschi ed il rischio associato alla cardiochirurgia è minore. Tali differenze di genere restano largamente inspiegate, sebbene le ipotesi siano poi le stesse invocate per spiegare altre peculiarità delle cardiopatie al femminile: la genetica, il profilo ormonale, gli aspetti psicosociali. Hanno quindi ragione gli autori a concludere che «anche nell’ambito delle cardiopatie congenite “il cuore delle donne” ha la propria specificità; per poterlo trattare, quindi, bisogna tentare di conoscerlo e capirlo». •




Infarto miocardico acuto in gravidanza
Uno dei peggiori incubi del cardiologo di guardia nelle unità di terapia intensiva cardiologica in Italia, e probabilmente nel mondo, è rappresentato dai casi, per fortuna molto rari, di infarto miocardico acuto in donne in gravidanza. L’incidenza di coronaropatia in gravidanza è attualmente in aumento in relazione all’aumento dell’età media dei matrimoni, all’allargamento della finestra riproduttiva femminile e alla disponibilità di tecniche di fecondazione assistita che rendono la gravidanza in età >40 anni un evento sempre più frequente. Sono disponibili pochi dati riguardanti l’infarto miocardico in gravidanza, essendo la gravidanza stessa e l’età fertile criteri di esclusione da tutti i trial clinici di diagnosi e gestione delle sindromi coronariche acute. Il cardiologo in questo contesto affronta una situazione dagli aspetti inquietanti dovendo salvaguardare allo stesso tempo il benessere del feto e della madre, non possedendo, nella maggior parte dei casi, le competenze adeguate e non avendo alcun supporto da linee guida specifiche che mancano completamente. Gian Marco Rosa e al. affrontano in questo articolo lo stato dell’arte sull’infarto miocardico in gravidanza e forniscono al lettore importanti chiavi di lettura sugli aspetti diagnostico-terapeutici particolari. Si tratta quindi di un documento molto prezioso per i cardiologi ospedalieri. •

casi clinici




Insufficienza mitralica e variazioni emodinamiche in gravidanza

La gestione di una gravidanza in pazienti portatrici di valvulopatie note dovrebbe sempre essere decisa e pianificata con cura, ma si sa che la vita supera la fantasia e che esistono situazioni cliniche che sfuggono alle comuni logiche e vanno affrontate con buon senso ed una dose di inventiva. Massimo Slavich et al. ci descrivono il caso di una giovane donna con insufficienza mitralica reumatica che si presenta in scompenso cardiaco alla ventiduesima settimana di gravidanza, manifestando un marcato peggioramento del grado di rigurgito. A parte l’interesse specifico per la gestione del caso in questione, il lavoro offre una sintetica ma completa rivisitazione delle modificazioni emodinamiche in gravidanza, delle opzioni chirurgiche (ma ormai anche percutanee) ipotizzabili nelle donne in età fertile, e della gestione clinica dello scompenso cardiaco in gravidanza.  •




Endocardite batterica: la complicanza che non ti aspetTAVI
Ci sono pochi argomenti più attuali e “caldi” delle complicanze legate ad impianto transcatetere di protesi aortica (TAVI). Mentre ormai la metodica ha raggiunto una sua maturità, uscendo di prepotenza dall’epoca pionieristica, la considerevole morbilità della metodica, attribuibile anche alla fragilità dei pazienti candidati, non smette di destare preoccupazione. Oltre alle complicanze più note (ictus, blocco atrioventricolare, ostruzione coronarica, malposizionamento e migrazione della protesi), non poteva mancare l’endocardite infettiva, che è stata ben descritta in sede autoptica. A tutt’oggi, però, non si conosce la suscettibilità dei vari tipi di protesi all’infezione e non ne è stato codificato il trattamento. In questo lavoro, Giuseppe Santarpino et al. descrivono il caso di una donna ultraottantenne sottoposta a sostituzione valvolare aortica transcatetere per via transapicale con una protesi Edwards Sapien 23 mm, decorsa senza alcuna sequela perioperatoria, ma complicata dopo circa un mese da endocardite attribuibile ad Enterococcus faecalis. Fortunatamente, la tempestiva diagnosi ha portato ad eseguire con successo una sostituzione aortica con bioprotesi, e gli autori ci ricordano che si tratta del primo caso in letteratura di endocardite su TAVI sottoposta con successo ad intervento cardiochirurgico risolutore. •




Bivalirudina in un caso di sindrome coronarica acuta complicata da trombocitopenia da eparina ed insufficienza renale acuta
La bivalirudina è un inibitore diretto della trombina, derivato sintetico dell’irudina, estratto dalla saliva della sanguisuga (Hirudo medicinalis). Gli autori descrivono il caso di un paziente di 77 anni con sindrome coronarica acuta (SCA) senza sopraslivellamento persistente del tratto ST, complicata da trombocitopenia da eparina (HIT) e da insufficienza renale acuta che ha necessitato di trattamento dialitico sostitutivo, trattato con bivalirudina in sostituzione dell’eparina durante angioplastica coronarica. La HIT è una gravissima complicanza della terapia eparinica in cui la trombosi si verifica nel 50% dei pazienti con HIT non trattata, rendendo essenziali trattamenti anticoagulanti alternativi tra cui quelli di scelta sono gli inibitori diretti della trombina. La bivalirudina è raccomandata dalle linee guida europee per il trattamento dei pazienti con SCA candidati a strategia invasiva (raccomandazione di classe IB). Inoltre, non influenzando l’attivazione piastrinica, né interagendo con il fattore piastrinico 4, la bivalirudina ha ottenuto l’approvazione della Food and Drug Administration (FDA) in pazienti ad elevato rischio di HIT, che devono essere sottoposti ad angioplastica percutanea. L’utilizzo della bivalirudina nei pazienti con severa disfunzione renale o insufficienza renale terminale in terapia dialitica sostitutiva richiede estrema cautela, in quanto, in questo sottogruppo di pazienti, in cui si associa un aumento del tempo di coagulazione e del rischio di sanguinamento, le conoscenze su efficacia e sicurezza sono limitate e non è noto il dosaggio ottimale da utilizzare. Maria Francesca Notarangelo et al. riferiscono la loro interessante esperienza. •




Ossigenazione extracorporea e ipotermia terapeutica nell’arresto cardiaco
Nicola Gasparetto et al. ci descrivono un altro caso clinico con presentazione drammatica ma altrettanto brillante risoluzione. Si tratta di un arresto cardiaco secondario a no-reflow in corso di rivascolarizzazione coronarica percutanea in un paziente giovane con storia di angina instabile. Il caso dimostra la fattibilità e la straordinaria efficacia di un trattamento combinato di ipotermia terapeutica e assistenza circolatoria con ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO) instaurata in urgenza, e ripropone la necessità di un’adeguata organizzazione che possa garantire un utilizzo ottimale dei sistemi di supporto extracorporeo. Come sempre, la parola chiave è multidisciplinarietà, questa volta mascherata sotto lo pseudonimo di ECMO Team, ovvero le competenze combinate di cardiochirurgo, anestesista-rianimatore, cardiologo intensivista, infermiere specializzato e tecnico perfusionista. Come sottolineano gli autori, la squadra è indispensabile non solo per una rapida messa in opera di questi supporti, ma anche per la gestione delle numerose, complesse complicanze legate sia alla circolazione extracorporea che all’ipotermia. •




Origine anomala di ramo settale di arteria discendente anteriore
Michela Gallopin e Francesco Bellandi descrivono un interessante caso clinico. Un paziente, maschio, di 57 anni, dislipidemico senza altri fattori di rischio cardiaco noti si presenta alla loro osservazione per angina da sforzo in classe CCS II con ecocardiogramma normale e test ergometrico massimale negativo per segnale ECG ma con comparsa di dolore anginoso. Dopo i risultati inconcludenti sia della scintigrafia che dell’eco-stress farmacologico con dipiridamolo, il paziente effettua coronarografia che documenta origine anomala del ramo settale dell’arteria interventricolare tipo “dual” dal seno di Valsalva destro in assenza di stenosi coronariche significative e senza segni di compressione sistolica sul vaso anomalo. Le anomalie congenite delle arterie coronarie interessano circa l’1% della popolazione generale; l’origine dell’arteria discendente anteriore dal seno coronarico destro rappresenta circa il 3% di tutte le anomalie coronariche. Il rischio di morte improvvisa è correlato soprattutto all’anatomia del ramo anomalo, essendo il decorso intramurale-interarterioso (fra aorta e tronco della polmonare) la variante anatomica a più alto rischio. Il quadro anatomico del paziente in esame è piuttosto raro, in quanto è il solo ramo settale anteriore ad originare dal seno coronarico opposto. Gli autori ricercano le spiegazioni fisiopatologiche della sintomatologia anginosa del paziente e discutono le implicazioni
clinico-prognostiche del caso. •