Documento di consenso SICI-GISE/SIN:
Danno renale acuto da mezzo di contrasto
in cardiologia interventistica

Federico Ronco1, Lorenzo Azzalini2, Carlo Briguori3, Laura Cosmai4, Maurizio D’Amico5,
Marina Di Luca6, Giovanni Esposito7, Antonino Granatelli8, Nicola Maddestra9, Federico De Marco10,
Alessio La Manna11, Mauro Maioli12, Giuseppe Musumeci13, Fabio Tarantino14, Chiara Venturelli15,
Giuliano Brunori15, Giuseppe Tarantini16

1U.O.S.D. Emodinamica, Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Ospedale dell’Angelo, AULSS3 Serenissima, Mestre (VE)

2Cardiac Catheterization Laboratory, The Mount Sinai Hospital, New York, NY, USA

3Cardiologia Interventistica, Mediterranea Cardiocentro, Napoli

4Nefrologia e Dialisi, ASST Santi Paolo e Carlo, Ospedale San Paolo, Milano

5S.C. Cardiologia Universitaria, Città della Salute e della Scienza di Torino, Torino

6Nefrologia e Dialisi, A.O. Ospedali Riuniti Marche Nord, Pesaro

7Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università degli Studi “Federico II”, Napoli

8U.O.C. Cardiologia-UTIC, Ospedale S. Giovanni Evangelista di Tivoli (RM), Dipartimento di Medicina, ASL Roma 5, Roma

9U.O. Emodinamica Diagnostica ed Interventistica, Dipartimento Cuore, ASL2 Lanciano-Vasto-Chieti, Ospedale SS. Annunziata, Chieti

10Cardiologia Clinica, UTIC e Interventistica, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato Milanese (MI)

11Divisione di Cardiologia, P.O. G. Rodolico, AOU Policlinico Vittorio Emanuele, Catania

12U.O. Cardiologia, Ospedale S. Stefano, Prato

13S.C. Cardiologia, A.O. Santa Croce e Carle, Cuneo

14U.O.S. Emodinamica - Laboratorio Provinciale, Forlì-Cesena, Dipartimento Cardiovascolare, AUSL della Romagna

15U.O.M. Nefrologia, APSS, Trento

16Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari, Policlinico Universitario di Padova, Centro Gallucci, Padova

Contrast-induced acute kidney injury (CI-AKI) is a serious complication that can affect outcome and prognosis of patients undergoing percutaneous diagnostic and interventional procedures. The Italian Society of Interventional Cardiology (SICI-GISE) has promoted a consensus project on the subject of CI-AKI in order to disseminate and implement nephroprotection strategies in interventional cardiology. The initiative was conducted in partnership with the Italian Society of Nephrology (SIN).

Key words. Acute kidney injury; Contrast dye; Contrast-induced acute kidney injury; Contrast-induced nephropathy; Interventional cardiology; Nephroprotection.

INTRODUZIONE

Nel 1954 è stato descritto il primo caso di danno renale acuto da mezzo di contrasto (contrast-induced acute kidney injury, CI-AKI) somministrato per via endovenosa, in un paziente sottoposto a pielografia con iniezione endovenosa di mezzo di contrasto iodato (MCI)1. Il sempre maggior impiego di procedure diagnostiche e interventistiche che richiedono l’utilizzo di MCI ha, nel corso degli anni, progressivamente aumentato la popolazione esposta al rischio di CI-AKI. Negli ultimi 30 anni in particolare, parallelamente al diffondersi delle procedure endovascolari, è cresciuta l’attenzione in merito al ruolo, possibile o definito, del MCI nel peggioramento della funzione renale nei pazienti sottoposti a indagini diagnostiche ed interventistiche cardiovascolari e sulle strategie per prevenirlo. Vi sono consolidate evidenze che dimostrano come il CI-AKI rappresenti una complicanza con serio impatto clinico sia in termini di mortalità che di morbilità2. I pazienti che afferiscono ai laboratori di emodinamica sono spesso di per sé soggetti a rischio di sviluppare un deterioramento della funzione renale a prescindere dall’esposizione al MCI3. Il rischio di insorgenza di CI-AKI determina frequentemente una scelta verso terapie conservative in popolazioni particolarmente fragili, come ad esempio i grandi anziani, nonostante i benefici dimostrati dagli approcci interventistici endovascolari4. È evidente quindi come sia di fondamentale importanza un corretto approccio clinico al paziente a rischio di CI-AKI, per prevenire e gestire al meglio delle evidenze disponibili questa complicanza clinicamente impattante e allo stesso tempo per non precludere ai pazienti più fragili i comuni standard di cura.

La Società Italiana di Cardiologia Interventistica (SICI-GISE) si è posta l’obiettivo con questo documento di consenso di farsi promotrice della sensibilizzazione sulle strategie di prevenzione e gestione del CI-AKI nei laboratori di Emodinamica, considerata la crescente complessità dei pazienti trattati. Il progetto è stato sviluppato con la preziosa collaborazione della Società Italiana di Nefrologia (SIN), che ha contribuito attivamente con la propria supervisione allo svolgimento dei lavori.

MATERIALI E METODI

Un panel di esperti, formato da cardiologi interventisti e nefrologi, coordinato da uno Steering Committee, è stato selezionato in base alle competenze specifiche nel settore, usando come criteri l’attività clinica e la produzione scientifica sull’argomento, garantendo l’adeguata rappresentanza geografica del panorama italiano.

È stato utilizzato un approccio Delphi utilizzando il modello Delphi modificato, con la revisione dettagliata della letteratura ed il giudizio collettivo di esperti. L’interazione tra gli esperti è avvenuta a distanza con l’ausilio di email, conference call e in occasione di un consensus meeting plenario.

Il percorso di consensus si è svolto in cinque fasi:

• Fase 1: sono stati individuati i punti chiave di discussione con la produzione di quesiti clinici per i quali è stata considerata indicata una dichiarazione di consenso.

• Fase 2: è stata eseguita una ricerca sistematica della letteratura per raccogliere le evidenze sulla base delle quali preparare le dichiarazioni di consenso in risposta ai quesiti chiave. Tutti gli articoli che studiano i rischi correlati all’impiego di MCI in procedure di diagnostica e interventistica endovascolare, con l’esclusione delle procedure di neuroradiologia interventistica intracranica, sono stati selezionati mediante l’indicazione del titolo e dell’estratto. Sono stati esclusi gli articoli che riportavano rischi relativi ai mezzi di contrasto basati sul gadolinio e i lavori in cui la somministrazione avveniva per via endovenosa. Sono stati inclusi studi pubblicati fino a giugno 2019.

• Fase 3: sulla base della bibliografia raccolta sono state formulate le risposte ai quesiti chiave. Queste sono quindi state sottoposte alla revisione del panel di esperti, per verificare il grado di consenso e per le modifiche del caso sulla base dei feedback.

• Fase 4: i risultati delle prime tre fasi dei lavori sono stati discussi in occasione del Consensus Meeting tenutosi a Milano nel giugno 2019. In tale occasione sono state apportate le modifiche definitive agli statement ed è stato espresso il grado di consenso per ognuno dei punti chiave.

• Fase 5: il presente documento, frutto del percorso di consenso, è stato revisionato dai membri del panel e dallo Steering Committee fino alla versione finale.

COME DEFINIRE IL DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO NEI PAZIENTI SOTTOPOSTI A PROCEDURE DI DIAGNOSTICA E INTERVENTISTICA CARDIOVASCOLARI?

La condizione clinica caratterizzata dal peggioramento della funzione renale in seguito alla somministrazione di MCI veniva in passato denominata ”insufficienza renale acuta da mezzo di contrasto” o “nefropatia da mezzo di contrasto” (contrast-induced nephropathy [CIN] o radio contrast-induced nephropathy) con particolare riferimento alla perdita di funzione – insufficienza d’organo secondaria all’insulto iatrogeno. Il gruppo di esperti Acute Dialysis Quality Initiative (ADQI), sviluppando i criteri RIFLE per la diagnosi e la classificazione dell’insufficienza renale acuta, ha spostato l’attenzione dall’insufficienza d’organo al concetto di rischio e di danno d’organo, con l’obiettivo di sottolineare l’importanza di una diagnosi precoce che permetta di attuare provvedimenti terapeutici tempestivi, in una finestra fisiopatologica in cui la perdita di funzione non sia irreversibile e definitiva, ma vi possa ancora essere una restitutio ad integrum della funzionalità renale5. È quindi più corretto che oggigiorno si parli di “danno renale acuto da mezzo di contrasto” (CI-AKI).

La maggior parte della letteratura sul CI-AKI utilizza criteri diagnostici basati sull’aumento di un biomarcatore (criterio laboratoristico), prevalentemente la creatinina sierica (SCr) in termini assoluti o percentuali, o sulla riduzione della diuresi (criterio clinico) in un intervallo di tempo definito. I valori di riferimento e cut-off di tali variabili sono stati e sono tuttora oggetto di discussione. L’adozione non uniforme dei criteri diagnostici del CI-AKI rende complessa l’analisi epidemiologica di questa condizione clinica.

Le linee guida nefrologiche KDIGO 2012 ritengono opportuno uniformare i criteri diagnostici tra tutte le forme di danno renale acuto (AKI) e pertanto non ravvedono motivi per cui il CI-AKI non debba sottostare agli stessi valori di riferimento delle altre forme di AKI6. Raccomandano di utilizzare i criteri promossi dall’Acute Kidney Injury Network (AKIN), che ha aggiornato i criteri RIFLE definendo l’AKI come un incremento della SCr ≥0.3 mg/dl (26.5 μmol/l), o un aumento della SCr ≥50% rispetto al basale, quando questo avvenga nelle prime 48 h dall’esposizione al MCI7.

Da notare che la definizione di CI-AKI più utilizzata in letteratura, in particolare negli studi pubblicati prima del 2012, presenta un cut-off differente e consiste nell’aumento della SCr ≥0.5 mg/dl (44 μmol/l) o del 25% rispetto al basale, entro le 48 h dopo l’esposizione al MCI. In particolare l’incremento assoluto di almeno 0.5 mg/dl di SCr ha dimostrato, rispetto all’incremento percentuale del 25%, una maggior specificità nell’individuare i soggetti a rischio di maggior mortalità e morbilità8. Questa definizione, che si è dimostrata affidabile nel predire eventi avversi cardiovascolari nei pazienti sottoposti a procedure interventistiche cardiovascolari9, ha però lo svantaggio di essere potenzialmente troppo restrittiva e di avere una minor sensibilità nell’individuare pazienti a rischio di CI-AKI. In un recente studio di comparazione di tre diversi criteri diagnostici di CI-AKI, Guillon et al.10 hanno dimostrato come il criterio più efficace ai fini prognostici, nei pazienti sottoposti a coronarografia per sindrome coronarica acuta, sia l’aumento assoluto di SCr ≥0.3 mg/dl.

In una minoranza di casi può essere riscontrato un picco di incremento della SCr fino a 5-7 giorni dall’esposizione al MCI, in molti di questi casi si parla di un’AKI associata alla somministrazione di MCI più che di un dimostrabile rapporto causa-effetto (contrast-associated AKI). In uno studio prospettico è emerso come una minima variazione percentuale di SCr nelle prime 12 h dopo la somministrazione di MCI sia il miglior fattore predittivo di CI-AKI con una forte correlazione anche con l’insorgenza di insufficienza renale a 30 giorni11.

La definizione di CI-AKI basata sulla variazione della SCr in un intervallo di tempo presenta dei limiti dovuti al fatto che i pazienti sottoposti a procedure diagnostiche ed interventistiche cardiovascolari, tanto più se ospedalizzati, rappresentano una popolazione di per sé a rischio di sviluppare un peggioramento della funzione renale non tanto per l’effetto diretto del MCI, quanto per le condizioni cliniche di base e le comorbilità che predispongono o contribuiscono all’AKI. È quindi importante, per una corretta diagnosi di CI-AKI, l’esclusione di altre cause di AKI.

Nuovi biomarcatori sono in corso di validazione con l’obiettivo di permettere, nel prossimo futuro, una diagnosi più accurata e tempestiva del CI-AKI. Esistono ancora alcuni dubbi sulla specificità di questi biomarcatori nelle differenti popolazioni di pazienti esposti a MCI. Ulteriori dati, derivanti da trial clinici multicentrici, sono necessari per valutare se questi nuovi biomarcatori siano effettivamente utilizzabili nella pratica clinica quotidiana.




Implicazioni pratiche

Parte dell’attività diagnostica ed interventistica nei laboratori di Emodinamica viene oggigiorno eseguita in regime di day-hospital o con ricoveri brevi inferiori alle 48 h. Il gruppo di lavoro non ravvede particolari impedimenti all’attuazione del criterio diagnostico proposto, che prevede il dosaggio della SCr a 48 h dalla procedura con MCI, poiché i pazienti comunemente sottoposti a procedure nel contesto di ricoveri brevi sono generalmente i soggetti con un profilo di rischio più basso. D’altro canto il dosaggio della SCr può essere eseguito ambulatoriamente, se indicato, e non rappresenta motivo di ampliamento dei tempi di degenza.

QUAL È L’IMPATTO CLINICO-EPIDEMIOLOGICO DEL DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO? VI SONO DIFFERENZE TRA LE DIVERSE PROCEDURE DIAGNOSTICHE ED INTERVENTISTICHE CARDIOVASCOLARI?

L’incidenza di CI-AKI nei pazienti sottoposti a procedure diagnostiche e interventistiche endovascolari è molto variabile in letteratura e ciò è dovuto principalmente all’utilizzo di diverse definizioni di CI-AKI, all’eterogeneità delle popolazioni indagate e alle differenti procedure oggetto di studio. È stato dimostrato, infatti, che in una medesima popolazione di pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica (PCI), l’incidenza di CI-AKI può variare dal 3.3% al 10.2% a seconda che si utilizzi come criterio diagnostico l’aumento assoluto della SCr ≥0.5 mg/dl oppure un aumento relativo della SCr ≥25% rispetto al basale12. La maggioranza dei dati epidemiologici disponibili deriva da studi che hanno utilizzato come criterio diagnostico un aumento della SCr ≥0.5 mg/dl o ≥25% rispetto al basale nelle 48 h successive all’esposizione al MCI.

Si stima che il CI-AKI rappresenti la terza causa di AKI nei pazienti ospedalizzati, dopo l’insufficienza renale pre-renale da ridotta perfusione e quella dovuta alla somministrazione di farmaci nefrotossici, rappresentando circa il 10% di tutti i casi di AKI3.

Negli ultimi anni, pur con i limiti di un’analisi epidemiologica menzionati, l’incidenza di CI-AKI sembra essere in calo, in particolare grazie ad una maggior consapevolezza e sensibilizzazione degli attori coinvolti nella gestione dei pazienti, alla riduzione delle dosi di MCI, all’utilizzo di strategie preventive e all’impiego di MCI meno nefrotossici13.

Nei pazienti sottoposti a PCI vi sono evidenze sempre più solide sulla maggior sicurezza dell’approccio radiale rispetto al femorale, in particolare per l’abbattimento delle complicanze emorragiche. Studi recenti hanno dimostrato come tra i vantaggi dell’approccio radiale vi sia anche la riduzione del rischio di CI-AKI14,15. In particolare, nei pazienti sottoposti a procedure percutanee nel contesto di sindromi coronariche acute, la popolazione trattata con l’approccio radiale ha mostrato una minor incidenza di CI-AKI rispetto all’approccio femorale16.

Nei pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) la rivascolarizzazione percutanea con PCI primaria (pPCI) rappresenta il caposaldo del trattamento in acuto. L’incidenza di CI-AKI nei pazienti trattati con pPCI in corso di STEMI varia da 10.5% a 18.3% a seconda della definizione utilizzata di CI-AKI, con un significativo impatto sulla mortalità17.

Evidenze recenti indicano però che il ruolo del MCI nel peggioramento della funzione renale potrebbe essere sovrastimato. Uno studio di confronto tra pazienti esposti a MCI durante pPCI e pazienti trattati con fibrinolisi ha infatti mostrato come l’incidenza di AKI nei due gruppi sia simile e dipenda prevalentemente dall’età, dalla velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) di base, dalla presenza di insufficienza cardiaca e dall’instabilità emodinamica più che dall’esposizione al MCI18.

Numerosi studi hanno dimostrato come la diagnosi di CI-AKI sia correlata con una peggior sopravvivenza a medio e lungo termine19. Ad esempio uno studio di McCollough et al.20 su una popolazione di 1826 pazienti consecutivi sottoposti a procedure interventistiche coronariche, ha mostrato come la mortalità intraospedaliera per i 264 pazienti (14.4%) che avevano sviluppato CI-AKI (definita come aumento del 25% della SCr nei 5 giorni successivi alla procedura) fosse significativamente maggiore rispetto a quella dei pazienti che non avevano sviluppato CI-AKI (7.1 vs 1.1%, p<0.0000001; odds ratio [OR] per la mortalità intraospedaliera associata a CI-AKI 6.56, intervallo di confidenza [IC] 95% 3.34-12.92; p<0.00001). James et al.21, in uno studio retrospettivo su 14 782 pazienti, hanno dimostrato come il CI-AKI abbia un impatto clinico significativo anche nel lungo periodo con aumento della mortalità a lungo termine, peggioramento dell’insufficienza renale fino alla necessità di dialisi e aumento delle ospedalizzazioni per eventi cardiovascolari e renali.

Il CI-AKI può esitare in una insufficienza renale cronica (chronic kidney disease, CKD) oppure, come avviene nella maggior parte dei casi, può verificarsi un transitorio peggioramento della funzione renale e successivamente una restitutio ad integrum funzionale. In pazienti con CKD preesistente di grado almeno moderato, definita con eGFR <60 ml/min, il peggioramento persistente della funzione renale dopo CI-AKI si associa ad una prognosi peggiore a 5 anni rispetto ai pazienti in cui si verifica un CI-AKI transitorio (p<0.015)22. In uno studio retrospettivo su pazienti sottoposti a PCI, la maggior parte dei pazienti con CI-AKI a distanza di 1 anno presenta la normalizzazione della funzione renale. La prognosi risulta peggiore per quei pazienti (circa l’1.3% del totale della popolazione indagata) che a distanza di 1 anno mantengono un danno renale persistente23.

L’insorgenza di CI-AKI sembra avere un impatto significativo non soltanto sulla mortalità da tutte le cause ma anche sull’outcome delle stesse procedure interventistiche. In un registro di 5967 pazienti sottoposti ad PCI, la diagnosi di CI-AKI era associata a un rischio significativamente aumentato di infarto miocardico acuto e di rivascolarizzazione della lesione target a distanza di 1 anno19.

D’altro canto, l’insorgenza di CI-AKI nei pazienti trattati con PCI nel contesto di sindromi coronariche acute è associata non soltanto all’aumento degli eventi ischemici ma anche degli eventi emorragici sia a breve che a lungo termine24.

L’incidenza di CI-AKI nei pazienti sottoposti a PCI per occlusioni croniche risulta non essere significativamente maggiore rispetto a pazienti sottoposti a PCI su lesioni non occlusive (9.4 vs 12.1%, p=0.17)25. I pazienti con CKD preesistente risultano essere i pazienti più a rischio rispetto ai pazienti con normale funzionalità renale al momento della procedura. La necessità di terapie sostitutive resta comunque bassa (0.5% nei pazienti con CKD vs 0% nei pazienti non CKD26) e rarissimi sono quei casi in cui la terapia sostitutiva renale debba essere proseguita indefinitamente. I pazienti sottoposti a rivascolarizzazione periferica per via percutanea, in particolare i pazienti con ischemia acuta o critica degli arti inferiori, rappresentano una popolazione particolarmente fragile spesso con importanti comorbilità. Anche in questi pazienti l’insorgenza di CI-AKI è associata a un significativo aumento della mortalità27. Le differenti definizioni di CI-AKI utilizzate e l’eterogeneità dei pazienti con ateromasia periferica sottoposti a procedure angiografiche e di rivascolarizzazione percutanea, rendono complessa un’analisi epidemiologica affidabile. In una rassegna sistematica della letteratura del 2016 si stima in circa l’11% l’incidenza di CI-AKI in questa popolazione, ma probabilmente è sottostimata28. I dati ricavati da un registro prospettico su circa 450 pazienti sottoposti a stenting carotideo indicano un’incidenza piuttosto elevata di CI-AKI (circa 34%) in questa popolazione di pazienti29. Da notare che in questo studio sono stati utilizzati criteri diagnostici che prevedevano un aumento della SCr ≥0.3 mg/dl o un aumento della SCr ≥1.5 volte rispetto al basale oppure un incremento della SCr >50% rispetto al basale, nelle 48 h successive alla procedura. Nei pazienti affetti da stenosi valvolare aortica severa con indicazione a sostituzione valvolare, l’impianto di bioprotesi transcatetere per via percutanea (TAVI) ha dimostrato una maggior sicurezza rispetto alla sostituzione chirurgica tradizionale per quanto riguarda l’incidenza di AKI30. L’incidenza di CI-AKI nei pazienti sottoposti a TAVI resta comunque piuttosto elevata, in particolare nei pazienti ad alto rischio, circa 22%, e particolarmente impattante sulla prognosi31. L’incidenza di CI-AKI nei pazienti sottoposti a riparazione endovascolare dell’aorta toracica con endoprotesi è stimata in circa il 14%, con un significativo impatto sui tempi di ospedalizzazione e mortalità intraricovero32. Per quanto riguarda i pazienti trattati con impianto di endoprotesi in aorta addominale l’incidenza di CI-AKI sembra essere inferiore, circa il 7%, anche in questo caso con dimostrata riduzione della sopravvivenza33. In un registro multicentrico di 355 pazienti sottoposti a chiusura percutanea dell’auricola sinistra (pLAAO) è stata riscontrata un’incidenza di CI-AKI del 9%, definito come SCr ≥0.3 mg/dl o ≥50% rispetto al basale, nelle 48 h successive all’intervento. I pazienti sottoposti a pLAAO complicata da CI-AKI hanno una mortalità elevata ad 1 anno, circa 23%, più di 2 volte superiore ai pazienti che non presentano CI-AKI (circa 9.8%)34.




Implicazioni pratiche

La diffusione dei criteri diagnostici KDIGO implicherà verosimilmente un incremento nell’incidenza di CI-AKI grazie alla maggiore sensibilità del cut-off di SCr (più basso rispetto a quello impiegato maggiormente in passato: SCr ≥0.3 mg/dl vs SCr ≥0.5 mg/dl).

QUAL È LA FISIOPATOLOGIA DEL DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

La fisiopatologia del CI-AKI è complessa e la maggior parte delle nozioni al riguardo proviene da studi in vitro e su animali.

Il rene riceve circa il 25% del sangue arterioso di ogni gittata cardiaca. La maggior parte di questo flusso sanguigno irrora la corticale, mentre la midollare viene vascolarizzata da un circolo a bassa pressione formato prevalentemente dai vasa recta. È proprio la midollare del rene, la porzione più vulnerabile al danno da MCI. Si ritiene che vi siano tre meccanismi principali che concorrono al danno renale dopo somministrazione di MCI35 (Figura 1). Questi sono:

– il danno citotossico diretto del MCI sulle cellule tubulari,

– il danno mediato da radicali liberi dell’ossigeno,

– l’ipossia su base emodinamica.

L’effetto combinato di questi tre meccanismi, fisiopatologicamente non disgiunti tra loro, nei casi più gravi ha come esito finale la necrosi tubulare acuta36.




Danno citotossico diretto

Tutti i tipi di MCI, e tra questi i MCI ad alta osmolarità in particolare, hanno un effetto citotossico su culture in vitro di cellule tubulari renali. Il meccanismo di tossicità diretta del MCI non è del tutto chiaro ma sono stati descritti diversi effetti dannosi: apoptosi, ridistribuzione delle proteine di membrana, riduzione del calcio intracellulare, frammentazione del DNA, alterazione delle giunzioni intercellulari, riduzione della proliferazione cellulare e alterata funzionalità mitocondriale.

Radicali liberi dell’ossigeno

I radicali liberi conosciuti come specie reattive dell’ossigeno (ROS), come ad esempio l’H2O2, rivestono un ruolo fisiologicamente importante nella normale omeostasi della midollare renale; sono infatti implicati nella trasmissione di segnali intercellulari, nella regolazione del microcircolo e nel controllo dei trasporti tubulari. L’ipossia che viene a crearsi nelle cellule tubulari della midollare dopo somministrazione di MCI, caratterizzata dalla discrepanza tra incremento della domanda e riduzione dell’offerta di ossigeno, porta ad un patologico aumento delle ROS che, in eccesso, innescano il danno da stress ossidativo a carico di membrane cellulari, DNA nucleare e mitocondri. Le ROS causano infine a loro volta una vasocostrizione mediata dall’aumento di endotelina 1 e angiotensina II e riduzione di ossido nitrico circolante, aggravando l’ipossia.

Ipossia su base emodinamica

I MCI hanno un effetto diretto bifasico sulla vascolarizzazione renale: vi è una breve, transitoria, vasodilatazione seguita da una prolungata vasocostrizione tale da ridurre significativamente il flusso di sangue arterioso. L’ipossia che si viene a creare nella midollare ha un effetto ancor più grave poiché contemporaneamente si verifica un aumento della domanda di ossigeno da parte delle cellule tubulari. Ne risulta un danno ischemico che comporta la perdita della fisiologica regolazione dei mediatori implicati nella vasodilatazione e nella vasocostrizione con il conseguente instaurarsi di un circolo vizioso che prolunga l’ipossia.

È comunemente accettato che a questi meccanismi si aggiunga l’insulto ischemico su base microembolica, non dovuto direttamente al MCI ma secondario alle manovre invasive endovascolari, in pazienti con diffusa ateromasia dell’aorta toraco-addominale37. Come già accennato nei paragrafi precedenti, i pazienti ospedalizzati per problematiche cardiovascolari hanno un’incidenza piuttosto elevata di AKI anche se non esposti a MCI, dovuta alla patologia di base (es. danno pre-renale da bassa portata) o alla concomitante somministrazione di farmaci nefrotossici. È chiaro quindi come sia spesso complesso distinguere nel dettaglio il ruolo diretto del MCI nell’AKI del paziente trattato per via endovascolare, dalle altre eventuali cause concomitanti.




QUALI SONO I PREDITTORI E GLI SCORE DI RISCHIO DI INSORGENZA DI DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO E QUALE UTILITÀ HANNO NELLA PRATICA CLINICA QUOTIDIANA?

La possibilità di individuare i pazienti a più alto rischio di CI-AKI permette di informare e condividere con il paziente il rapporto rischio/beneficio delle opzioni terapeutiche proposte, di attuare strategie preventive pre-procedurali e di programmare il follow-up post-procedurale.

La maggior parte delle informazioni sui predittori di CI-AKI proviene da studi su pazienti sottoposti a procedure interventistiche coronariche. I fattori di rischio o predisponenti il CI-AKI individuati riguardano:

– le caratteristiche cliniche del paziente (eGFR ≤60 ml/min/1.73 m2, età, diabete, anemia, scompenso cardiaco congestizio, ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra);

– il contesto clinico di presentazione (shock, ipovolemia, procedura urgente/emergente, concomitante utilizzo di farmaci nefrotossici, insufficienza renale acuta da altre cause);

– aspetti procedurali (utilizzo del contropulsatore aortico, dose e tipo di mezzo di contrasto, accesso arterioso) (Tabella 1).




È dimostrato come la presenza di più variabili nel medesimo paziente aumenti in maniera esponenziale il rischio di CI-AKI. Su queste basi sono stati sviluppati diversi modelli e score di rischio attraverso studi retrospettivi su popolazioni di pazienti sottoposti a procedure interventistiche coronariche.

Lo score di rischio più noto è quello proposto da Mehran et al.38 e si basa sulla rilevazione di 8 variabili legate al paziente e alla procedura. Questo modello si è dimostrato affidabile nell’identificare i pazienti a minor e maggior rischio di CI-AKI (incidenza di CI-AKI 8.4% nei pazienti con score ≤5 vs 55.9% nei pazienti con score ≥16). Il sistema ha il limite di non essere applicabile per la stratificazione del rischio pre-intervento, poiché, per l’elaborazione dello score, sono necessari alcuni dati procedurali come ad esempio il volume di MCI utilizzato. Anche il modello descritto da Laskey et al.39, basato sul rapporto tra volume di MCI/clearance della creatinina (ClCr) (se >3.7 risulta un predittore indipendente di CI-AKI post-PCI) ha il limite di poter individuare i pazienti a più alto rischio di CI-AKI soltanto dopo la procedura.

Alcuni autori hanno posto dei dubbi sull’applicabilità degli score di rischio nella pratica clinica quotidiana poiché nella maggior parte dei casi questi modelli non sono stati validati in studi prospettici. Gli stessi autori propongono una stratificazione del rischio semplificata, basata sulla presenza di due variabili come CKD e diabete40.

Brown et al.41 hanno sottolineato l’importanza della stima del rischio di CI-AKI prima della procedura, in particolare con l’obiettivo di individuare i pazienti a rischio di sviluppare un CI-AKI severo clinicamente rilevante (definito come incremento della creatininemia ≥2 mg/dl o ≥50% rispetto al basale o ancora come necessità di trattamento sostitutivo renale). Tra le 7 variabili oggetto del modello, la disfunzione renale preesistente, lo scompenso cardiaco ed il diabete sono le più importanti, costituendo il 76% dell’abilità predittiva. Le altre variabili indagate sono il carattere di urgenza/emergenza della procedura, la necessità di contropulsatore aortico pre-procedurale, l’età ≥80 anni e il sesso femminile. Poiché questo score individua i pazienti a rischio di CI-AKI più severo, che a sua volta correla significativamente con la mortalità, gli autori sottolineano come il modello possa essere utilizzato per identificare i pazienti a più alto rischio di eventi avversi in generale post-PCI.

Un altro modello di rischio basato su variabili esclusivamente pre-procedurali è quello proposto da Gurm et al.42, sempre per pazienti candidati a PCI. Il modello si basa su 15 variabili e, per l’elaborazione dello score, è necessario un PC o uno smart device. Il vantaggio di questo modello è la maggior accuratezza nel discriminare i pazienti a più alto rischio rispetto ad esempio al Mehran risk score. La relativa complessità di utilizzo ne ha però limitato la diffusione nella pratica clinica.

Capodanno et al.43 hanno dimostrato la validità nella stratificazione del rischio di CI-AKI del modello ACEF, già utilizzato come strumento prognostico nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione coronarica chirurgica o percutanea, basato su 3 variabili semplici da verificare come età, SCr basale e frazione di eiezione ventricolare sinistra.




Implicazioni pratiche

L’individuazione dei soggetti a rischio più elevato di CI-AKI presenta diverse implicazioni pratiche:

– concentrazione delle risorse nell’attuazione di strategie preventive e di monitoraggio nei pazienti a più alto rischio (es. impiego di presidi/dispositivi, test laboratoristici, ecc.);

– maggiori elementi di discussione con paziente e familiari per condividere le strategie diagnostiche e terapeutiche con relativi rischi e benefici (vedi consenso informato);

– programmazione dei tempi di ricovero, follow-up.

È INDICATO UN PRE-TRATTAMENTO FARMACOLOGICO PER RIDURRE IL RISCHIO DI DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

Sulla base dei presupposti fisiopatologici del danno renale da MCI, sono stati studiati e proposti numerosi protocolli di pre-trattamento farmacologico, con l’obiettivo di ridurre l’incidenza di CI-AKI. L’eterogeneità dei dati disponibili in letteratura, tuttora oggetto di dibattito, non consente di formulare indicazioni conclusive sulla migliore strategia farmacologica per la prevenzione del CI-AKI. Di seguito sono elencate e discusse le evidenze più significative.

Idratazione

La somministrazione di liquidi rappresenta la più diffusa, e apparentemente più semplice ed economica, strategia preventiva del CI-AKI nei pazienti candidati a procedure invasive percutanee. Le linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) raccomandano in classe I (livello di evidenza C) che tutti i pazienti sottoposti a coronarografia ricevano un’adeguata idratazione e, in particolare, raccomandano che i pazienti con insufficienza renale moderata o severa (National Kidney Foundation stadi 3b e 4) ricevano 1 ml/kg/h di soluzione salina isotonica nelle 12 h precedenti la procedura e nelle 24 h successive (0.5 ml/kg/h se frazione di eiezione ≤35%) con classe di raccomandazione IIa, livello di evidenza C44. È stato dimostrato infatti che l’idratazione per via endovenosa controllata, iniziata 12 h prima della procedura e proseguita per un totale di 24 h, risulta più efficace rispetto alla somministrazione per via orale45,46, anche se tale approccio risulta di difficile applicazione nei pazienti acuti o con ricovero in regime di day-hospital. La somministrazione endovenosa di soluzione salina isotonica allo 0.9% è risultata essere superiore in termini di efficacia nella prevenzione del CI-AKI, rispetto ad altre soluzioni come ad esempio la salina 0.45% associata a glucosata 5% (in 1620 pazienti randomizzati , incidenza di CI-AKI 0.7% per soluzione salina 0.9% vs 2.0% per la soluzione salina 0.45% + glucosata 5%, p=0.04)47. In assenza di evidenze su quale fosse il regime ottimale di idratazione, Brar et al.48 hanno dimostrato la superiorità in termini di efficacia di un riempimento volemico modulato sull’emodinamica del singolo paziente (nel caso specifico il parametro monitorato era la pressione telediastolica ventricolare sinistra, misurata con un pigtail in ventricolo sinistro), rispetto ad un regime di idratazione standard. Dal punto di vista pratico tale approccio risulta però difficilmente attuabile nella pratica clinica standard. Nello studio di Qian et al.49, 264 pazienti con scompenso cardiaco e CKD sono stati randomizzati a un protocollo di idratazione modulata sulla pressione venosa centrale vs un regime di idratazione standard: anche in questo caso il riempimento volemico basato su parametri emodinamici ha dimostrato una superiorità nel prevenire il CI-AKI rispetto al gruppo di controllo. Maioli et al.50,51 hanno dimostrato l’efficacia di un’adeguata espansione volemica, modulata in base alla bioimpedenziometria.

In tutti gli studi in cui l’idratazione era corretta secondo parametri emodinamici/bioimpedenziometrici si è verificata una somministrazione di volumi maggiori di soluzione salina rispetto ai controlli con riempimento volemico non corretto, indicando che i regimi standard di idratazione sono probabilmente inferiori a quanto necessario per ottenere un’adeguata nefroprotezione. Questo presupposto può spiegare il perché, nella metanalisi di Giacoppo et al.52, che ha confrontato fra loro 10 diversi approcci preventivi, l’idratazione non modulata in base a parametri emodinamici, è risultata essere la strategia con minor efficacia nella prevenzione del CI-AKI. Probabilmente per lo stesso motivo, anche nello studio AMACING l’idratazione, somministrata con due protocolli non corretti sulla risposta del paziente (0.9% NaCl 3-4 ml/kg/h 4 h prima e 4 h dopo la somministrazione di MCI oppure 0.9% NaCl 1 ml/kg per 12 h prima e 12 h dopo la procedura angiografica), si è dimostrata non efficace nel prevenire il CI-AKI, confrontata con il gruppo controllo di pazienti non idratati53.

N-acetlcisteina

L’N-acetilcisteina è stata proposta come pre-trattamento farmacologico per ridurre l’incidenza di CI-AKI, considerato il suo effetto antiossidante e vasodilatatore54. Gli studi sul potenziale beneficio dell’N-acetilcisteina in termini di prevenzione del CI-AKI hanno però fornito nel corso degli anni risultati contrastanti55. In uno studio randomizzato su 183 pazienti con CKD sottoposti a procedure percutanee coronariche o periferiche, in cui veniva testata la pre-medicazione con idratazione associata a 600 mg bid di N-acetilcisteina vs sola idratazione, è stata dimostrata l’assenza di beneficio del pretrattamento con N-acetilcisteina in termini di riduzione del CI-AKI56. Il trial PRESERVE ha recentemente confermato l’inefficacia clinica dell’N-acetilcisteina nella prevenzione del CI-AKI57. Da notare che la stragrande maggioranza degli studi con esito negativo sull’effetto nefroprotettivo dell’N-acetilcisteina prevedevano la somministrazione per via orale, caratterizzata da una scarsa biodisponibilità del farmaco dovuta al metabolismo di primo passaggio. D’altro canto, anche dopo somministrazione per via endovenosa la concentrazione plasmatica di N-acetilcisteina libera circolante risulta molto bassa, a causa del legame con proteine plasmatiche e tissutali.

Bicarbonato

Il pre-trattamento con sodio bicarbonato è stato proposto come superiore in termini di efficacia nella riduzione dell’incidenza di CI-AKI, rispetto alla sola idratazione con salina, grazie all’effetto alcalinizzante sull’urina tubulare con riduzione della formazione di radicali liberi dell’ossigeno58. Dalla letteratura emergono però dati contrastanti in merito alla reale efficacia nella pratica clinica del pre-trattamento con bicarbonato nella prevenzione del CI-AKI. Brar et al.59, in una revisione della letteratura, hanno riscontrato come dai trial clinici più grandi e metodologicamente più corretti non risulti una superiorità della pre-medicazione con bicarbonato rispetto all’idratazione con soluzione salina nella prevenzione del CI-AKI. Nel trial PRESERVE il pre-trattamento con sodio bicarbonato non ha mostrato alcun beneficio nella prevenzione del CI-AKI, rispetto ai protocolli che prevedevano la somministrazione di N-acetilcisteina, soluzione fisiologica o placebo57.

Statine

Studi in vitro e su modelli animali hanno portato a ritenere che le statine possano esercitare un’azione “nefroprotettiva” rispetto al MCI, grazie all’effetto antinfiammatorio e alla capacità delle statine stesse di ridurre l’apoptosi cellulare.

Nella metanalisi di Thompson et al.60 su 19 trial clinici randomizzati per un totale di 7161 pazienti, sembra confermarsi questo effetto protettivo delle statine nei confronti del CI-AKI anche se meno evidente nei soggetti con CKD.

In una metanalisi su 124 trial (28 240 pazienti), confrontando le 10 strategie di pre-trattamento più studiate, il pre-trattamento con statine è risultato essere l’unico efficace nel ridurre il rischio di CI-AKI52. Sulla base di questi dati, le linee guida ESC raccomandano la somministrazione di statine ad alto dosaggio (atorvastatina 80 mg o rosuvastatina 20 o 40 mg) in pazienti naive prima dell’esposizione a MCI (classe di raccomandazione IIa, livello di evidenza A)44.




Implicazioni pratiche

– I protocolli di idratazione raccomandati dalle linee guida sembrano non essere sufficienti per garantire un’adeguata nefroprotezione nei pazienti a rischio di CI-AKI. Gli studi clinici in cui l’idratazione è corretta secondo parametri emodinamici o bioimpedenziometrici, mostrano come i volumi di soluzione salina da infondere siano più consistenti rispetto a quanto comunemente raccomandato. D’altro canto molti pazienti afferenti ai laboratori di Emodinamica sono in trattamento per scompenso cardiaco e un’idratazione aggressiva può non essere attuabile o di difficile gestione. Per questi pazienti in particolare, è necessario un approccio personalizzato.

– La maggior parte dei pazienti sottoposti a procedure diagnostiche o interventistiche cardiovascolari è già in terapia con statine per la prevenzione primaria o secondaria.

VI È INDICAZIONE ALLA SOSPENSIONE DI PARTICOLARI TERAPIE FARMACOLOGICHE PER RIDURRE IL RISCHIO DI DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

Farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e sartani possono concorrere ad un peggioramento della funzione renale in determinate situazioni cliniche. La metformina è potenzialmente associata a un rischio aumentato di acidosi lattica in situazioni in cui ne sia ridotta l’escrezione. Vi sono dati contrastanti sull’opportunità di sospendere temporaneamente tali terapie in pazienti sottoposti a procedure che prevedano l’utilizzo di MCI. Di seguito sono riportate le principali evidenze.

Metformina

La metformina è l’antidiabetico orale più diffuso, appartiene alla categoria delle biguanidi, viene eliminata per il 90% per via renale e presenta un’emivita tra le 4 e le 9 h nei pazienti con funzione renale conservata. La metformina di per sé non è nefrotossica ma, in presenza di un quadro di insufficienza renale acuta, può accumularsi con il rischio potenziale di causare acidosi lattica, secondaria all’aumento della glicolisi anaerobia e all’inibizione della gluconeogenesi epatica. Il rischio di acidosi lattica da metformina aumenta in presenza di serie comorbilità come sepsi, insufficienza cardiaca, compromissione epatica, ed è associata a una mortalità fino al 50%. Sulla base di questi presupposti è stata consigliata la sospensione della metformina 48 h prima della somministrazione di MCI nei pazienti elettivi e il suo ripristino 48 h dopo l’esame61. In realtà nella pratica clinica l’acidosi lattica da metformina è un evento raro (≤10 casi su 100 000 pazienti trattati per anno) e descritto prevalentemente in casi clinici. Recentemente sono stati sollevati dubbi circa la consistenza delle evidenze alla base delle raccomandazioni sulla sospensione della metformina in tutti i pazienti sottoposti a procedure angiografiche, ed è stata sottolineata la necessità di indagare tale aspetto in trial randomizzati o ampi registri multicentrici62. Le linee guida ESC consigliano di sospendere la metformina in pazienti con CKD prima di una procedura con MCI e, se non possibile, raccomandano di controllare la funzione renale dopo la procedura nei pazienti che non hanno sospeso il farmaco, monitorando la comparsa di eventuali segni di acidosi lattica44. Le linee guida ESUR in un recente update, raccomandano di sospendere la metformina al momento della somministrazione del MCI nei pazienti con eGFR <30 ml/min/1.73 m2 63.

ACE-inibitori/sartani

Gli ACE-inibitori e i sartani sono considerati farmaci “nefroprotettivi” poiché, inibendo la conversione dell’angiotensina I in angiotensina II, o il recettore per l’angiotensina II, causano vasodilatazione dell’arteriola efferente e di conseguenza riducono la pressione intraglomerulare. Riducono inoltre la produzione di radicali liberi dell’ossigeno e aumentano la concentrazione di ossido nitrico, potente vasodilatatore che potenzialmente si contrappone all’effetto vasocostrittore del MCI. D’altro canto gli ACE-inibitori inibiscono la formazione di transforming growth factor-b, che è stato dimostrato prevenire il danno e la necrosi del tubolo prossimale. Vi sono quindi presupposti fisiopatologici contrastanti sul possibile effetto protettivo o lesivo degli ACE-inibitori e dei sartani sul nefrone esposto a MCI. Le evidenze sull’opportunità della sospensione di questi farmaci o sul loro mantenimento, in pazienti sottoposti a indagini angiografiche, sono contrastanti. Gli studi presenti in letteratura hanno popolazioni eterogenee, utilizzano svariati criteri per definire il CI-AKI e hanno indagato molecole e dosaggi differenti. I dati riguardanti i sartani sono scarsi. Cirit et al.64 hanno dimostrato un’incidenza di CI-AKI significativamente aumentata nei pazienti che assumevano ACE-inibitori in cronico prima della coronarografia, rispetto al gruppo di pazienti non in terapia con ACE-inibitori, mentre Gupta et al.65 in un trial clinico randomizzato hanno dimostrato che il pre-trattamento con captopril riduceva il rischio di CI-AKI del 79%. Il trial randomizzato CAPTAIN ha confrontato la strategia di sospensione della terapia con ACE-inibitori/sartani a partire da almeno 24 h prima della somministrazione di MCI vs il mantenimento della terapia; è stato riscontrato un trend, anche se non statisticamente significativo, di minor incidenza di CI-AKI nel gruppo di pazienti in cui era stata sospesa la terapia con ACE-inibitori/sartani con una significativa riduzione dell’aumento della SCr post-procedurale; gli autori pertanto consigliano di prendere in considerazione la sospensione di tali terapie in previsione di un esame angiografico, considerata la semplice applicazione di tale strategia preventiva66. Kalyesubula et al.67, in una revisione della letteratura sugli studi riguardanti l’effetto degli ACE-inibitori sull’incidenza di CI-AKI, concludono che il sospetto di un effetto potenzialmente dannoso del mantenimento della terapia con ACE-inibitori e sartani in termini di maggior incidenza di CI-AKI non sia bilanciato da solide evidenze su un effetto nefroprotettivo e che quindi la sospensione di tali terapie sia da prendere in considerazione nei pazienti a rischio di CI-AKI a partire dalle 24 h precedenti la procedura e che si possano somministrare nuovamente dopo 3 giorni dall’esame angiografico.

Farmaci antinfiammatori non steroidei

I FANS hanno un potenziale effetto nefrotossico attraverso la riduzione della perfusione renale mediata dall’inibizione delle prostaglandine, che regolano la vasodilatazione a livello glomerulare. Vi sono scarse evidenze in letteratura sull’opportunità di sospendere terapie con FANS nei pazienti sottoposti a indagini con MCI per ridurre il rischio di CI-AKI. In uno studio prospettico Weisbord et al.68 non hanno riscontrato una significativa riduzione dell’incidenza di CI-AKI nei pazienti in cui erano stati sospesi i FANS ma il campione indagato era limitato e non sono possibili considerazioni conclusive. Le raccomandazioni sulla sospensione o limitazione della prescrizione di FANS in pazienti sottoposti a procedure con MCI per ridurre il rischio di CI-AKI sono basate su opinioni di esperti in parte mutuate dalle esperienze in chirurgia.




ESISTE UN INTERVALLO DI TEMPO “SICURO” PER PROCEDURE MULTIPLE NELLO STESSO PAZIENTE E VI SONO EVIDENZE SULL’EFFETTO DOSE-DIPENDENTE DEL MEZZO DI CONTRASTO NEL DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

Il volume di MCI somministrato è considerato un fattore di rischio modificabile di CI-AKI69 e rappresenta una delle variabili presenti del Mehran risk score per CI-AKI38. In precedenza alcuni autori avevano dimostrato come non fosse il volume di MCI in termini assoluti a correlare con il rischio di CI-AKI ma la sua correzione in base alla SCr pre-procedura e al peso corporeo70, secondo una stima della massima dose di contrasto utilizzabile calcolata utilizzando la formula proposta da Cigarroa et al.71: [5 ml di MCI/peso corporeo in kg (max 300 ml)]/SCr in mg/dl. Più recentemente, il rapporto volume di MCI/ClCr <3.7 è risultato essere un cut-off con buona sensibilità e specificità nell’individuare i soggetti a rischio di sviluppare CI-AKI in una popolazione di 3179 pazienti non selezionati sottoposti a PCI, nelle 24 h post-procedura39. Altri autori hanno suggerito un cut-off più basso (MCI/ClCr <2.7) per i pazienti anziani sottoposti a TAVI, verosimilmente giustificato dalla maggior fragilità di questa particolare popolazione72.

Ulteriori studi hanno mostrato come la quantità di MCI somministrato durante le procedure diagnostiche e interventistiche endovascolari rappresenti un fattore di rischio per lo sviluppo di CI-AKI, in particolare in regime di urgenza/emergenza73.

Dall’analisi dei dati su 1.3 milioni di pazienti, ricavati dal National Cardiovascular Data Registry Cath PCI Registry, emerge una significativa variabilità interoperatore nella quantità di MCI utilizzato in media per procedura. Tale variabilità pare non sia correlata alla complessità delle procedure, e nei pazienti a più alto rischio di CI-AKI sembra non vi sia la tendenza a ridurre la quantità di MCI74. L’educazione sull’importanza di limitare la quantità di MCI somministrato durante le procedure può essere, secondo gli autori, un’importante opportunità per ridurre l’incidenza di CI-AKI. Sulla base di queste evidenze le linee guida ESC sulla rivascolarizzazione miocardica raccomandano che nei pazienti con CKD moderata o severa (CKD stadi 3b e 4) si limiti per quanto possibile il volume di MCI somministrato44. Sono state proposte alcune semplici precauzioni per ridurre quanto più possibile il volume di MCI durante le procedure diagnostiche ed interventistiche: preferire cateteri 5-6 F senza “side holes”, limitare le iniezioni “test” in scopia, ridurre il volume iniettato nelle varie acquisizioni al minimo indispensabile per una corretta visualizzazione, rimuovere il contrasto dal catetere grazie al “back bleeding” ad esempio prima di iniettare farmaci o nei cambi di materiali interventistici, sfruttare immagini acquisiste in precedenza (in particolare se si tratta di procedure interventistiche “staged”), preferire metodiche alternative all’angiografia per la caratterizzazione delle lesioni (es. ecografia intravascolare o valutazione funzionale)75.

Non vi sono attualmente studi che consentano di identificare un intervallo di tempo minimo da considerarsi “sicuro” per prevenire il CI-AKI nei soggetti a rischio più elevato.




VI SONO EVIDENZE CHE SUGGERISCANO L’UTILIZZO DI DETERMINATI MEZZI DI CONTRASTO PER RIDURRE IL RISCHIO DI DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

Le caratteristiche ideali dei MCI iniettati per via intra-arteriosa sono la capacità di opacizzare efficacemente i vasi oggetto dello studio e la tollerabilità da parte del paziente.

I MCI utilizzati per uso angiografico sono composti idrosolubili derivati dell’acido triodobenzoico classificati, sulla base delle loro caratteristiche chimico-fisiche (struttura molecolare, ionicità e osmolarità) in monomeri/dimeri, ionici/non ionici, ad alta/bassa iso-osmolarità (Tabella 2). I primi MCI utilizzati erano composti ionici ad elevata osmolarità (high osmolar contrast media, HOCM), erano causa di frequenti reazioni avverse ed erano mal tollerati dai pazienti76.

Oggigiorno i MCI utilizzati per via intra-arteriosa sono prevalentemente composti non ionici, a più bassa osmolarità rispetto a quelli utilizzati in passato (low osmolar contrast media, LOCM). Lo iodixanolo, è l’unico composto iso-osmolare (iso-osmolar contrast media, IOCM) in commercio ed è così definito poiché presenta la medesima osmolarità del sangue (280-295 mOsm/kg H2O), per confronto i LOCM hanno osmolarità da 2 a 3 volte quella del sangue (521-915 mOsm/kg H2O).

Un’altra caratteristica chimico-fisica che varia tra le varie molecole è la viscosità. Essa è peculiare di ogni molecola e dipende dalle dimensioni della stessa molecola e dalla concentrazione di iodio. È controverso se l’elevata viscosità sia da considerarsi come uno svantaggio nella comparazione dei vari MCI. La viscosità dipende anche dalla temperatura: riscaldare il MCI avvicinandone la temperatura a quella corporea, ne riduce sensibilmente la viscosità77.

In letteratura, numerosi studi hanno confrontato la sicurezza e la tollerabilità dei diversi mezzi di contrasto, in particolare è ancora oggetto di dibattito se lo IOCM sia meno nefrotossico rispetto ai LOCM.




Lo studio randomizzato multicentrico NEPHRIC ha confrontato la nefrotossicità dello iodixanolo vs iohexolo in pazienti diabetici con CKD, riscontrando una significativa riduzione dell’incidenza di CI-AKI nei pazienti randomizzati a ricevere IOCM78.

Nello studio RECOVER, 300 pazienti con ClCr ≤60 ml/min sono stati randomizzati a ricevere iodixanolo o il LOCM ioxaglato: anche in questo caso è stata dimostrata la minor incidenza di CI-AKI nel gruppo IOCM rispetto alla popolazione in cui era stato somministrato LOCM (7.9 vs 17%, p=0.021) con OR 0.415 (IC 95% 0.194-0.889) per lo iodixanolo79.

Nie et al.80 hanno confrontato l’incidenza di CI-AKI nei pazienti con CKD, sottoposti a coronarografia con o senza rivascolarizzazione percutanea, randomizzati a iodixanolo vs iopromide, riscontrando un’incidenza di CI-AKI significativamente inferiore nel gruppo IOCM rispetto ai pazienti LOCM (5.7 vs 16.7%; p=0.011).

Song et al.81 hanno randomizzato 220 pazienti con scompenso cardiaco e ridotta funzione sistolica ventricolare sinistra a studio coronarografico (con o senza PCI), con iodixanolo o iohexolo. L’endpoint primario era l’incidenza di CI-AKI a 72 h dalla procedura. Tra gli endpoint secondari vi era la misurazione del picco di un biomarcatore di danno renale, la cistatina C. Anche in questo studio lo IOCM ha dimostrato una minor incidenza di CI-AKI rispetto al LOCM (12.7 vs 29.1%; p=0.041). Vi era inoltre un incremento di cistatina C significativamente inferiore nel gruppo di pazienti che ricevevano iodixanolo rispetto ai pazienti sottoposti a studio coronarografico con iohexolo.

Altri trial randomizzati, che hanno confrontato IOCM vs svariati LOCM, hanno concluso per l’assenza di differenze statisticamente significative nell’incidenza di CI-AKI.

Mehran et al.82, nello studio ICON, hanno confrontato l’incidenza di CI-AKI in pazienti con CKD randomizzati a iodixanolo (n = 72) vs ioxagalate (n = 74). Anche se era riconoscibile un trend in favore dello iodixanolo, non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i due gruppi in termini di aumento della SCr da 0 a 3 giorni post-procedura (0.09 mg/dl; range interquartile 0.00-0.30 mg/dl per il gruppo iodixanolo vs 0.15 mg/dl; range interquartile 0.00-0.40 mg/dl; p=0.07 per il gruppo ioxaglato). Lo stesso trend non statisticamente significativo è stato riscontrato per la percentuale di pazienti con un aumento della creatinina ≥5 mg/dl (15.9% iodixanolo vs 18.2% ioxaglato), ≥1.0 mg/dl (1.4% iodixanolo vs 4.5% ioxaglato) e ≥25% o ≥0.5 mg/dl (15.9 e 24.2%, rispettivamente). Il dato è probabilmente condizionato dalla numerosità ridotta del campione e dalla potenza statistica non sufficiente a trovare una reale significatività statistica a fronte però di un effetto del trattamento a favore dello IOCM.

Nello studio VALOR circa 300 pazienti sono stati randomizzati a ricevere iodixanolo o ioversolo nel contesto di esami coronarografici. Non si è rilevata una differenza significativa nell’incidenza di CI-AKI tra i due gruppi (21.8% nel gruppo iodixanolo e 23.8% nel gruppo ioversolo; p=0.78). Nella popolazione generale oggetto dello studio l’endpoint secondario, ovvero la variazione percentuale media di picco di creatinina, non è risultato significativamente differente tra i due gruppi (14.7% con iodixanolo e 20.0% con ioversolo; p=0.06), ma nei soggetti diabetici è risultata essere significativamente inferiore nel gruppo iodixanolo (12.9%) vs ioversolo (22.4%, p=0.01)83.

Lo studio CARE ha confrontato l’incidenza di CI-AKI in soggetti con CKD sottoposti a coronarografia o PCI, randomizzati a iodixanolo vs iopamidolo. L’incidenza di CI-AKI (definita come incremento della SCr ≥0.5 mg/dl da 2 a 5 giorni post-procedura) non è risultata significativamente differente tra i due gruppi (6.7% iodixanolo vs 4.4% iopamidolo; p=0.39). Da questo studio emerge un aspetto piuttosto interessante, ovvero l’importanza del timing del controllo della SCr. Nei pazienti in cui il dosaggio della creatininemia veniva effettuato nei primi 3 giorni sembra esservi un trend di maggior sicurezza per lo iopamidolo, al contrario le misurazioni effettuale successivamente alle 72 h mostrano una minor incidenza di CI-AKI nel gruppo iodixanolo84.

In uno studio randomizzato monocentrico che ha confrontato iodixanolo e iopamidolo in pazienti sottoposti a diagnostica ed interventistica periferica non è stata riscontrata alcuna differenza nell’incidenza di CI-AKI. Da segnalare che nella popolazione oggetto dello studio i pazienti con eGFR ≤60 ml/min/1.73 m2 erano scarsamente rappresentati85.

Anche nello studio di Feldkamp et al.86 non sono state riscontrate differenze nell’incidenza di CI-AKI in una popolazione a basso rischio di CI-AKI sottoposta a diagnostica ed interventistica coronarica, randomizzata a ricevere iodixanolo vs iopromide. L’assenza di differenze significative nell’incidenza di CI-AKI tra iodixanolo e iopromide è stata riscontrata nello studio di Shin et al.87 anche nei pazienti ad alto rischio (per presenza di CKD, eGFR ≤60 ml/min/1.73 m2).

Questi dati sono in linea con quanto precedentemente riscontrato da Laskey et al.88 che, in uno studio di popolazione di pazienti ad alto rischio (CKD e diabete) sottoposti a procedure diagnostiche ed interventistiche coronariche, non riscontravano differenze significative nell’incidenza di CI-AKI nei pazienti che ricevevano iopamidolo o iodixanolo (9.8% vs 11.2%, p=0.7).

In letteratura vi sono diverse metanalisi sulla comparazione di LOCM e IOCM in termini di nefrotossicità. Alcuni studi concludono per l’assenza di differenze significative nell’incidenza di CI-AKI tra LOCM e IOCM89-93, altri lavori riportano una maggior sicurezza dello IOCM rispetto ai LOCM94,95.

La maggior parte degli studi osservazionali su pazienti “all-comers” non ha riscontrato un maggior profilo di sicurezza renale dello IOCM rispetto ai LOCM96,97.




VI SONO EVIDENZE CHE SUGGERISCANO L’UTILIZZO DI DISPOSITIVI PER LA RIDUZIONE DEL RISCHIO DI DANNO RENALE ACUTO DA MEZZO DI CONTRASTO?

Il volume di MCI iniettato è considerato un fattore di rischio modificabile di CI-AKI. In passato è stato studiato l’effetto degli iniettori automatici (automated contrast injector system, ACIS) sulla quantità di MCI utilizzato e sull’incidenza di CI-AKI. Alcune evidenze supportano l’ipotesi che l’uso di ACIS riduca la quantità di MCI somministrato e di conseguenza riduca l’incidenza di CI-AKI. Nella metanalisi di Minsinger et al.98 sono stati inclusi quasi 80 000 pazienti da 10 studi: i pazienti del gruppo ACIS ricevevano in media un volume inferiore di MCI di 45 ml/caso (IC 95% da -54 a -35; p<0.001). L’incidenza di CI-AKI veniva ridotta del 15%, con OR 0.85 (IC 95% 0.78-0.93; p<0.001) nei pazienti trattati con l’impiego di ACIS, rispetto ai pazienti sottoposti ad iniezione manuale. Conclusioni differenti sono state tratte dallo studio osservazionale di Gurm et al.99, in cui sono stati analizzati i dati procedurali e l’incidenza di CI-AKI in oltre 60 000 pazienti sottoposti a PCI con o senza ACIS. La differenza sul volume di MCI utilizzato ha incontrato la significatività statistica, verosimilmente giustificata dall’importante numerosità campionaria (media 199 ± 84 ml con ACIS vs media 204 ± 82 ml con iniezione manuale; p<0.0001), ma dal punto di vista clinico non è stata dimostrata alcuna superiorità dell’ACIS rispetto all’iniezione manuale (incidenza di CI-AKI 3.11 vs 3.42%; p=0.15).

Con lo scopo di ottimizzare il volume di MCI iniettato, riducendo quello in eccesso (es. MCI che refluisce dagli osti coronarici), senza inficiare la qualità delle immagini, è stato sviluppato un dispositivo per la modulazione dell’iniezione manuale del MCI. Studi clinici hanno dimostrato l’efficacia nel ridurre il volume di MCI senza compromettere la qualità della visualizzazione angiografica100,101. Tale aspetto è stato recentemente confermato da un trial randomizzato in cui l’impiego del dispositivo AVERT ha permesso una riduzione relativa del 15.5% del volume di MCI impiegato nella popolazione generale, con un massimo del 46% nei pazienti sottoposti a PCI complesse sui tre vasi. Nonostante la significativa riduzione del volume di MCI, non sono stati però dimostrati benefici in termini di prevenzione di CI-AKI (incidenza di CI-AKI 27.0 vs 26.6%; p=0.70)102.

La possibilità di rimuovere il MCI dal seno coronarico, in corso di esame coronarografico è stata testata per la prima volta in vivo in una limitata serie di pazienti da Danenberg et al.103, con l’impiego di un catetere a doppio lume dotato di pallone per l’occlusione del seno coronarico. In questo studio gli operatori non erano riusciti ad ottenere un adeguato posizionamento del catetere utilizzato in circa la metà dei pazienti. Nei 3 pazienti in cui il catetere era stato posizionato correttamente è stato rimosso in media il 44% del MCI iniettato. In seguito Diab et al.104 hanno confermato la possibilità di rimuovere più di un terzo del volume di MCI iniettato in corso di coronarografia in una serie di circa 40 pazienti, in cui veniva utilizzato, per l’aspirazione nel seno coronarico, un catetere per l’approccio transettale o un pallone a doppio lume. Duffy et al.105 hanno testato un dispositivo dedicato alla rimozione di MCI dal seno coronarico, il CINCOR Contrast Removal System (Osprey Medical, St. Paul, MN, USA), ottenendo un’adeguata incannulazione del seno coronarico in 31 dei 41 pazienti studiati, in assenza di complicanze legate al dispositivo, con rimozione in media di circa un terzo del MCI somministrato. I dati preliminari sull’utilizzo di questo dispositivo sembrano promettenti per quanto riguarda la riduzione del rischio di CI-AKI ma sono necessari ulteriori studi per verificare il reale impatto clinico della rimozione del MCI dal seno coronarico.

Il dispositivo RenalGuard consente un’adeguata reintegrazione idrica, modulata sul controllo euvolemico, in corso di diuresi forzata da diuretici. Con tale presupposto, questo dispositivo è stato proposto come presidio per la prevenzione del CI-AKI. Nello studio randomizzato REMEDIAL II l’impiego di RenalGuard è risultato superiore nel prevenire il CI-AKI rispetto al trattamento con N-acetilcisteina e bicarbonato nei pazienti ad alto rischio106. In uno studio su 400 pazienti ad alto rischio di CI-AKI con eGFR ridotta, il RenalGuard si è dimostrato un dispositivo sicuro, con miglior efficacia se utilizzato per mantenere una diuresi forzata intraprocedurale ≥450 ml/h107.







CONCLUSIONI

Parallelamente al diffondersi delle procedure endovascolari con MCI si è assistito, nel corso degli anni, ad un crescente interesse sui meccanismi fisiopatologici, sull’epidemiologia e sulle strategie preventive del CI-AKI. Dalla revisione della letteratura emergono dati spesso discordanti sul tema, motivo per cui diverse Società Scientifiche nazionali ed internazionali in ambito nefrologico, radiologico e cardiologico interventistico hanno stilato documenti di consenso e position paper sull’argomento. Esistono molteplici fattori che concorrono a determinare l’outcome renale del paziente trattato nei laboratori di Emodinamica (Figura 2). Questo aspetto complica la conduzione di trial clinici randomizzati sulle strategie di prevenzione del CI-AKI e giustifica i dati, spesso discordanti, disponibili in letteratura. Il progetto di consenso sul CI-AKI di SICI-GISE, in partnership con la SIN, ha lo scopo di sensibilizzare la comunità dei cardiologi interventisti italiani sull’importanza di un corretto approccio al paziente sottoposto a procedure invasive, anche in ambito di nefroprotezione.

Come riportato in una recente rassegna108, la diffusione della cultura sull’impatto clinico del CI-AKI non deve limitare di per sé l’indicazione alle procedure invasive, per non precludere percorsi terapeutici di comprovata efficacia per pazienti ad alto rischio cardiovascolare, nel timore di un deterioramento della funzione renale spesso a genesi multifattoriale e non solo legato alla somministrazione di MCI. Si sottolinea piuttosto l’importanza di un corretto approccio al paziente candidato a procedure diagnostiche e interventistiche con MCI, attuando le strategie di prevenzione e monitoraggio clinico atte a ridurre il rischio di CI-AKI.

RIASSUNTO

Il danno renale acuto da mezzo di contrasto (CI-AKI) rappresenta una complicanza che impatta sulla prognosi e sugli outcome procedurali dei pazienti sottoposti a procedure diagnostiche ed interventistiche con mezzo di contrasto iodato (MCI). La Società Italiana di Cardiologia Interventistica (SICI-GISE) si è fatta promotrice di un progetto di consenso sul tema CI-AKI al fine di diffondere e implementare le strategie di nefroprotezione nei laboratori di emodinamica. L’iniziativa è stata condotta in partnership con la Società Italiana di Nefrologia (SIN).

Parole chiave. Cardiologia interventistica; Danno renale acuto; Danno renale acuto da mezzo di contrasto; Mezzo di contrasto iodato; Nefropatia da mezzo di contrasto; Nefroprotezione.

RINGRAZIAMENTI

Un sentito ringraziamento a Giuliana Ballo e Simone Ghisio per la preziosa collaborazione.

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