Ospedali per intensità di cure in Cardiologia:
si persegue davvero la centralità del paziente o quella dell’organizzazione?
Gian Luigi Nicolosi
S.O.C. di Cardiologia, A.R.C., A.O. S. Maria degli Angeli, Pordenone

IL CONTESTO ATTUALE
In questi anni la progettualità in termini di sanità a carattere nazionale si è spesso dispersa nelle eterogeneità e complessità delle realtà locali, talora privilegiando astrattezza e genericità di soluzioni, oltre che interessi di parte che spesso vanno contro l’unitarietà di approccio ai problemi ed un’organizzazione realmente centrata sul paziente e i suoi bisogni. La realtà locale è infatti estremamente eterogenea e diversificata, caratterizzata da un’ampia costellazione di Divisioni di Cardiologia ospedaliere e universitarie, Servizi di Cardiologia con letti, Servizi senza letti di degenza, Unità di Terapia Intensiva Coronarica in Divisioni Cardiologiche ma anche all’interno di Servizi con letti, strutture cardiologiche ambulatoriali e non, sia autonome che aggregate 1,2. Da ciò deriva probabilmente, anche per la Cardiologia, il fascino della “grande tentazione” dell’ospedale per intensità di cure, per molte realtà già presente nei fatti3,4. Accade così che la maggioranza delle strutture cardiologiche corrano il rischio di perdere la propria autonomia e identità tramite la frammentazione e l’inserimento delle diverse componenti in Aree Omogenee per Intensità di Cura o Dipartimenti di Medicina e/o di Emergenza-Urgenza o di Riabilitazione. Il rischio, tanto maggiore quanto minore è la complessità delle strutture cardiologiche e la coesione organizzativa fra le stesse, comporta la diluizione della specificità cardiologica attraverso lo smembramento delle Cardiologie e la realizzazione di nuove entità dove, ad esempio, l’Unità Coronarica possa venire aggregata al Dipartimento di Emergenza o all’Area di Emergenza, il Reparto di Degenza a quello di Medicina Interna, i Laboratori di Cardiologia al Dipartimento di Immagine, e così via. Tali soluzioni organizzative, così devastanti dal punto di vista della continuità assistenziale, della specificità della cura cardiologica e della stessa centralità del paziente, sono purtroppo un pericolo incombente, qua e là già in fase di realizzazione, purtroppo supportate talora dagli stessi cardiologi. 
L’organizzazione ospedaliera per intensità di cure è il tipico risultato di un’ipersemplificazione dei problemi, dei percorsi e delle organizzazioni, in nome di una teorica razionalizzazione, e viene quindi sostenuta e propagandata proprio quale soluzione per garantire efficienza, con il grande equivoco e il sottile risvolto di conseguire con ciò l’obiettivo della centralità delle cure e dell’organizzazione, ma non la centralità vera del paziente cardiologico e dei suoi bisogni.
In questa situazione la tendenza del cardiologo ospedaliero è stata spesso quella di “isolarsi” nella sofisticazione delle superspecializzazioni, a sviluppo esponenziale all’interno delle cardiologie, dedicandosi maggiormente alla produzione di prestazioni, spesso indicate da altri specialisti, piuttosto che alla cura dei pazienti cardiologici. Ciò ha talora comportato difetti di comunicazione e incapacità di coinvolgimento anche tra cardiologi operanti all’interno della stessa struttura o di strutture geograficamente vicine o che incidono sullo stesso bacino di utenza. In questo scenario le “grandi” Cardiologie si sono sentite fin troppo spesso sicure e autosufficienti, con ciò facilmente isolandosi dal contesto territoriale. Da questi meccanismi le “piccole” Cardiologie si sono sentite e sono state spesso di fatto isolate. D’altra parte le Cardiologie di “media” dimensione si sono spesso isolate attraverso meccanismi di competizione e autoaffermazione più o meno spinti. A questo si aggiunga una certa difficoltà culturale, da parte dei cardiologi, a coinvolgere e, soprattutto, a corresponsabilizzare (operando come team leader o disease manager) figure mediche diverse (internisti, diabetologi, medici dell’emergenza e del 118, medici di medicina generale, ecc.) comunque operanti sulla stessa problematica cardiologica nell’ambito di uno stesso contesto geografico ed organizzativo (provincia, area vasta, area metropolitana, ecc.). 
Ecco perché, in qualche modo, gli stessi cardiologi stanno aiutando e hanno aiutato l’affermazione del concetto di ospedale per intensità di cure, anche per l’incapacità evidente, in molte situazioni, di proporre soluzioni razionali alternative, nonché di riaffermare e documentare nei fatti l’utilità e l’essenzialità della propria specificità professionale e di un governo clinico unitario delle problematiche cardiologiche, gestito da cardiologi, fondato su basi scientificamente solide, che tenga conto della complessità reale dei problemi clinici, dell’utilizzo delle tecnologie, dei percorsi di cura, in varie forme e per tutte le fasi della malattia.
IL DIPARTIMENTO CARDIOVASCOLARE
PER INTENSITÀ DI CURE
Il Dipartimento Cardiovascolare Intra- o Interaziendale per intensità di cure potrebbe rappresentare, in questo contesto, una possibile soluzione al problema delle diverse graduali intensità di cura richieste nei diversi momenti dal singolo malato, valorizzando però da una parte l’efficienza del chi fa che cosa, insito appunto nel concetto di intensità di cure, ma ripristinando anche il valore della continuità assistenziale del percorso sul paziente, secondo il modello della “gradualità delle cure cardiologiche” 3,5. Tale progettualità acquisisce ancora più forza di razionalità se concorre a coordinare le strutture cardiologiche a diversa complessità incidenti su un determinato bacino di utenza. Ecco allora che il Dipartimento Cardiovascolare per intensità (o gradualità) di cure può superare i confini non solo della singola istituzione cardiologica, ma anche di ogni singolo ospedale, per offrire una risposta ai bisogni cardiologici, in maniera coordinata e pur sempre nella logica dell’intensità di cure, di un determinato bacino di utenza, geograficamente e storicamente identificato. 
È vero che la costituzione di un Dipartimento Cardiovascolare per intensità o gradualità di cure, specie se inteso per bacino di utenza, non appare ancora né agevole né avviata in maniera sistematica. Una gran parte di tali difficoltà di affermazione e mancata realizzazione dello strumento dipartimentale risiede però nelle difficoltà sopra esposte, interne alla Cardiologia, in parte esaltate anche dalla cronica ritrosia ad accettare soluzioni, come quella del Dipartimento, che deve trovare nelle singole sedi condivisi equilibri fra verticalità e gerarchia dei ruoli, fra integrazione e suddivisione delle funzioni, nella disponibilità reciproca a perdere porzioni di autonomia nel contesto di obiettivi comuni. Per superare tali difficoltà, e rendere i dipartimenti più accettabili, si sono talora create strutture dipartimentali in cui l’aspetto della verticalità è stato “diluito” nei regolamenti attuativi, creando modelli che possono anche essere definiti come “obliqui”. Si sono sottovalutate, però, le notevoli opportunità offerte dai Dipartimenti Orizzontali, che forse si presterebbero meglio, in questa fase storica, a far avanzare culturalmente la capacità aggregativa e organizzativa dei cardiologi fra ospedale e territorio, anche attraverso i modelli dei Dipartimenti Interaziendali di un determinato bacino di utenza (Provincia, Area Vasta, Area Metropolitana, ecc.).
Ciò si realizza attraverso il superamento, in senso organizzativo, dei confini della propria specializzazione professionale, al fine di lavorare in sintonia con tutte le altre figure professionali che interagiscono con le stesse problematiche sanitarie. La praticabilità delle progettualità applicative dipende però dall’attenzione alla complessità dei problemi da risolvere nel contesto delle esigenze locali e della loro diversità e peculiarità, trovando in ogni sede obiettivi concreti, aggreganti, condivisi e perseguibili. Riconoscere la priorità della centralità del paziente vuol dire facilitare i collegamenti organizzativi, concordati su percorsi assistenziali, anche tra cardiologie a diversa complessità o specificità che incidono sullo stesso bacino d’utenza, superando la sterile competizione e riconoscendo il ruolo vincente della collaborazione. Ciò costituisce anche la base di nuove relazioni organizzative e percorsi assistenziali da condividere con le diverse figure professionali (ospedaliere e territoriali, quali appunto internisti, diabetologi, cardiologi del territorio, medici dell’emergenza e del 118, medici di medicina generale, ecc.) che concorrono e interagiscono con le stesse problematiche sanitarie in ogni singola particolare realtà locale. Tali aggregazioni organizzative contribuiscono a sensibilizzare i cardiologi nei riguardi dell’imprescindibile necessità di interazione con altri specialisti, come i nefrologi, gli pneumologi, gli oncologi, ecc., a loro volta organizzati per diversi gradi di complessità e gradualità di cura. Tutto ciò crea anche il presupposto per una realistica implementazione delle linee guida, al fine di superare la semplice produzione cartacea di documenti, a tutto vantaggio di applicazioni reali mediante protocolli condivisi e partecipati da chi lavora sul campo. Una struttura dipartimentale così concepita dovrebbe consentire anche di raggiungere una “massa critica” tale da proporsi come interlocutori autorevoli e credibili, in un contesto organizzato di rete fra ospedale e territorio, e attraverso progettualità negoziabili con le controparti istituzionali, quali le Direzioni Generali e gli Assessorati alla Sanità, anche per ciò che concerne l’approvvigionamento delle risorse. Tali progettualità condivise avrebbero infatti più facilmente caratteristiche di praticabilità, razionalità e di favorevole rapporto costo/efficacia, e quindi di efficienza, anche in un sistema condizionato ad isorisorse. 
In questo contesto le attività dei Dipartimenti Cardiovascolari potrebbero diventare così professionalizzanti da acquisire anche una grande valenza formativa e rappresentare una grande opportunità per la ricerca, condizioni che non dovrebbero venire sottovalutate anche dalle istituzioni universitarie.
Tutti i modelli operativi locali, contestualizzati nel Dipartimento Cardiovascolare Intra- o Interaziendale o comunque concepiti, devono però riconoscere la centralità della figura del “paziente” e del suo “bisogno” e non quella della “prestazione”. Va anche riconosciuto il ruolo essenziale del medico di medicina generale che si trova in un osservatorio privilegiato per l’analisi dei bisogni dei pazienti e per la differenziazione della domanda e della risposta, da commisurare appunto al bisogno. A tale livello appare critica la disponibilità di un supporto alla decisione per il medico di medicina generale, per le problematiche di tipo cardiologico, da parte dello specialista, effettuato eventualmente anche per via telematica (teleconsulto, ecc.), al fine di evitare accessi impropri all’ospedale e di filtrare e risolvere in periferia i bisogni più semplici. Ciò può facilitare anche una gestione ottimizzata delle liste di attesa per le prestazioni, da condividere secondo priorità cliniche, mediante anche l’organizzazione e la facilitazione di percorsi attraverso processi concordati e partecipati.
Le diverse Cardiologie, piccole, medie o grandi, dei diversi ospedali che incidono sullo stesso bacino di utenza devono, in questo contesto, riconoscere, accettare e condividere ruoli funzionalmente diversi e complementari, nel rispetto della dignità e competenza specifica e nella variabilità dei diversi contesti organizzativi. In questa visione vanno probabilmente perseguite una maggiore accessibilità e flessibilità delle grandi Cardiologie degli ospedali di riferimento, ma va anche accresciuto e valorizzato il ruolo delle piccole e medie Cardiologie negli ospedali di rete, che devono poter svolgere anche funzioni insostituibili e riconosciute di strutture di interfaccia e collegamento tra tutti gli attori operanti sul campo, interagendo anche con i Distretti.
CONCLUSIONI
La realizzazione di un progetto di efficace continuità assistenziale fra ospedale e territorio rappresenta per i cardiologi una sfida, ma anche una grande opportunità, che aiuterà a superare sia la settorializzazione subspecialistica e ipertecnologica che la possibile perdita e diluizione di specificità di una parte della Cardiologia. Il concetto organizzativo dell’intensità di cure, o della gradualità delle cure, non è necessariamente un nemico da combattere, ma risiede già nella realtà degli ospedali a diversa complessità, anche in senso cardiologico, che incidono su un determinato bacino di utenza. Si tratta quindi di avere il coraggio di reinterpretare il modello dell’intensità di cure non a favore dell’organizzazione (ospedale appunto per intensità di cure) ma a favore del paziente, nel nostro caso cardiologico (appunto Dipartimento Cardiovascolare per intensità o gradualità delle cure). L’economia di scala suggerisce che probabilmente la soluzione va cercata al di fuori della singola struttura ospedaliera al fine di coordinare in rete i diversi ospedali e le diverse strutture cardiologiche che incidono su un particolare bacino di utenza. Per arrivare a tale obiettivo è necessaria una analisi attenta e realistica dei bisogni attuali e prospettici di ogni singolo bacino di utenza e realtà locale. Si deve prevedere un’organizzazione che rispetti, per quanto possibile, l’esistente, e diversifichi il grado di autonomia e l’entità dell’integrazione fra le diverse strutture, attraverso una progettualità realizzativa graduale, condivisa e partecipata attraverso la negoziazione, riconoscendo nel Dipartimento Cardiovascolare per intensità o gradualità di cure la propria identità organizzativa, strutturata al fine di gestire i bisogni cardiologici di un intero e definito bacino di utenza, al di là e a completamento dell’identità delle singole strutture cardiologiche che vi partecipano. D’altra parte la partecipazione ad altri dipartimenti non cardiologici da parte delle singole Cardiologie non deve precludere la sua realizzazione. È ovvio che tale tipo di progettualità richiede il superamento degli isolazionismi e delle contrapposizioni sterili, quale soluzione organizzativa dei flussi operativi, non solo per fornire prestazioni, ma per gestire il servizio. È questa una grande sfida propositiva di integrazione fra ospedale e territorio e fra differenti realtà cardiologiche, piccole, medie e grandi, che presidiano a diverso titolo un determinato bacino di utenza, superando l’ottica dell’intensità di cure mediante un modello più avanzato, quale appunto il Dipartimento Cardiovascolare per bacino di utenza, che presenta le potenzialità di offrire al cittadino soluzioni personalizzate e di maggiore qualità a parità di costi, in confronto alla genericità delle risposte, pur di livello qualitativo elevato, intrinseche nel modello per intensità di cure.

bibliografia
1. Federazione Italiana di Cardiologia. 5° Censimento delle strutture cardiologiche in Italia. Anno 2005. G Ital Cardiol 2008;9(Suppl 1-5):5S-83S.
2. Censimento delle Strutture Cardiologiche, Anno 2005. Progetto ANMCO-SIC. http:// www.anmco.it/strutture/censimento.
3. Boccanelli A, Dei Cas L, Bellocci F, et al. La Cardiologia italiana nell’attuale contesto del Servizio Sanitario Nazionale e nella prospettiva di nuovi modelli organizzativi. G Ital Cardiol 2009;10(Suppl 3-6):7S-14S.
4. Boccanelli A, Dei Cas L, Bellocci F, et al. Considerazioni sull’attuale assetto sanitario. G Ital Cardiol 2009;10(Suppl 3-6):81S-84S.
5. Nicolosi GL. Criticità nella realizzazione di una efficace continuità assistenziale fra ospe­dale e territorio. In: Nicolosi GL, ed. Regionalizzazione della sanità e continuità assistenziale fra ospedale e territorio: sfida per il cardiologo e opportunità di salute per il cittadino. Pisa: Pacini Editore, 2004:51-62.