Enrico Geraci, il medico e l’uomo

Non ricordo quando ci incontrammo la prima volta. Dev’essere stato ai tempi di Feruglio e Fazzini, quelli della lotta per l’affermazione della cardiologia ospedaliera, che si stava attuando con tanta rapidità da non lasciare il tempo a un dialogo sereno con l’università conservatrice e nemmeno con le nostre stesse istanze. Enrico Geraci era tra i più giovani e tra coloro che, un po’ per il carattere riservato e mite e un po’ forse per l’educazione alla prudenza, sfilava più volentieri dietro alla bandiera della cultura cardiologica in rapida ascesa che a quella dei diritti e delle contestazioni. Forse in questa sua marcia cauta ma volitiva sta la ragione della sua emergenza più tardi dopo gli anni settanta, nei quali esplosero tutte le potenzialità culturali che l’ANMCO aveva accumulato durante il lungo periodo di informazioni scientifiche, con i congressi, con il Giornale e soprattutto con la ricerca che quella Associazione era riuscita ad attuare fra tutti i centri specialistici del paese, da Milano a Palermo.
Ricordo la sua capacità di ascoltare, sia le cose interessanti che quelle meno, sembrava non ne avesse da replicare, ma quando apriva bocca ne usciva invece un concentrato di concetti personali, di nozioni maturate al fuoco della meditazione sulle ricerche più recenti e della propria esperienza professionale e privata. Tanto che non di rado si era colti dal timore di aver tenuto noi stessi la conversazione ad un livello troppo basso. E furono i suoi primi interventi ai congressi e alle molte riunioni a dargli quel credito per la Ricerca Clinica dell’ANMCO dal 1989 al 1997, per la direzione del Giornale Italiano di Cardiologia dal 1991 al 1993, per l’assegnazione della Targa Oro e come consulente del Ministero della Sanità. D’altronde, anche il suo curriculum universitario con le lodi, con le docenze e con la direzione della Cardiologia dell’Ospedale Cervello durante 27 anni, per uno che non aveva certo il temperamento dell’arrivista, fanno fede della trasparenza dei traguardi raggiunti. Sono tutte informazioni che per chi l’ha conosciuto o ha seguito le vicende della cardiologia nazionale non sono necessarie per la stima e il ricordo di questo grande medico e docente. Per ultimo mi piace anche ricordare le doti di talent scout quando gli si presentò a fine carriera un giovane cardiologo di brillante intelligenza che gli chiese consiglio dove inserirsi. Non ebbe dubbi: a Trieste, dove ora dirige la Cardiologia che fu di Camerini.
Ma veniamo all’uomo di quell’incontrarsi e dirsi addio nei vari congressi. Me ne vengono alla mente e piacevolmente tre, legati ai momenti di quando ci si ritrovava a sera per la cena, sempre e soltanto quando non ci fosse alla TV una partita di calcio, importante o del cuore, alla quale non resisteva di dare la precedenza. Il primo fu a Parigi molti anni fa, s’era ancora giovani e si stava discutendo con lo sponsor di quale ristorante scegliere. Molti sapevano che Enrico era non solo un habitué della ville lumière fin dagli anni della giovinezza, quando preferiva le vacanze all’estero che sulla spiaggia, ma anche un raffinato gourmet. Ci portò lui con decisione in un locale che non aveva le apparenze dello Chez Maxime, piuttosto alla Maigret, con le luci soffuse e un’atmosfera densa di vissuto. Dopo l’hors d’oeuvre ci consigliò un secondo di carne dove il trattamento con quelle salse che solo i francesi sanno intrugliare e un Beaujolais d’annata riuscivano a nasconderne le proteine anche a chi avrebbe preferito il pesce. Il secondo incontro fu a Venezia assieme alle nostre mogli, dove oltre ai consigli di mensa egli ci parlò di come la città lo affascinasse, tanto da sentire il bisogno di venirci periodicamente, perché quella magia del gotico riflesso sui rii rinvigoriva tanti piacevoli ricordi, e anche l’amore. La terza occasione avvenne a Trieste qualche anno fa, la sera avanti il congresso di Sinagra sulle cardiomiopatie. Mi aggiravo nella zona del porto tenendomi discosto dalle numerose bancarelle che brulicavano in attesa della Barcolana, quella specie di maratona velica che tradizionalmente si rinnova ogni anno nel golfo giuliano. Cercavo una trattoria non chiassosa e un po’ sul tipico, che in quella città ancora si trovano, vi entrai e vidi a un tavolo l’amico di Palermo, era solo. Cenammo insieme e anche questa volta i suoi consigli sul pesce furono ben accolti e riusciti. Parlammo di tante cose, che già appartenevano al passato, ma con quel piacevole distacco di chi spera di averle vissute decorosamente. Alla fine mi decisi di offrire io perché il fare alla romana mi pareva un’usanza poco adatta alle nostre romantiche abitudini. Mi disse: “la prossima volta tocca a me”. Non ci siamo più rivisti e quindi mi deve una cena. Però io gli debbo molto di più e tutti dobbiamo un gallo a Esculapio.


Eligio Piccolo
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