corrispondenza

All’Editor. Ho trovato quanto mai opportuna la pubblicazione di una serie di articoli sull’ospedale per intensità di cura apparsi sul numero di gennaio del Giornale Italiano di Cardiologia. È evidente come anche la comunità medica cardiologica debba farsi carico di novità ed aggiornamenti gestionali che man mano vengano proposti, soprattutto se rivolti ad un vero contenimento di spesa. Ma ogni volta che sento parlare di “ospedale per intensità di cura” mi viene in mente il racconto di Dino Buzzati “Sette piani”, in cui viene descritto come ad ogni piano vengano ricoverati malati sempre più gravi, finché ... Ma non è questo il punto. Il fatto è che i timori e le perplessità espresse da Boccanelli e da Bovenzi mi sembrano assolutamente condivisibili, pur essendo ovviamente dell’idea, ribadisco, della nostra assoluta necessità di collaborare con amministratori e politici. Se, come è possibile, l’unico scopo di questi ultimi consiste nella riduzione delle spese, questa va perseguita soprattutto con il controllo dell’appropriatezza dei nostri interventi diagnostici e terapeutici.
Per quanto riguarda l’umanizzazione degli ospedali non si può essere in disaccordo con chi, Veronesi in testa, auspica camere con al massimo due letti e servizi dedicati. Ciò ha naturalmente un costo, soprattutto per quel che riguarda la ristrutturazione di vecchi ospedali. Ma non per sembrare retorico o semplicemente “vecchio”, ritengo che la gran parte dell’umanizzazione potrebbe avere un costo zero: basta ascoltare quel che ci dicono i nostri pazienti, magari accompagnando ciò con un sorriso. Ma già! Abbiamo poco tempo! Un ultimo curioso aspetto: viene più volte citata l’esperienza di Toyota ma noi, se sbagliamo, non possiamo richiamare “i nostri prodotti”!

Eugenio Uslenghi 
già Professore Associato di Cardiologia
Università degli Studi di Torino e
Direttore Dipartimento Cardiovascolare
A.O. Santa Croce e Carle di Cuneo




All’Editor. È quanto mai evidente che a causa dell’oggettiva attuale scarsità di risorse si impone nella sanità del nostro paese un cambiamento profondo di atteggiamento culturale. E questo vale naturalmente anche per l’ambito cardiologico. Si può affermare che come tutto cambia, spesso repentinamente e con esiti a volte imprevedibili, anche gli operatori sanitari devono giocoforza adattarsi al contingente, mostrando quella flessibilità che sicuramente implica incognite e qualche sacrificio identitario.
Con l’attuale aumento della vita media, il paziente ricoverato in reparto cardiologico è spesso portatore di svariate comorbilità, che necessitano della consulenza di altri specialisti; va da sé che il cardiologo non può essere un tuttologo.
Certo un’organizzazione incentrata sull’intensità di cura basa i suoi fondamenti teorici sul contenimento dei costi riconducibile ad una migliore utilizzazione del personale e della tecnologia. Ma accanto a questi presupposti positivi va controbilanciato il rischio di una riduzione di autonomia, conflitti di competenza e al limite della motivazione degli operatori, per non parlare di un patrimonio culturale di tutto rispetto di cui la cardiologia italiana è e continua ad essere protagonista, che potrebbe malauguratamente disperdersi.
Rimedi? Da una parte la forza delle cose consiglia organizzazione meno rigida dell’esistente, in un quadro collaborativo che configuri maggior “osmosi” a tutti i livelli, all’interno dell’ospedale, come la realizzazione di strutture operative affini tra loro adiacenti, fra i vari ospedali di diversa complessità e tra ospedale e territorio. E questo al fine di realizzare una ottimale continuità assistenziale secondo il variegato bacino d’utenza non dimenticando la caratteristica geofisica territoriale, che ha la sua importanza ai fini di un sempre più rapido trasporto del paziente tra centro Spoke e Hub.
Una maggiore coesione a tutti i livelli degli operatori, oltre a tradursi in maggiore efficacia operativa a vantaggio del malato, si tradurrebbe anche in miglior “potere contrattuale” nei confronti dei manager (ahimè a volte sottoposti a condizionamenti politici) e decisori istituzionali; da non trascurare anche un auspicabile migliorato impatto sulla pubblica opinione da parte della nostra categoria, meritevole di essere considerata portatrice di un’etica adeguata alle sue caratteristiche professionali.

Giovanni Ronconi 
Cardiologo, socio aggregato ANMCO