In Italia, ogni anno, si verificano più di 186 000 nuovi episodi di ischemia cerebrale, responsabili del 10-12% dei decessi totali. Nonostante si sia evidenziata una riduzione di mortalità e disabilità, attualmente l’incidenza di ictus non è diminuita rispetto al passato e la mortalità entro il primo mese è del 30%, con grave invalidità residua nel 40% dei sopravvissuti.
Nel corso degli anni, importanti studi osservazionali hanno definito la stretta correlazione esistente tra ictus ed ipertensione arteriosa e diverse metanalisi e studi di intervento hanno dimostrato che l’abbassamento dei valori pressori, a prescindere dal farmaco utilizzato (diuretici, betabloccanti, calcioantagonisti, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I), è in grado di ridurre in maniera significativa (>/=30%) mortalità e morbilità per ictus nei soggetti ipertesi. A tutt’oggi, però, nonostante l’ampia gamma ed efficacia dei farmaci disponibili per il trattamento dell’ipertensione arteriosa, la mortalità e morbilità per ictus dei pazienti ipertesi è persistentemente più elevata rispetto ai controlli normotesi.
Due recenti studi hanno dimostrato la grande efficacia degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (AIIA) nella riduzione del rischio relativo di ictus in pazienti ipertesi, ad elevato rischio cardiovascolare. Per la prima volta, inoltre, in uno studio di confronto tra farmaci, un trattamento attivo è risultato superiore ad un altro trattamento attivo nella riduzione degli endpoint prefissati a parità di riduzione pressoria. Questo naturalmente ha generato grande entusiasmo intorno agli AIIA e ad un loro possibile “effetto di classe”. Tuttavia, alla luce dei risultati dei recenti trial di intervento farmacologico e della corretta interpretazione dei dettami della medicina basata sull’evidenza, non tutti gli appartenenti alla categoria possono essere “aprioristicamente” ritenuti ugualmente efficaci nella prevenzione del rischio cardiovascolare. Bisogna ricordare, infatti, che il concetto di “effetto di classe”, troppo spesso chiamato in causa, non ha un reale valore scientifico e non può e non deve sostituire i risultati ottenuti sul campo della sperimentazione clinica controllata, che rappresenta il solo ed unico banco di prova dell’efficacia di un farmaco.