Lo studio SHIFT
Claudio Rapezzi, Gianfranco Sinagra
1Istituto di Cardiologia, Università degli Studi, Policlinico S. Orsola-Malpighi, Bologna
 2Dipartimento Cardiovascolare, Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti
e Università degli Studi, Trieste

Background. Lo scompenso cardiaco cronico è associato ad un’elevata mortalità e morbilità. Elevati valori di frequenza cardiaca a risposo rappresentano un fattore di rischio di outcome avverso. Scopo dello studio è stato valutare se una riduzione della frequenza cardiaca, ottenuta mediante l’impiego dell’inibitore selettivo del nodo del seno ivabradina, possa influenzare l’outcome dei pazienti affetti da scompenso cardiaco.
Metodi. In questo studio randomizzato, controllato verso placebo, in doppio cieco, a gruppi paralleli, erano eleggibili i pazienti con scompenso cardiaco sintomatico, frazione di eiezione ventricolare sinistra ≤35%, in ritmo sinusale con frequenza cardiaca ≥70 b/min, con almeno un’ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei precedenti 12 mesi ed in trattamento medico stabile con betabloccante quando tollerato. I pazienti sono stati randomizzati al trattamento con ivabradina alla dose target di 7.5 mg 2 volte al giorno o placebo. Sia i pazienti sia gli investigatori non erano a conoscenza del tipo di terapia assegnata. L’endpoint composito primario includeva le morti cardiovascolari e le ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso cardiaco. L’analisi è stata eseguita secondo il principio “intention to treat”.
Risultati. Sono stati arruolati 6558 pazienti, di cui 3268 randomizzati a ricevere ivabradina e 3290 placebo. I dati disponibili per l’analisi hanno riguardato 3241 pazienti del gruppo ivabradina e 3264 pazienti del gruppo placebo. La durata mediana del follow-up è stata di 22.9 mesi (IQR 18-28). Nel gruppo trattato con ivabradina l’endpoint primario si è verificato nel 24% (n=793) dei pazienti vs il 29% (n=937) di quelli del gruppo placebo (HR 0.82, IC 95% 0.75-0.90, p<0.0001). Tali effetti sono stati determinati principalmente dalle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso cardiaco [16% (n=514) con ivabradina vs 21% (n=672) con placebo; HR 0.74, IC 95% 0.66-0.83, p<0.0001] e dai decessi per scompenso cardiaco [3% (n=113) con ivabradina vs 5% (n=151) con placebo; HR 0.74, IC 95% 0.58-0.94, p=0.014]. Nel gruppo ivabradina è stata osservata una minore incidenza di eventi avversi gravi rispetto ai pazienti del gruppo placebo (3388 vs 3847 eventi, p=0.025). Bradicardia sintomatica è stata riscontrata nel 5% (n=150) dei pazienti trattati con ivabradina vs l’1% (n=32) dei pazienti randomizzati a placebo (p<0.0001). Disturbi visivi (fosfeni) sono stati riportati nel 3% (n=89) dei pazienti del gruppo ivabradina vs l’1% (n=17) del gruppo placebo (p<0.0001).
Conclusioni. Questi risultati evidenziano l’importanza di una riduzione della frequenza cardiaca ottenuta mediante ivabradina ai fini del miglioramento dell’outcome clinico nei pazienti con scompenso cardiaco, nonché confermano che la frequenza cardiaca esercita un ruolo rilevante nella fisiopatologia di questa sindrome. [Lancet 2010;376:875-85].

IL PUNTO DI VISTA DI CLAUDIO RAPEZZI
È opportuno leggere un trial in modo critico, cioè “attivo”. In altri termini è bene “sondare” il trial secondo una griglia di domande predefinite, allo scopo di evitare (o ridurre) il rischio di sovra o sotto interpretazione o comunque di interpretazioni non pertinenti. Proviamo a farlo con lo SHIFT.
C’era realmente bisogno dello SHIFT?
La pubblicazione dello SHIFT1-3 rappresenta il culmine (ma non certo il punto di arrivo) di un poderoso insieme di ricerche fisiopatologiche, farmacologiche, epidemiologiche e cliniche che hanno nella frequenza cardiaca (FC) il loro minimo comune denominatore. Negli ultimi 10 anni, la disponibilità di un bradicardizzante puro, l’ivabradina, ha reso possibile la modulazione a scopo terapeutico della FC dei soggetti in ritmo sinusale. La ricerca clinica sul farmaco si è concentrata inizialmente sull’angina da sforzo e sulla cardiopatia ischemica cronica 4-8. I risultati sull’angina sono stati da subito netti e favorevoli e l’ivabradina si è rivelata in grado di attenuare l’ischemia da sforzo sia da sola sia “on top” della terapia betabloccante4,5. I risultati sulla cardiopatia ischemica cronica sono stati invece meno eclatanti6-8. Nello studio BEAUTIFUL si è cercato di analizzare il ruolo dell’ivabradina in una popolazione che presentava contemporaneamente due ordini di problemi: una coronaropatia stabile ed una disfunzione ventricolare (asintomatica o paucisintomatica). In questo contesto il farmaco non si è rivelato in grado di ridurre l’endpoint combinato ma si è limitato a ridurre gli endpoint ischemici nei pazienti con FC a riposo pretrattamento ≥70 b/min. È stato a suo tempo ampiamente sottolineato come la pretesa di mettere assieme in un unico trial due profili fisiopatologici distinti (la coronaropatia e la dis­funzione ventricolare) sia stata probabilmente alla base del parziale insuccesso del BEAUTIFUL. Lo studio SHIFT e lo studio SIGNIFY (il cui arruolamento è ancora in corso) rappresentano il tentativo di scomporre queste due “anime” del BEAUTIFUL. In particolare lo SHIFT si è concentrato sui pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica, a prescindere dall’eziologia.
Qual è la domanda a cui il trial ha cercato di dare risposta?
Lo SHIFT ha cercato di stabilire se l’aggiunta di un bradicardizzante “puro” alla terapia condotta al meglio delle possibilità di seguire le linee guida correnti sullo scompenso cardiaco fosse in grado di modificare favorevolmente l’outcome cardiovascolare, i sintomi e la qualità di vita dei pazienti con scompenso cardiaco cronico, sintomatico, da disfunzione sistolica del ventricolo sinistro di qualunque eziologia e con FC a riposo ≥70 b/min. Da qui la scelta di endpoint assolutamente “classici” per lo scompenso cardiaco cronico:
• un endpoint primario combinato (mortalità cardiovascolare + ospedalizzazione per scompenso),
• endpoint secondari in grado di esplorare la progressione dello scompenso e l’incidenza di infarto miocardico non fatale: mortalità cardiovascolare, ospedalizzazione per scompenso, mortalità totale, mortalità cardiovascolare, mortalità per scompenso, ospedalizzazione per qualsiasi causa, ospedalizzazione per cause cardiovascolari, ospedalizzazione per scompenso, endpoint combinato di mortalità cardiovascolare, ospedalizzazione per scompenso, ospedalizzazione per infarto non fatale, classe NYHA, qualità della vita.
Chi sono i pazienti arruolati e in che misura assomigliano ai “miei pazienti”?
Il profilo medio del paziente SHIFT è quello di un maschio sessantenne con disfunzione ventricolare sinistra in classe NYHA II o III, normoteso al momento dell’arruolamento e con frazione di eiezione ventricolare sinistra intorno al 30%. Di fatto, nello SHIFT, anche le donne sono rappresentate, se pur nella misura del 23%. L’eziologia dello scompenso è ischemica nel 68% dei casi. Poco meno di un paziente su 3 è diabetico. Solo il 2% dei pazienti è in classe NYHA IV. Solo il 4% ha ricevuto l’impianto di un defibrillatore, solo l’1% ha un pacemaker biventricolare. Il trattamento medico concomitante è in linea con le raccomandazioni delle più recenti linee guida, per lo meno sotto un profilo qualitativo. In particolare betabloccanti, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina/sartani, diuretici, antialdosteronci sono assunti rispettivamente dall’89%, 93%, 84% e 61% dei pazienti. Mediamente, però, i betabloccanti sono sotto dosati: dosi target delle varie molecole sono assunte solo nel 26% dei casi, e solo il 55% dei pazienti riceve una dose pari ad almeno il 50% di quella target. Peraltro lo scenario è sovrapponibile a quello della maggior parte dei registri e delle indagini contemporanee. In questo senso lo SHIFT riflette integralmente la prassi corrente del mondo reale.
L’ipotesi dello studio è stata confermata o smentita? Quali risultati sono stati realmente raggiunti?
L’ipotesi alla base dello studio è stata confermata, quindi il risultato dello SHIFT è positivo. Nei pazienti con scompenso cardiaco cronico lieve o moderato secondario a disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e con FC a riposo ≥70 b/min, l’aggiunta di ivabradina ad una terapia standard ispirata alle attuali linee guida riduce significativamente la probabilità di morire per cause cardiovascolari o di essere ricoverati per scompenso cardiaco. Il rischio relativo di incorrere in uno dei due eventi dell’endpoint primario è ridotto nella misura del 18% (p<0.0001); Il rischio assoluto è ridotto del 4.2%. Il beneficio è prevalentemente legato alla prevenzione delle ospedalizzazioni, mentre né la mortalità cardiovascolare né quella totale vengono ridotte in maniera statisticamente significativa. Il numero di pazienti da trattare a 1 anno per prevenire un evento dell’endpoint primario è 26, per prevenire una ospedalizzazione per scompenso è 27.
La mancata riduzione della mortalità totale è senz’altro un aspetto negativo del trial. In tal senso l’ivabradina si discosta da quanto avevano fatto i betabloccanti nei trial “storici” sullo scompenso (se si eccettuano il CIBIS I e l’ANZ)3. Il dato non può essere spiegato da una scarsa potenza dello SHIFT; la mortalità nel gruppo placebo (17%) è infatti assolutamente paragonabile a quella del CIBIS II, del COPERNICUS, del CIBIS I (17-21%) e addirittura superiore rispetto al MERIT-HF, allo US-Carvedilol, al COMET (8-11%). La presenza di una terapia betabloccante nel gruppo di controllo (è il caso dello SHIFT) fa evidentemente la differenza ed impedisce, perlomeno per quella numerosità del campione e per quella durata di follow-up, di far emergere riduzioni statisticamente significative. Peraltro va annotato come il trend sia costantemente a favore dell’ivabradina, che nel complesso ha un profilo di sicurezza del tutto tranquillizzante.
Con quali meccanismi fisiopatologici il farmaco
ha esercitato i suoi effetti favorevoli?
L’effetto benefico del trattamento è costante nei vari sottogruppi clinico-demografici dello SHIFT. L’effetto sull’endpoint primario è tanto maggiore quanto più grande è la riduzione di FC; quest’ultima, a sua volta, è proporzionale alla FC basale.
Il trattamento con ivabradina riduce soprattutto le ospedalizzazioni per scompenso e la mortalità riferibile allo scompenso, mentre non ha effetti sull’incidenza di infarto miocardico non fatale (1.5 vs 1.4%). Non sono noti gli effetti sulla morte improvvisa né (perlomeno allo stato attuale dell’analisi dei risultati) sul rimodellamento ventricolare. Emerge, nel complesso, un meccanismo d’azione incentrato sul rallentamento della progressione della sindrome da scompenso, mediata dalla riduzione della FC. In tal senso i dati dello SHIFT sono in linea con le osservazioni sperimentali che indicano, per l’ivabradina, la capacità di modificare favorevolmente il metabolismo miocardico, la relazione forza-frequenza e il processo di rimodellamento ventricolare 9.
Si sarebbero potuti ottenere gli stessi risultati semplicemente aumentando la dose del betabloccante?
Teoricamente sì, a patto che l’aumento della dose si fosse tradotto in un’apprezzabile riduzione di FC. In fondo lo studio SHIFT mostra come la riduzione dell’endpoint combinato ospedalizzazioni per scompenso e mortalità cardiovascolare sia stata ottenuta con una riduzione media di 9 b/min della FC basale. Le metanalisi disponibili indicano come la riduzione di mortalità ottenuta grazie alla terapia betabloccante cronica nei pazienti con scompenso cardiaco e/o con pregresso infarto miocardico 10 non sia in rapporto alla dose dei betabloccanti ma solo alla riduzione di FC. Per quanto riguarda lo scompenso, l’hazard risk si riduce mediamente di 0.76 per una riduzione di 12 b/min10. Il risultato ottenuto con l’ivabradina con una riduzione media di 9 b/min è in linea con questa relazione generale. In pratica, però, occorre tener presente due osservazioni: 1) nel mondo reale, dosi maggiori di betabloccante non vengono, di fatto, somministrate a causa degli effetti collaterali presunti o realmente verificati; 2) non è detto che dosi superiori avrebbero di fatto consentito di raggiungere valori di FC così bassi. Nello SHIFT la riduzione di FC è stata di 15.4 b/min nella coorte generale e 15.5 b/min nel sottogruppo che assumeva una dose di betabloccante >50% di quella target.
Che cosa cambia, nella mia pratica clinica,
dopo lo SHIFT?
Era dal 2003 che un grande trial sulla terapia farmacologica dello scompenso cardiaco cronico (l’EPHESUS11) non generava un risultato positivo. Lo SHIFT quindi interrompe un periodo buio nella ricerca clinica cardiovascolare e lo fa con un farmaco che agisce su uno dei principali determinanti del consumo miocardico di ossigeno, dell’apporto di ossigeno al miocardio, del metabolismo miocardico. Lo SHIFT quindi trasmette al clinico una rafforzata convinzione sull’importanza della riduzione della FC nella terapia dello scompenso. Lo studio non dice (né potrebbe farlo dato il suo disegno sperimentale) se il risultato positivo mediato da quei 9 b/min in meno sarebbe stato ottenuto semplicemente aumentando la dose del betabloccante presente nella terapia di background.
Molto pragmaticamente, però, lo SHIFT offre al clinico e al paziente incapaci (per varie ragioni) di raggiungere dosi di betabloccante appropriatamente bradicardizzanti un’opportunità terapeutica unica e fino ad oggi non disponibile. Ovviamente sarebbe un errore utilizzare lo SHIFT come argomento culturale per sostituire il betabloccante con l’ivabradina nella terapia standard dello scompenso cardiaco cronico.
BIBLIOGRAFIA
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6. Fox K, Ford I, Steg PG, Tendera M, Robertson M, Ferrari R; BEAUTIFUL Investigators. Heart rate as a prognostic risk factor in patients with coronary artery disease and left-ventricular systolic dysfunction (BEAUTIFUL): a subgroup analysis of a randomised controlled trial. Lancet 2008;372:817-21.
7. Fox K, Ford I, Steg PG, Tendera M, Ferrari R; BEAUTIFUL Investigators. Ivabradine for patients with stable coronary artery disease and left-ventricular systolic dysfunction (BEAUTIFUL): a randomised, double-blind, placebo-controlled trial. Lancet 2008;372:807-16.
8. Fox K, Ford I, Steg PG, Tendera M, Robertson M, Ferrari R; BEAUTIFUL Investigators. Relationship between ivabradine treatment and cardiovascular outcomes in patients with stable coronary artery disease and left ventricular systolic dysfunction with limiting angina: a subgroup analysis of the randomized, controlled BEAUTIFUL trial. Eur Heart J 2009;30:2337-45.
9. Ceconi C, Comini L, Suffredini S, et al. Heart rate reduction with ivabradine prevents the global phenotype of left ventricular remodeling. Am J Physiol Heart Circ Physiol 2010, in press.
10. McAlister FA, Wiebe N, Ezekowitz JA, Leung AA, Armstrong PW. Meta-analysis: beta-blocker dose, heart rate reduction, and death in patients with heart failure. Ann Intern Med 2009;150:784-94.
11. Pitt B, Remme W, Zannad F, et al.; Eplerenone Post-Acute Myocardial Infarction Heart Failure Efficacy and Survival Study Investigators. Eplerenone, a selective aldosterone blocker, in patients with left ventricular dysfunction after myocardial infarction. N Engl J Med 2003;348:1309-21.


IL PUNTO DI VISTA DI GIANFRANCO SINAGRA
La frequenza cardiaca rappresenta un importante indicatore di rischio cardiovascolare, dotato di potere prognostico indipendente da quello degli altri indicatori di rischio noti; in particolare, nei pazienti affetti da scompenso cardiaco (SC), una più elevata frequenza cardiaca a riposo risulta pressoché costantemente associata a più elevati tassi di mortalità1. Pensare tuttavia che la sua riduzione, comunque ottenuta, sia necessariamente destinata ad influenzare la sopravvivenza o gli eventi maggiori sarebbe un’ipersemplificazione, come un’ipersemplificazione si è dimostrato ad esempio l’assunto che poiché le catecolamine plasmatiche correlano con la sopravvivenza, la loro riduzione non poteva che migliorare l’outcome dei pazienti affetti da SC. Di fatto, il trial MOXCON2, pur avendo confermato la capacità della moxonidina di ridurre la concentrazione di catecolamine plasmatiche e la frequenza cardiaca, è stato precocemente interrotto per eccesso di eventi nel braccio in trattamento attivo.
Una riduzione della frequenza cardiaca ottenuta mediante l’impiego dei betabloccanti ha dimostrato di correlare significativamente con una migliore “sopravvivenza” (riduzione della mortalità totale) nei pazienti con SC. Tuttavia, questa classe di farmaci possiede anche altri meccanismi d’azione in grado di contribuire al beneficio clinico complessivo da essi apportato, il che rende difficile quantificare l’impatto prognostico specificatamente ascrivibile alla loro azione cronotropa negativa 1.
Lo studio SHIFT
Sulla base di tali premesse è stato disegnato e condotto il trial SHIFT3, avente come specifico obiettivo quello di valutare se la riduzione della frequenza cardiaca ottenuta mediante l’impiego dell’inibitore selettivo del nodo del seno ivabradina possa avere un effetto favorevole sulla “storia naturale” dei pazienti affetti da SC.
In estrema sintesi, si tratta di uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato verso placebo in cui sono stati arruolati pazienti con SC cronico sintomatico (52% in classe NYHA III-IV), di età media 60±11 anni, disfunzione sistolica ventricolare sinistra (frazione di eiezione 29±5%), tutti in ritmo sinusale (frequenza cardiaca ≥70 b/min), con almeno una ospedalizzazione per SC nei precedenti 12 mesi ed in trattamento medico definito “ottimizzato” da almeno 4 settimane. Sono stati giudicati eleggibili 7411 pazienti; di questi, 6505 sono stati randomizzati al trattamento con ivabradina alla dose target di 7.5 mg 2 volte al giorno (n=3241) o con placebo (n=3264). La frequenza cardiaca media all’arruolamento era 80±10 b/min. Nel 68% dei casi l’eziologia dello SC era ischemica; nel 56% dei pazienti era riportato uno stato postinfartuale. Sebbene l’89% dei pazienti risultasse “trattato con betabloccante”, solo nel 26% dei casi tale farmaco era assunto alla dose target; solo il 56% dei pazienti era trattato ad almeno il 50% della dose target. Nel 12% dei casi veniva contemplata la possibilità di impiego di betabloccanti non validati da studi clinici controllati. La riduzione di frequenza cardiaca osservata a 28 giorni nel gruppo ivabradina (dosaggio medio 6.5±1.6 mg) era stata di 15.4±10.7 b/min.
L’endpoint composito primario dello studio includeva le morti cardiovascolari e le ospedalizzazioni per SC.
Nel corso di un follow-up mediano di 23 mesi, 793 (24%) pazienti nel gruppo ivabradina e 937 (29%) pazienti nel gruppo placebo hanno raggiunto l’endpoint primario [hazard ratio (HR) 0.82, intervallo di confidenza (IC) al 95% 0.75-0.90, p<0.0001], principalmente in virtù di una significativa riduzione delle ospedalizzazioni per SC (16 vs 21%; HR 0.74, IC 95% 0.66-0.83, p<0.0001) e delle morti per SC (3 vs 5%; HR 0.74, IC 95% 0.58-0.94, p=0.014). 
Nessuna differenza significativa è stata osservata in termini di mortalità totale (16% ivabradina vs 17% placebo; p=0.092) e mortalità cardiovascolare (14 vs 15%; p=0.128).
Sulla scorta di questi risultati, gli investigatori dello SHIFT hanno concluso che la riduzione della frequenza cardiaca, ottenuta mediante l’impiego dell’ivabradina in associazione alla terapia convenzionale, è in grado di migliorare significativamente l’outcome dei pazienti affetti da SC cronico.
Commento
Da decenni si reiterano i richiami sulla necessità di armonizzare i “pattern operativi” di due mondi – quello dei trial farmacologici e quello della pratica clinica – per certi versi contrapposti, adattando il disegno dei primi a quelle che sono le reali necessità del secondo (reclutamento di popolazioni maggiormente rappresentative dei pazienti che si incontrano nella comunità) ed, allo stesso tempo, applicando rigorosamente nella pratica clinica l’evidenza generata dai trial farmacologici (impiego estensivo ed alle dosi target dei farmaci di provata efficacia).
Lo SHIFT ha, purtroppo, il raro demerito di offrire una sintesi ma “al contrario” tra questi due mondi, confermando il principale problema che affligge la quasi totalità dei trial farmacologici sullo SC (pazienti iperselezionati e quindi potenzialmente poco rappresentativi), ma aggiungendovi il limite che continua a caratterizzare negativamente dal punto di vista terapeutico la pratica clinica, ovvero l’impiego subottimale dei farmaci o dei relativi dosaggi.
Questo ultimo aspetto, che pure si osserva nell’epidemiologia reale, è tanto più grave per il fatto che lo studio, per ammissione stessa degli autori, è stato disegnato allo scopo di valutare l’effetto di ivabradina “in aggiunta al trattamento basato sulle linee guida”; in tal senso, era lecito attendersi un maggior rigore nella scelta dei criteri di eleggibilità e nella modalità di conduzione dello studio, con specifico riferimento all’impiego dei farmaci raccomandati per lo SC, da somministrare alle dosi target nel più ampio numero possibile di pazienti. Il rigore è tanto più d’obbligo se si considera che lo SHIFT non è uno studio sui pazienti “intolleranti” al betablocco bensì aveva come obiettivo dichiarato quello di valutare il “valore aggiunto” di ivabradina al betablocco, con tutti i suoi effetti compositi, incluso il cronotropo negativo. Il raggiungimento di tale obiettivo può dichiararsi fallito, essendo stati i betabloccanti chiaramente sotto o mal utilizzati.
I pazienti arruolati nello SHIFT avevano un’età media di 60 anni, con solo il 10% circa di essi di età ≥75 anni (purtroppo, quest’ultima è l’età media dei pazienti con SC cronico che si incontrano nella comunità), erano tutti in ritmo sinusale (mentre almeno un terzo dei pazienti che si incontrano nella pratica clinica sono in fibrillazione atriale). Per disegno di studio, era correttamente impedito l’impiego di antiaritmici di classe I e IV ed era sconsigliato quello dell’amiodarone. Se a tutto ciò aggiungiamo l’esclusione (“more solito” ...) di alcuni sottogruppi numericamente importanti quali quello con SC cronico a frazione di eiezione preservata (che assommano ad almeno un terzo dei pazienti “reali” e per i quali la riduzione della frequenza cardiaca è un elemento critico benefico) o quello con una o più comorbilità maggiori (evenienza pressoché costante tra i pazienti di età più avanzata), si può facilmente concludere che i pazienti arruolati nello SHIFT costituiscono una coorte di studio fortemente atipica per poter essere considerata rappresentativa della popolazione con SC cronico che si incontra nella comunità 4. A queste considerazioni ne va aggiunta un’altra, inquietante: solo il 3-4% di una serie di pazienti relativamente giovani, arruolati fra il 2006 e il 2009, per oltre il 50% postinfartuati e con una frazione di eiezione media di 29% (per protocollo ≤35%) era protetta da un defibrillatore!
Semplicemente sulla base di queste prime considerazioni, il grado di generalizzabilità dei risultati dello SHIFT appare piuttosto bassa.
Tuttavia, come già accennato, non è questo il principale limite dello studio. Sebbene il 90% circa dei pazienti arruolati nello SHIFT fosse “in trattamento betabloccante”, solo poco più della metà riceveva dosi di farmaco ≥50% di quelle comunemente raccomandate per lo SC e meno di un quarto assumeva dosaggi ottimali.
È da segnalare come, a riprova del “non significativo betablocco” all’arruolamento, valori di frequenza cardiaca pari a 80±9.5 b/min riproducano sostanzialmente quelli delle serie “non betabloccate” dei grandi trial sullo SC cronico (83±13 b/min nello US Carvedilol Trial; 80±14 b/min nel CIBIS II e 79±13 b/min nel CIBIS III con il bisoprololo; 79±13 b/min nel SENIORS con il nebivololo)5-8. Appare quindi lecito, anzi doveroso, chiedersi se i risultati emersi dallo studio sarebbero stati gli stessi (in termini di efficacia e tollerabilità) nel caso in cui il trattamento betabloccante fosse stato maggiormente aderente a quelle che sono le raccomandazioni delle linee guida. 
Su questo punto, pur riconoscendo il mancato raggiungimento in una sostanziale proporzione di pazienti delle dosi target raccomandate di betabloccanti, gli investigatori dello SHIFT adducono due argomentazioni a difesa della validità dei risultati ottenuti: 1) il pattern di impiego dei betabloccanti nello SHIFT rispecchia molto da vicino quello comunemente riscontrabile nella pratica clinica. Tuttavia, questa argomentazione manca di qualsivoglia valenza giustificativa, dal momento che per poter legittimare l’introduzione nella pratica clinica di nuove terapie non si può prescindere da una loro corretta valutazione, vale a dire nel contesto di quelle che sono le terapie attualmente raccomandate ed ai dosaggi considerati ottimali (senza dimenticare che, a dispetto di un pragmatismo comprensibile, non è sull’incongruo impiego dei farmaci che potremo costruire un’evidenza scientifica “solida”); 2) la seconda argomentazione, in verità più subliminale, prende spunto dal fatto che nello SHIFT l’entità di riduzione della frequenza cardiaca osservata nell’intera popolazione di studio era sovrapponibile a quella rilevata nel sottogruppo di pazienti in trattamento betabloccante a dosaggi ≥50% delle dosi target, senza che ciò abbia penalizzato l’endpoint ospedalizzazioni per peggioramento dello SC (HR 0.81, IC 95% 0.67-0.97, p=0.021). La sottolineatura di questo dato da parte degli investigatori dello SHIFT sembrerebbe voler tendenziosamente suggerire che un eventuale maggior dosaggio dei betabloccanti nei pazienti in trattamento con basse dosi non avrebbe ridotto ulteriormente e significativamente la frequenza cardiaca ed influenzato la rilevanza clinica dei risultati. Tale proposito sembra prendere definitivamente corpo quando gli investigatori dello SHIFT ricordano una recente metanalisi sui trial con betabloccanti nello SC 9, per rimarcarne il dato dell’associazione tra sopravvivenza ed entità della riduzione della frequenza cardiaca ottenuta farmacologicamente ma non tra sopravvivenza e dosaggi farmacologici impiegati.
Senza farsi avviluppare da queste circonvoluzioni ci si chiede: ma avrà pure un senso il fatto che l’endpoint primario dello studio nella sottoanalisi in oggetto, centrata sui pazienti maggiormente betabloccati, non sia risultato significativamente migliorato? Nonostante la riduzione delle ospedalizzazioni per peggioramento dello SC, non è stata infatti osservata una riduzione dell’endpoint morte cardiovascolare ed ospedalizzazioni per peggioramento dello SC, viceversa evidenziata nello studio globale. Semmai, ciò suggerisce che, al di là dei “numeri” generati dalla globalità del campione, proprio nel sottogruppo in trattamento con almeno il 50% della dose target, l’ivabradina non ha dimostrato di rappresentare un valore aggiunto sull’endpoint primario. Né tantomeno è riuscita l’ivabradina ad influenzare significativamente gli endpoint hard, evidenziando così appieno i limiti di un mero inseguimento del target di riduzione della frequenza cardiaca, fuori da una logica di “effetti globali” del betablocco.
La sottoanalisi sui pazienti trattati con almeno il 50% della dose target di betabloccante appare pertanto fuorviante: il beneficio clinico complessivo prodotto dai betabloccanti, a differenza di quello indotto dall’ivabradina, non può essere circoscritto soltanto al loro effetto cronotropo negativo; inoltre, non esiste alcun studio che abbia a tutt’oggi convincentemente valutato il tipo di correlazione esistente tra dosaggio del betabloccante, comportamento della frequenza cardiaca ed outcome.
Merita peraltro osservare che, nell’analisi per sottogruppi, il beneficio da ivabradina si sia rivelato tanto maggiore quanto più elevata era la frequenza cardiaca pre-trattamento (≥77 b/min). Ciò non fa che aumentare le perplessità sulla reale entità dei vantaggi che l’ivabradina potrebbe offrire qualora venisse associata ad una terapia betabloccante realmente ottimizzata (cioè bradicardizzante): tanto maggiore era la frequenza cardiaca pre-trattamento, tanto più probabile è che esistessero margini clinici per poter incrementare ulteriormente il dosaggio del betabloccante.
La ragione del mancato raggiungimento delle dosi target di betabloccanti in quasi la metà dei pazienti arruolati nello SHIFT viene fondamentalmente ricondotta alla ridotta tolleranza emodinamica nei confronti di questa classe di farmaci, ed in particolare al verificarsi di ipotensione in circa la metà dei casi che non hanno tollerato dosaggi ≥50% di quelli target. Peraltro, al momento dell’arruolamento, con pazienti per definizione in terapia medica convenzionale stabilizzata, i valori medi di pressione arteriosa erano pari a 122/77 mmHg, quindi sostanzialmente sovrapponibili a quelli pre-trattamento delle popolazioni arruolate nei grandi trial con betabloccanti nello SC, ove pure i betabloccanti poterono essere incrementati sino a dosaggi ben superiori di quelli raggiunti nello SHIFT.
Lo scarso impiego dei betabloccanti od il loro frequente impiego a basse dosi rimette in discussione anche il profilo di sicurezza e tollerabilità dimostrato dall’associazione con ivabradina, che potrebbe non rivelarsi tale in presenza di un utilizzo più appropriato di tali farmaci. Nello specifico, le sospensioni dal trial furono 21% nel gruppo ivabradina e 19% nel placebo (HR 0.81, IC 95% 0.67-0.97, p=0.02). Peraltro, è appena il caso di ricordare che nel trial CIBIS II, che pure arruolava soggetti di età media 61 anni, tutti in classe NYHA III-IV (pertanto clinicamente più fragili), la dose raggiunta di bisoprololo fu per oltre i due terzi dei pazienti ≥5 mg/die e la percentuale di sospensione dal trial fu pari al 15%. Come dire che: a) il profilo di tollerabilità dei betabloccanti su pazienti ben seguiti è generalmente buono; b) il profilo di tollerabilità nello SHIFT, espresso dalle sospensioni dal trial, non è stato eccellente e 3) in presenza di un betablocco efficace in termini di bradicardizzazione, il profilo di tollerabilità ed efficacia dell’ivabradina andrebbe rivalutato!
Un’ulteriore annotazione, pertinente allo SHIFT, va fatta anche relativamente alle altre componenti della terapia convenzionale dello SC.
Il 90% circa dei pazienti arruolati nello SHIFT riceveva un inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina od un antagonista recettoriale dell’angiotensina II, ma non è dato sapere se tale forma di trattamento era attuata alle dosi raccomandate come target oppure se, come per i betabloccanti, il pattern di implementazione ricalcava quello comunemente riscontrato nella pratica clinica (anche in questo caso caratterizzato, seppur in misura meno evidente che per i betabloccanti, dal frequente impiego di dosi subottimali). 
È evidente che una serie così importante di limitazioni metodologiche non può non condizionare pesantemente in senso negativo la validità dei risultati dello SHIFT. Tuttavia, anche volendo prescindere da tali limitazioni, il giudizio sui dati di outcome emersi dallo studio resta critico.
Va infatti rimarcato come l’impiego dell’ivabradina non sia risultato associato ad alcun significativo beneficio sui maggiori endpoint di mortalità totale (16 vs 17%; HR 0.90, IC 95% 0.80-1.02) e cardiovascolare (14 vs 15%; HR 0.91, IC 95% 0.80-1.03). Inoltre, il raggiungimento dell’endpoint combinato primario dello studio è stato possibile principalmente in virtù di una significativa riduzione delle ospedalizzazioni per SC. Anche ammettendo che, in tempi in cui vi è la necessità di un forte contenimento dei costi economici, una riduzione dei tassi di ospedalizzazione possa rappresentare un obiettivo importante da raggiungere, ciò non può non far dimenticare che l’evento “ospedalizzazione”, per molteplici e ben note ragioni, rappresenta un endpoint assai meno affidabile dell’evento “morte” nel definire il reale grado di efficacia di una terapia. Nello SHIFT, i due terzi circa dei pazienti sono stati arruolati nell’Europa Orientale in paesi (soprattutto Russia e Romania) che potrebbero avere pattern di ospedalizzazione profondamente differenti da quelli dei paesi usualmente coinvolti nei trial clinici (Nord America ed Europa Occidentale). Ciò costituisce un ulteriore elemento di perplessità.
Conclusione
Nel corso degli ultimi decenni, il trattamento medico dello SC cronico è evoluto di pari passo con il progredire delle conoscenze fisiopatologiche ed il mutare dei paradigmi interpretativi della sindrome, da quello “cardio-renale” all’“emodinamico” per arrivare all’attuale modello “neuro-ormonale-biologico”10.
La pubblicazione del trial SHIFT è stata accompagnata da un editoriale il cui titolo “Ivabradine in heart failure – no paradigm SHIFT ... yet”11 riassume – con un efficace gioco di parole – come l’orientamento fisiopatologico e, di conseguenza, anche l’indirizzo terapeutico nello SC restino, per ora, saldamente imperniati sulla disregolazione neuro-ormonale e su un antagonismo farmacologico capace di contrastare il più estensivamente possibile quelle che sono le determinanti principali del mantenimento e della progressione della sindrome.
Nell’ambito di questo ben consolidato scenario fisiopatologico e terapeutico, rimangono ovviamente sempre aperte le porte all’ingresso di nuovi farmaci che si dimostrino in grado di produrre benefici aggiuntivi nei pazienti affetti da SC. In tale ottica, l’ivabradina risulta un farmaco concettualmente interessante, certamente complementare e probabilmente alternativo al betablocco, se non tollerato, e come tale meritevole di essere impiegato ed ulteriormente testato per valutarne in modo più appropriato il reale impatto sulla storia naturale della sindrome.
Deve essere tuttavia chiaro che: 1) non vi è alcuna evidenza scientifica che esso costituisca una strategia alternativa ai betabloccanti quando tollerati, 2) non vi è evidenza convincente sulla capacità di influenzare endpoint hard quale la mortalità totale o la mortalità totale associata alle ospedalizzazioni in pazienti adeguatamente bradicardizzati (frequenza cardiaca <60 b/min); 3) non sono noti i profili di tollerabilità, sicurezza ed efficacia quando la strategia è di associazione di ivabradina ad un betablocco “reale”, incrementato a dosi clinicamente bradicardizzanti; 4) vi sono evidenti limiti di trasferibilità (a differenza del betablocco, testato su un’ampia gamma di popolazioni diverse per età e severità clinica dello SC) del trial SHIFT in popolazioni di pazienti anziani e con insufficienza renale e tanto meno sui fibrillanti. Sulla base dell’evidenza clinica attualmente disponibile si deve pertanto concludere che, nell’ambito dello SC cronico da disfunzione sistolica ventricolare sinistra, l’utilità di impiego dell’ivabradina appare circoscrivibile ad una “elite” di pazienti in ritmo sinusale quali quelli 1) intolleranti ai betabloccanti e con frequenza cardiaca >70 b/min; 2) intolleranti al betablocco, prevalentemente per ipotensione, che non abbiano ancora raggiunto una bradicardizzazione efficace; 3) tachicardici malgrado un betablocco a dosaggi congrui.
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