In questo numero

processo ai grandi trial




La durata ottimale della duplice terapia antiaggregante dopo impianto di stent coronarico
Lo studio DAPT è l’ultimo sforzo di dare una risposta scientifica al tentativo di bilanciare i vantaggi (sulla recidiva di eventi ischemici) con i rischi (prevedibili, di complicanze emorragiche) della duplice terapia antiaggregante dopo impianto di stent coronarico. Rita Pavasini, Gianluca Campo, Ugo Limbruno e Stefano De Servi ci offrono la loro visione dello studio. Il giudizio è concorde. Il DAPT è un grande studio, per la numerosità di pazienti arruolati, per il disegno scientifico, ma i risultati non sono univoci. Prolungare la duplice antiaggregazione da 12 a 30 mesi determina una significativa riduzione delle trombosi di stent e dell’endpoint composito morte-infarto-ictus, ma al prezzo di un incremento delle emorragie moderate e severe. A complicare il quadro complessivo dei risultati del DAPT vi è l’osservazione che la riduzione dell’endpoint composito è in realtà il risultato di due effetti opposti: significativa riduzione degli eventi ischemici (-53%) e, al tempo stesso, significativo incremento della mortalità (+36%). La scelta di un trattamento prolungato continuerà quindi ad essere più “arte” che “scienza” medica, basata sull’attenta considerazione del beneficio o dal danno che si può arrecare, valutando con ponderatezza rischio ischemico e rischio emorragico nel singolo paziente. •

editoriale




Chirurgia o trattamento endovascolare per l’aorta toraco-addominale?
Il trattamento della patologia dell’aorta discendente si sta rapidamente evolvendo, grazie anche allo sviluppo delle metodiche endovascolari; questo trend è ben evidente nella pratica clinica e la sua validità è confermata dalle linee guida internazionali recentemente pubblicate. L’editoriale di Santi Trimarchi rappresenta una breve analisi di tali linee guida con particolare enfasi sul confronto con le precedenti linee guida internazionali. Trimarchi ci spiega che non ci sono significative modificazioni circa l’indicazione chirurgica nella patologia aneurismatica (il limite viene confermato a 55 mm per gli aneurismi toracici e 60 mm per gli aneurismi toraco-addominali) ma la scelta dell’approccio terapeutico sta evolvendo sempre più verso il trattamento endovascolare. Rimangono però aperte alcune controversie. In particolare nella dissezione di tipo B non complicata, in cui la pratica clinica evidenzia come la storia naturale non sia priva di eventi fatali a medio e lungo-termine. In questi casi potrebbe essere utile intervenire in fase subacuta mediante endoprotesi, cercando di prevenire tale evoluzione infausta. Altre controversie sono rappresentate dalla patologia aneurismatica associata a connettivopatie, in cui il trattamento chirurgico è tuttora da preferirsi a quello endovascolare, e dagli aneurismi dell’aorta toraco-addominale in cui l’interessamento dei vasi viscerali pone ancora qualche limite all’approccio ibrido e totalmente endovascolare. •

point break




Endocardite batterica e profilassi antibiotica: dubbi e ripensamenti
Dall’avvento degli antibiotici negli anni ’50, la profilassi antibiotica dell’endocardite infettiva è stata ampiamente accettata dalla comunità medica e odontoiatrica e raccomandata in linee guida, sulla base di considerazioni fisiopatologiche e dell’opinione di esperti. L’assenza di trial clinici randomizzati controllati che dimostrino l’associazione tra procedure interventistiche e sviluppo di endocardite ha portato però nel 2008 il NICE ad abolire, dalle linee guida inglesi, la profilassi antibiotica nei pazienti a rischio di endocardite batterica che vanno incontro a procedure odontoiatriche e di altro genere. È stata una saggia decisione? Sembra di no. Come ci spiegano Simon Tiberi et al., i dati epidemiologici mostrano una recrudescenza degli episodi di endocardite batterica in Inghilterra, in parallelo con il calo delle prescrizioni di antibiotico a scopo di profilassi. Ma non possiamo esserne sicuri. Ancora una volta vale il concetto che la medicina basata sulle evidenze non può essere sostituita da dati osservazionali, né a supporto né contro l’efficacia di una terapia. •

rassegne




Aneurismi coronarici: curiosità anatomica o patologia specifica?
Gli aneurismi coronarici sono riscontrati alla coronarografia in una percentuale inferiore al 5% dei casi, ma negli anni recenti la frequenza è aumentata in rapporto alla sempre più diffusa interventistica coronarica. L’elemento patogenetico comune sembra essere il processo infiammatorio della tonaca media che ne determina il progressivo assottigliamento, il quale è alla base della dilatazione vasale. Nel pazienti con concomitante coronaropatia ostruttiva, la presenza degli aneurismi non determina un rischio aggiuntivo a quello legato alle stenosi coronariche; nei pazienti con aneurismi isolati la prognosi è invece peggiore rispetto alla popolazione generale. Ad oggi persistono considerevoli controversie circa il trattamento ottimale di questi pazienti. Ad esempio, il tipo e la durata della terapia antitrombotica ottimale (singola terapia antiaggregante, duplice terapia antiaggregante o combinazione di terapia antiaggregante e anticoagulante) e l’indicazione alla correzione radicale percutanea o chirurgica nei pazienti asintomatici. Alessandra Russo et al. ci propongono in questa rassegna un aggiornamento sugli aspetti eziopatogenetici, diagnostici, prognostici e terapeutici delle dilatazioni coronariche aneurismatiche. •




Defibrillatore indossabile: alternativa o compendio al defibrillatore impiantabile?
Domenico Gabrielli et al. ci spiegano cos’è un defibrillatore indossabile, ci presentano una rassegna degli studi della letteratura che dimostrano l’efficacia di questo dispositivo e ci fanno quindi capire che in diverse specifiche popolazioni di pazienti potrebbe essere vantaggioso o addirittura necessario utilizzare un defibrillatore indossabile. Un esempio sono i pazienti nei quali vi è bisogno di un periodo di valutazione per una corretta definizione delle cause sottostanti alla problematica cardiaca, così come quelli che presentano cause reversibili di rischio aritmico di morte improvvisa. È necessario però che efficacia e sicurezza di questo dispositivo vengano meglio studiate e chiarite nelle diverse patologie specifiche in cui viene oggi prospettato il suo utilizzo. •

studio osservazionale
Articolo del mese




I cardiologi italiani sono attenti al problema del fumo?
Il dubbio è legittimo in quanto lo studio italiano SOCRATES, che ha recentemente analizzato il profilo di rischio cardiovascolare di un’ampia coorte di cardiologi italiani, ha riportato una prevalenza del fumo intorno al 10%, valore decisamente elevato se paragonato a quello dei medici dei paesi anglosassoni. È scontato ipotizzare che il medico fumatore sia meno proattivo ed efficace nel trattare il paziente fumatore. La survey “Cardiologi italiani e fumo di tabacco” è nata proprio con la finalità di esplorare non solo la prevalenza dell’abitudine tabagica tra i cardiologi, ma anche di rilevare le convinzioni personali circa il proprio ruolo nel trattare il cardiopatico tabagista, la conoscenza degli elementi base di fisiopatologia della dipendenza e, infine, l’interesse ad acquisire ulteriori conoscenze e competenze nel campo degli interventi di disassuefazione e di prevenzione delle recidive. I risultati che Anna Frisinghelli et al. ci presentano mostrano che i cardiologi ospedalieri in prevalenza riconoscono il fumo come malattia; pensano che siano disponibili trattamenti efficaci ma ritengono di avere conoscenze e strumenti ancora insufficienti ad attuarle. La mancanza di formazione e di strumenti e strategie standardizzate sembra essere la causa principale che limita l’adozione di comportamenti terapeutici strutturati e appropriati. •

dal particolare al generale




Aneurismi coronarici: una situazione difficile nei pazienti con STEMI
Marco Ferlini et al. ci descrivono il trattamento acuto di due pazienti nei quali un aneurisma coronarico costituiva la lesione colpevole di un infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Il trattamento dei pazienti con sindrome coronarica acuta in cui la lesione colpevole mostra dilatazioni aneurismatiche è ancora ampiamente dibattuto e può essere particolarmente difficoltoso in situazioni di urgenza come quella dello STEMI. Le decisioni (tecniche e cliniche) non possono che essere prese caso per caso. Sembra necessario istituire un registro osservazionale. •




Una delle complicanze più temute dell’infarto del miocardio
Questa è in effetti il verificarsi di eventi tromboembolici secondari alla formazione di trombi in ventricolo sinistro. Al giorno d’oggi l’incidenza di questa complicanza è più bassa rispetto all’era pre-trombolitica,
grazie all’utilizzo di terapie anticoagulanti più aggressive in fase acuta, ma non è del tutto trascurabile. Il trattamento, secondo le raccomandazioni delle linee guida internazionali, si basa sull’utilizzo di antagonisti della vitamina K, ma poco chiaro è l’atteggiamento da assumere nella gestione della triplice terapia antitrombotica. Marisa Varrenti et al. riportano il caso di un paziente di 35 anni di sesso maschile con infarto miocardico anteriore complicato dalla presenza di trombosi ventricolare sinistra associata ad esteso edema, ostruzione microvascolare e core emorragico a livello del setto apicale visualizzati alla valutazione con risonanza magnetica cardiaca. Il caso clinico è lo spunto per una breve revisione della letteratura. •

position paper




Il trattamento dopo le manovre rianimatorie non è meno importante della stessa rianimazione
Forse questo è un concetto che sfugge a chi non fa il rianimatore. In realtà circa il 70% dei pazienti rianimati con successo da arresto cardiaco muore prima della dimissione ospedaliera a causa di una condizione detta “sindrome post-arresto cardiaco”. La sindrome è un processo fisiopatologico che coinvolge tutti gli organi e che è la conseguenza sia dell’arresto cardiaco sia della successiva rianimazione. Infatti, oltre al danno ischemico causato dall’arresto cardiaco stesso, al momento del ripristino della circolazione spontanea, si instaurano eventi dannosi aggiuntivi attribuibili alla riperfusione sistemica ed alla riossigenazione. Tommaso Pellis et al. ci presentano l’opinione di un panel multisocietario di esperti nell’ambito dell’arresto cardiaco. Gli obiettivi sono quelli di offrire indicazioni chiare e realizzabili per implementare localmente un protocollo per il trattamento post-rianimazione; identificare i trattamenti da attuare nella sindrome post-arresto cardiaco per migliorare la sopravvivenza con buon recupero neurologico; favorire la rapida applicazione di trattamenti intensivi di “gestione della temperatura”. •