Sviluppare e verificare nuovi modelli
assistenziali in sanità:
la prospettiva di un cardiologo
Leonardo Bolognese
Editor, Giornale Italiano di Cardiologia


In questo numero potrete leggere tre importanti contributi sul nuovo modello assistenziale denominato “per intensità di cura” da parte di esponenti di spicco della cardiologia italiana. Il dibattito è acceso, le prospettive contrastanti, la preoccupazione da parte della comunità cardiologica è forte. Vorrei avere l’ambizione di contestualizzare e storicizzare alcuni elementi di rilievo di questa nuova organizzazione dell’erogazione delle cure. Ovviamente il mio non è e non vuole essere il punto di vista di un esperto di economia sanitaria, ma il frutto di un’osservazione dalla prospettiva di un “cardiologo di trincea” innamorato del proprio lavoro.
La ricerca di nuovi modelli assistenziali in sanità da alcuni anni rappresenta una rilevante preoccupazione a livello internazionale sull’onda di molteplici pressioni: i decisori pubblici ricercano nuove soluzioni ai pressanti problemi derivanti dall’ampia variabilità della qualità delle cure erogate; è percepibile l’insoddisfazione dei pazienti, degli enti regolatori e dei professionisti; impera la necessità di contenere i costi in un’epoca di limitazione delle risorse. Nel 2001 Jane Smith, Deputy Editor del British Medical Journal, scriveva: “il sistema sanitario non è in grado di fornire i trattamenti riconosciuti efficaci, continua ad impiegare trattamenti non basati sull’evidenza, produce ritardi e tollera elevati livelli di errore. Chi conta in sanità deve adesso riconoscere ... che il sistema necessita una radicale riorganizzazione”1. La riorganizzazione dei modelli assistenziali in sanità viene definita nella letteratura di economia sanitaria anglosassone con il termine di ­“healthcare redesign”, un termine in rapida evoluzione che non è un modo diverso per indicare “cambiamento” o “riorganizzazione”, ma piuttosto una trasformazione radicale indirizzata al miglioramento della qualità dei servizi. Nella sua accezione più ampia l’healthcare redesign può essere definito come una trasformazione radicale che parte dall’azzeramento delle pratiche assistenziali tradizionali per arrivare a fornire il miglior processo per un’erogazione rapida ed efficace delle cure muovendosi dalla prospettiva del paziente, identificando nei percorsi assistenziali dove si annidano i ritardi, gli sprechi e le fonti di potenziale errore e quindi ridisegnando l’intero processo in modo da rimuoverli e migliorare drasticamente la qualità di cura 2.
LE ORIGINI TEORETICHE
DELL’“HEALTHCARE REDESIGN”
L’healthcare redesign prende origine da numerose teorie sul miglioramento della qualità, ma incorpora anche gli insegnamenti derivanti da svariati contesti applicandoli al sistema sanitario. Questi comprendono fra l’altro la teoria dei vincoli3, la teoria delle complessità4 e, come meglio vedremo in seguito, strategie trasformazionali provenienti dal mondo industriale5. Tuttavia storicamente i due approcci che hanno maggiormente influenzato la sua implementazione sono: il total quality management (TQM)/continuous quality improvement (CQI)”6,7 e il cosiddetto “re-engineering”8. Entrambi gli approcci pongono al centro di interesse le necessità del cliente/utente piuttosto che dell’organizzazione ed esaminano i processi nella loro interezza e non per singoli dipartimenti o unità di cura. Tuttavia la metodologia è fortemente diversa e contrastante: nel caso del TQM/CQI la filosofia guida è rappresentata dal continuo, graduale, ma incrementale miglioramento, mentre il re-engineering è basato su una trasformazione rapida e radicale. Apparentemente il miglioramento continuo della qualità perseguito dagli operatori sanitari sembrerebbe la scelta più appropriata, anche in considerazione dell’evidenza che l’imposizione dall’alto del cambiamento raramente si traduce in una variazione delle pratiche cliniche9. Un approccio guidato dai clinici che consente una graduale negoziazione ed implementazione ha maggiore probabilità di essere accettato; inoltre l’enfasi prodotta dal TQM sulla misura e valutazione sistematica di indicatori sensibili è più vicina al contesto culturale e scientifico dei medici. Tuttavia il recente report dell’Agency for Healthcare Research and Quality10, che valuta periodicamente il miglioramento della qualità mediante misure di performance, documenta un incremento nella performance annuale pari al 2.3% dal 1994 al 2005 e solo dell’1.5% dal 2000 al 2005 evidenziando come il miglioramento nella qualità si realizzi in modo continuo, ma con una scala dimensionale contenuta ed una velocità progressivamente minore. In altre parole la qualità è prerogativa volontaristica di gruppi di lavoro isolati con un impatto generale limitato.
La risposta al percepito insuccesso del TQM a realizzare profondi cambiamenti dell’organizzazione su larga scala è il re-engineering le cui caratteristiche peculiari sono le seguenti: 1) trasformazione radicale e simultanea dell’intera organizzazione abbandonando la pratica corrente; 2) azzeramento delle assunzioni e comportamenti tradizionali; 3) eliminazione di tutte le fasi di percorso non necessarie; 4) approccio rigidamente top-down con forte enfasi sul controllo manageriale e sulla leadership; 5) potere decisionale esercitato al livello dove si realizzano le attività produttive (team empowerment); 6) forte richiesta di flessibilità nel lavoro.
Gli effetti favorevoli del re-engineering in sanità sono ancora tutti da dimostrare11,12, soprattutto per la aggressiva retorica e la difficoltà a coinvolgere e motivare i gruppi di lavoro su cui l’organizzazione stessa si basa13. Una situazione dove sembra essere più efficace è quella in cui il sistema organizzativo è così in crisi da accettare la dolorosa terapia del re-engineering come l’unica soluzione per sopravvivere.
La nuova organizzazione assistenziale per intensità di cura, come vedremo, è a tutti gli effetti una forma di re-engineering.
L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA SANITARIO IN ITALIA: VERSO IL MODELLO ASSISTENZIALE
PER INTENSITÀ DI CURE
L’aziendalizzazione delle strutture sanitarie insieme alla regionalizzazione rappresenta l’asse portante e comune delle tre riforme del Sistema Sanitario Nazionale. L’aziendalizzazione in sanità ha rappresentato il tentativo di superamento dei vincoli procedurali tipici delle pubbliche amministrazioni e di ampliamento della discrezionalità del management gestionale. Essa ha portato alla nascita di una sorta di organo monocratico (direzione generale) i cui responsabili (direttori generali) venivano individuati con nomina fiduciaria e, almeno nella fase iniziale, esperienza professionale indefinita e formazione imprecisata. La struttura di direzione tecnica ed amministrativa veniva lasciata sostanzialmente invariata, mentre la componente professionale, caratterizzata da una forte tradizione di autonomia clinica e assistenziale (in alcuni casi da una forte autoreferenzialità) e relativa autonomia gestionale, veniva privata di efficaci meccanismi di partecipazione all’elaborazione delle strategie aziendali. A distanza di alcuni anni dall’aziendalizzazione delle strutture sanitarie, Taroni e Grilli 14, due noti esperti di organizzazione e politica sanitaria, scrivevano “... il processo di aziendalizzazione non ha ancora sviluppato un adeguato ed efficace sistema di relazioni fra il soggetto regolatore e il management aziendale da una parte e fra questo e i responsabili dell’operatività interna dall’altro ... L’obiettivo istituzionale alla qualità ... l’enfasi sullo sviluppo dell’efficacia e dell’appropriatezza delle prestazioni in opposizione a una semplice crescita quantitativa del loro volume ... rischiano di continuare ad essere affidati a comportamenti ‘virtuosi’ individuali, volontaristici e inconsequenziali, e quindi inevitabilmente condannati all’inefficacia” .
Per comprendere appieno i successivi cambiamenti nei modelli assistenziali in Italia è inevitabile il richiamo alla riforma Blair del National Health System (NHS) inglese. Questa per la prima volta ha messo in primo piano il tema della qualità dell’assistenza come dovere istituzionale delle aziende e primaria responsabilità dei clinici15. Questa scelta è stata compiuta per segnare le distanze dalla precedente riforma Thatcher, ma anche in risposta ad una serie di incidenti drammatici fra cui il più clamoroso è stato quello della Cardiochirurgia di Bristol. La riforma articolava l’obbligo statutario alla qualità in tre livelli: 1) definizione di standard nazionali secondo le indicazioni di una nuova agenzia (National Institute for Clinical Excellence, NICE); 2) attuazione a livello aziendale governata da tre strumenti: a) un programma di formazione permanente; b) un sistema di autoregolazione professionale, anche attraverso la ricertificazione periodica delle competenze individuali e c) l’istituzione in ogni azienda degli strumenti per l’esercizio del governo clinico; infine 3) monitoraggio dei risultati ottenuti attraverso un sistema di indicatori clinici ( National Performance Framework, NPF), indagini presso i pazienti e gli utilizzatori dei servizi e l’attività ispettiva condotta da una nuova agenzia nazionale specifica per il settore sanitario e dotata di poteri sanzionatori.
Questo schema riflette la forte integrazione verticale del NHS inglese in cui il governo centrale agisce direttamente a livello aziendale senza intermediari e quindi non è apparentemente proponibile per il contesto italiano. In realtà ha costituito un modello importante per molte realtà regionali (ad es. Toscana ed Emilia-Romagna) con delle indicazioni sul funzionamento interno delle aziende fortemente innovative.
Uno degli snodi cruciali del miglioramento della qualità in questo modello, e almeno in apparenza fortemente ripreso nelle diverse realtà sanitarie italiane, è rappresentato dallo strumento del governo clinico il cui principio informatore è di ri­equilibrare il potere e le responsabilità all’interno delle organizzazioni secondo la storica definizione (variamente riformulata ed adattata): “Sviluppare un contesto in cui i servizi sanitari si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dell’assistenza e mantengono elevati livelli di prestazioni creando un ambiente che favorisce l’espressione dell’eccellenza clinica nella considerazione delle risorse a disposizione”. Lo strumento critico e nodale per il governo clinico è la realizzazione dei dipartimenti che in Italia ha rappresentato una storia senza fine costantemente in oscillazione fra la realtà virtuale dei riferimenti legislativi e normativi (avviati nel lontano 1968) e la loro applicazione nel mondo reale. I dipartimenti hanno infatti avuto enormi difficoltà ad affermarsi nonostante le pressioni istituzionali per la presenza di rilevanti barriere. Da parte degli operatori queste erano poste per il timore di perdere potere ed identità, per la mancanza di una cultura diffusa ed adeguata alla gestione e all’operare in organizzazioni complesse e per una forte avversione al lavoro d’equipe. Le barriere dei manager erano invece rappresentate dalla scarsa disponibilità ad un’operazione che implicava una riorganizzazione strutturale delle unità operative e l’implementazione di nuovi modelli, dalla mancanza di una cultura “aziendale” che permettesse di avere una visione complessiva dello sviluppo delle strutture e, infine, dalla riluttanza ad un’effettiva pianificazione delle linee di sviluppo.
Per la cardiologia, invece, la realizzazione dei dipartimenti cardiovascolari ha rappresentato un’importante conquista, consentendo percorsi diagnostico-terapeutici omogenei ed epidemiologicamente rilevanti all’interno di un comune contenitore dove ogni aspetto della malattia cardiovascolare, dalla prevenzione al trattamento alla riabilitazione, può essere opportunamente affrontato. Nei dipartimenti cardiovascolari, inoltre, si incontrano e si integrano elevati livelli di specializzazione, competenza ed esperienza, fornendo un utile incubatore anche dal punto di vista scientifico favorendo la ricerca traslazionale e clinica 16.
Attualmente i dipartimenti vengono percepiti da parte dei decisori pubblici come “silos” impenetrabili e difficilmente controllabili, non sincronizzati fra loro, dove l’attività non viene pianificata e le risorse non vengono valutate ed utilizzate in rapporto alla domanda17. Inoltre l’intera organizzazione, e con essa i dipartimenti, è sottoposta a forti pressioni di ordine finanziario, istituzionale e sociale che si esprime nella richiesta di standardizzazione della pratica clinica e misura della qualità delle prestazioni erogate18. Non solo, emerge la volontà di ridefinire i confini delle specialità mediche al fine di prevenire scontri di potere e di autoreferenzialità guidati dalla sovrapposizione di competenze e tecnologie in figure differenti per la cura della medesima patologia. Infine vi sono pressioni di ordine professionale: la componente infermieristica reclama uno status simile a quello di altre figure tradizionali come i medici18. Ne scaturisce la forte esigenza di un nuovo modello assistenziale centrato sulle necessità del paziente, e non su quelle dell’organizzazione o dei medici, e sui suoi bisogni assistenziali: il modello per intensità di cura.
Nella Legge che in Toscana attualmente regola il sistema sanitario (L.R. 40/2005) si stabilisce la riorganizzazione ospedaliera sulla base della “strutturazione delle attività ospedaliere in aree differenziate secondo le modalità assistenziali, l’intensità delle cure, la durata della degenza ed il regime di ricovero, superando gradualmente l’articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica” (art. 68). È evidente l’esigenza di superare il concetto di reparto e di specialità articolando il livello di cura richiesto sulla base del quadro clinico, della complessità assistenziale (medica e infermieristica), della tecnologia disponibile, delle competenze presenti e dal tipo, quantità e qualità del personale assegnato. Nella sua completa realizzazione il modello prevede tre livelli di cura assegnati alle degenze: il livello 1 unificato comprende la terapia intensiva e subintensiva; il livello 2, articolato almeno per area funzionale, comprende il ricovero ordinario e il ricovero a ciclo breve che presuppone la permanenza di almeno una notte in ospedale ( week surgery, one-day surgery); il livello 3 unificato è invece dedicato alla cura delle post-acuzie o low care. Il modello implica una congruenza verticale – livello di cura e assistenza appropriato al bisogno – e un’integrazione orizzontale – gli specialisti intervengono sui pazienti “ovunque essi siano” favorendo la collaborazione multidisciplinare e lo sviluppo dei percorsi. Le nuove linee gestionali e professionali prevedono due figure chiave in grado di garantire la presa in carico del paziente: il medico tutor, che stende il piano clinico ed è responsabile del percorso, si interfaccia con il medico di medicina generale ed è il referente del paziente e della sua famiglia; e l’infermiere referente, responsabile dell’assistenza e dei risultati del progetto assistenziale. Gli altri infermieri svolgono il ruolo di “associati”: erogano prestazioni e garantiscono la continuità assistenziale in assenza dell’infermiere referente.
La preoccupazione della comunità cardiologica nei confronti di questo nuovo modello assistenziale è evidente. La cardiologia in quanto tale rischia di perdere autonomia ed identità. Al di là degli interessi nel proteggere gli ambiti tradizionali della specialità, la preoccupazione deriva soprattutto dal fatto che l’attuale modello assistenziale in cardiologia ha prodotto rilevanti risultati in termini di riduzione della mortalità e morbilità per le malattie cardiovascolari. Nel contempo da anni la comunità cardiologica si è imposta l’etica dell’evidenza e della qualità.
LE ORIGINI DEL MODELLO ASSISTENZIALE
PER INTENSITÀ DI CURE
Il sistema sanitario è in crisi: ne sono tutti convinti, dai medici ai pazienti ai decisori pubblici e tutti vorrebbero una sanità sicura, efficace, efficiente, centrata sul paziente, tempestiva, equa (nel senso di garantire un equo accesso alle cure) e sostenibile19. Sebbene l’organizzazione sanitaria negli ultimi decenni si sia continuamente innovata nelle pratiche cliniche e nel management, questo non è sufficiente. È richiesta una trasformazione radicale che produca miglioramenti in tutte le dimensioni della qualità e del rendimento. La soluzione viene identificata nell’adozione di strategie trasformazionali di provenienza industriale. Molte di queste strategie sono state sostenute ed applicate nel mondo sanitario; fra queste la più popolare è il cosiddetto “pensiero snello” (lean thinking) che caratterizza il Toyota Production System al quale esplicitamente si richiama il modello assistenziale per intensità di cure. Il lean thinking nasce con Taiichi Ohno20 e, sebbene inizialmente focalizzato alla gestione di esercizio, rapidamente si estende ai servizi e dall’inizio degli anni 2000 alla sanità21. I suoi principi fondamentali sono basati sul concetto di produttori in grado di creare il valore che il cliente effettivamente desidera, identificandone il flusso ed eliminando lo spreco, riallineando di conseguenza le diverse fasi del processo produttivo per creare un flusso continuo, basando la produzione sui consumi e perseguendo la perfezione di un sistema in grado di fornire il valore perfetto senza sprechi. In altre parole: standardizzazione, eliminazione delle giacenze, miglioramento dei processi. Il concetto chiave nel lean thinking è il valore, definito come la capacità di fornire esattamente il prodotto o servizio (personalizzato) che il cliente vuole, in modo tempestivo e con un prezzo appropriato. Applicato in sanità il lean thinking implica la decentralizzazione degli operatori sanitari in unità paziente (non reparti specialistici); addestramento multidisciplinare che superi i vincoli dei compiti tradizionali; viene così creato un “team” che in teoria è più efficiente perché intercambiabile; la soddisfazione del paziente dovrebbe aumentare perché può fruire di un più ampio assortimento di servizi e personale inseriti in un unico livello di cura. Si realizza un re-engineering centrato sul paziente.
Nel tentativo di far luce su uno scenario rapidamente in evoluzione ed incerto, proverò ad identificare alcune criticità del lean thinking quando venga applicato indiscriminatamente al mondo della sanità: il valore, l’evidenza, gli aspetti tecnicosociali.
Il valore
Non esiste un solo utente con una visione semplice di valore che possa guidare il lean thinking in sanità, un contesto pieno di complesse ed avanzate prospettive di valore che devono ancora trovare una ragionevole integrazione sistematica.
La gran parte delle alternative nei modelli assistenziali comprende esiti involontari. Finché si propone una visione rigida di valore sarà impossibile sapere se alcuni aspetti legati alla riduzione degli sprechi siano in grado di compensare altre perdite, come per esempio l’approfondimento diagnostico. Young e McClean22 forniscono un caso-studio che dimostra molto bene il potenziale conflitto generato da diversi concetti di valore. Un consulente del lean thinking viene invitato a presenziare, insieme al manager dell’ospedale ed al primario, all’attività di un ambulatorio urologico specificatamente indirizzato ai pazienti con ematuria. Il consulente inizia a cronometrare i tempi dei pazienti coinvolti nel processo. L’attività inizialmente si svolge rapidamente senza interruzioni, ma poco dopo si forma una coda davanti allo studio del medico. Ne nasce una discussione ed emergono posizioni contrastanti su come snellire al meglio il sistema, in particolare per i pazienti nei quali si è potuto escludere una neoplasia. Il consulente ed il manager dell’ospedale sostengono che l’ambulatorio nei confronti di questi pazienti ha realizzato il suo compito e che l’attesa davanti alla porta del medico può essere eliminata dando loro la buona novella e rimandandoli a casa. Il primario, dal canto suo, osserva che quand’anche sia stata esclusa una neoplasia rimane il problema della diagnosi, che deve essere risolto anche se ciò comporta un’attesa. Ci si potrebbe chiedere quale sarebbe stata la scelta del paziente se gli si fosse posta di fronte l’alternativa fra l’attesa e la diagnosi. Dalla descrizione di questo caso realmente avvenuto appare chiaro che ci sono almeno due dimensioni del valore centrato sul paziente: una basata sulla risposta del sistema e l’altra sulle priorità cliniche. In realtà il concetto di valore in sanità non è una proprietà del sistema, come nel lean thinking, ma una multidimensione che si declina a livello individuale. Esiste un valore clinico che si estrinseca nell’ottenere l’esito migliore per il paziente (ed è verosimile che sia condiviso dai medici così come dai pazienti). Esiste un valore operativo legato all’efficienza del sistema e misurato primariamente in termini di costi (compresi quelli legati agli sprechi ed alla scarsa qualità); chiaramente questo riguarda soprattutto i fornitori di servizi e i manager, ma dovrebbe essere condiviso anche dai medici e pazienti. Esiste, infine, un valore esperienziale legato all’esperienza della cura e che può essere diverso per il paziente e per il medico.
L’evidenza
In medicina l’adozione di nuove pratiche si basa sull’evidenza derivata da studi clinici randomizzati. Il mondo delle strategie trasformazionali in sanità è molto diverso, guidato da “campioni” e alimentato da storie di buone novelle. L’assenza di attenzione ai possibili effetti negativi dei nuovi modelli assistenziali insieme ad una inconsistente struttura analitica rende difficile fornire la prova di efficacia ad una comunità medica abituata a pretenderla. Queste differenze culturali – campioni vs ricercatori ( champions-based management vs evidence-based management), buone novelle vs analisi statistiche, cicli di processi vs trial – sono profonde e rendono necessario uno sforzo concettuale per fornire un sistema di evidenze che risulti conclusivo e soddisfacente per entrambe le parti. Nell’attesa si genera scetticismo e resistenza. Numerosi ospedali hanno adottato modelli organizzativi che si richiamano al lean thinking (Johns Hopkins, Mount Sinai, Virginia Mason negli Stati Uniti, Flinders in Australia, Oxford Radcliffe and Bolton nel Regno Unito) ed alcune rinomate agenzie sanitarie internazionali hanno consulenti lean a stipendio (Institute for Healthcare Improvement negli Stati Uniti and NHS Modernization Agency nel Regno Unito). Le domande che la comunità medica si pone di fronte al dilagare delle strategie trasformazionali di derivazione industriale in sanità sono apparentemente semplici: qual è l’evidenza che siano realmente efficaci? Qual è l’evidenza che questi nuovi modelli assistenziali siano in grado di modificare sia le pratiche cliniche che la cultura organizzativa e nel contempo migliorare la prognosi dei pazienti? In altre parole: dove sono le evidenze derivate da ricerche ben strutturate e comunicate mediante riviste peer-reviewed?
Vest e Gamm23 hanno recentemente eseguito una revisione della letteratura per individuare tutti gli studi riguardanti l’applicazione delle più note strategie trasformazionali di derivazione industriale in sanità. I criteri di selezione degli studi erano: la pubblicazione su riviste peer-reviewed; la descrizione di uno specifico intervento e la presenza di dati quantitativi che descrivessero le dimensioni dell’effetto e la significatività statistica. Venivano esclusi gli studi pilota e le rassegne. La ricerca condotta fino al dicembre 2007 ha potuto identificare solo 9 studi con le suddette caratteristiche riguardanti il lean/Toyota Production System applicato in sanità: 6 riguardavano attività di laboratorio, 1 una unità di telemetria, 1 sulle infezioni da cateterismo venoso ed infine 1 sui sistemi di rischio clinico. Tutti gli studi in oggetto riportavano entusiastiche conclusioni sull’implementazione di queste strategie che risultavano efficaci nel migliorare una varietà di processi e di esiti, nonostante la maggioranza di essi: omettesse sistematicamente l’analisi statistica; violasse le assunzioni statistiche laddove presenti; omettesse sistematicamente l’analisi di aggiustamento per fattori confondenti e presentasse importanti bias di selezione. Infine la totale assenza di un gruppo di controllo ne minava fortemente la validità. Quest’ultimo punto è di rilevante importanza. In questa tipologia di studi l’obiettivo dovrebbe essere misurato prima dell’intervento e successivamente testato in un contesto dove si applica il nuovo modello organizzativo e confrontato con un contesto dove si mantiene il livello organizzativo tradizionale (che serve come gruppo di controllo)24. Elkhuizen et al.24 hanno valutato 86 esperienze presenti in letteratura sulla riorganizzazione dei modelli assistenziali basati sul re-engineering trovando, sorprendentemente, che molte delle variabili di processo e di esito venivano riportate negli obiettivi dello studio, ma non nei risultati e viceversa. Infine Braithwaite et al.25 hanno analizzato i costi e l’efficienza di 20 ospedali australiani dove si era realizzata una variazione nel tempo del modello assistenziale: dal modello tradizionale (organizzato in reparti e unità operative) a quello dipartimentale a quello per intensità di cura. Il modello dipartimentale si dimostrava più efficiente di quello tradizionale con una riduzione dei costi; tutti i 4 ospedali che avevano modificato il modello assistenziale da dipartimentale in intensità di cure diventavano significativamente meno efficienti. Questi risultati, insieme ad altre considerazioni già riportate, hanno spinto Joosten et al. 26 del Scientific Centre for Care and Welfare in Olanda, ad affermare: “Organizations may think twice before embracing on such a journey, or worse, superficially implement lean thinking, adding to existing resistance and making it more difficult to improve health care in the long term”.
La dimensione tecnicosociale del lean thinking in sanità
L’implementazione del lean thinking in sanità comporta o la standardizzazione del lavoro in atti semplici e ripetitivi o la trasformazione in attività che richiedono maggiore pianificazione e responsabilità. Entrambe queste variazioni possono indurre resistenza ed ansia riducendo le motivazioni. La teoria dei sistemi tecnicosociali studia l’interazione fra gli elementi sociali (comportamento umano) e tecnici (tecnologie)27. L’enfasi sugli aspetti operativi orientati sui processi ha allontanato l’attenzione da questi aspetti tecnicosociali e la teorizzazione dei nuovi modelli assistenziali raramente li richiama in modo esplicito. Tutto ciò può avere rilevanti ricadute di ordine psicosociale sugli stessi operatori sanitari. Un esempio è fornito dal cosiddetto comparto: una delle componenti che maggiormente dovrebbe avvantaggiarsi da un modello assistenziale per intensità di cura. La nuova organizzazione del lavoro dovrebbe, infatti, valorizzarne le competenze aumentandone le responsabilità. Una imponente survey realizzata su 43 000 infermieri di 5 paesi occidentali in 700 ospedali che hanno adottato le strategie trasformazionali di derivazione industriale come nuovi modelli assistenziali ha chiaramente documentato percentuali di disaffezione al lavoro e di sindrome da burn-out superiori al 40%; fra le principali motivazioni figura l’aumento del numero dei pazienti assegnati per unità e la diminuzione delle figure manageriali e coordinatori infermieristici28. La riduzione del rapporto infermiere/pazienti è una delle principali variabili del contenimento dei costi, ma è anche direttamente correlata all’aumento della mortalità ospedaliera29.
CONCLUSIONI
La trasformazione di un modello assistenziale è una strategia visionaria integrata nell’organizzazione e che ne condiziona le proprietà e le risorse. Adottare e standardizzare innovazioni in grado di modificare la pratica clinica deve necessariamente incorporare un nuovo modello culturale. Le variazioni delle pratiche cliniche e del modello culturale sono le due dimensioni essenziali per poter rendere sostenibile la trasformazione. Per contro, l’incapacità di molte organizzazioni ad implementare una trasformazione lungo queste dimensioni viene percepita dagli operatori sanitari come l’ennesimo capriccio gestionale destinato al fallimento.
È ovvio che ogni miglioramento in sanità implica variazioni nel processo di cura. Ma in molte circostanze il modo migliore per realizzarle è quello di condurre sperimentazioni circoscritte su scala limitata in cui ciascuno impara mentre implementa l’innovazione in accordo al ciclo Plan-Do-Study-Act (PDSA). Questo approccio è molto più appropriato e informativo di una trasformazione radicale su larga scala senza riflessione e strumenti di valutazione30.
La sensibilità della comunità cardiologica nei confronti del sistema sanità è tale da non sottrarla a cooperare con le istituzioni con il consueto spirito di servizio, ma vigilando perché il patrimonio della cardiologia non vada disperso, nell’interesse dei pazienti e delle competenze degli operatori. È necessaria gradualità, condivisione del un nuovo modello culturale ed evidenza scientifica che rappresenta il filo rosso di continuità del nostro operato. Altrimenti il rischio è il conflitto, l’ansia, la demotivazione.
Ridurre la ricchezza della professione sanitaria in frammenti impoveriti di attività valutati per il tempo, il costo e nozioni spurie di qualità può in realtà aggiungere altri problemi ai tanti già presenti in sanità31. Dopotutto, gli operatori sanitari sono tipicamente persone ben addestrate e intelligenti che hanno scelto questa professione per curare e dare conforto. Tutto ciò di cui hanno bisogno è che gli si dia la possibilità di farlo!32

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