Il trattamento farmacologico dello scompenso cardiaco ha subito negli ultimi anni un radicale mutamento, al passo con l’evolversi delle conoscenze di questa complessa ed eterogenea sindrome clinica.
Un ruolo importante in tal senso l’hanno avuto i grandi trial clinici, condotti a partire dalla seconda metà degli anni ’80, per avere contribuito non solo a delineare gli attuali orientamenti terapeutici ma anche a meglio comprendere i complessi meccanismi fisiopatologici che sono implicati.
In passato infatti lo scompenso cardiaco è stato essenzialmente interpretato sulla base di modelli che assegnavano alle alterazioni emodinamiche un ruolo di primaria importanza nel determinare l’espressività clinica e l’evoluzione della malattia. Tale approccio ha legittimato l’impiego della digitale e dei diuretici, nonché della terapia con inotropi e vasodilatatori.
Più di recente la migliore comprensione dei fenomeni fisiopatologici legati alla progressione della malattia ha fatto emergere la centralità e la complessità del ruolo svolto dai diversi meccanismi neurormonali. L’antagonismo di questi sistemi si è dimostrato la sola strategia farmacologica in grado di esercitare un favorevole impatto sulla storia naturale dello scompenso cardiaco. Le numerose dimostrazioni di efficacia degli ACE-inibitori e soprattutto dei betabloccanti in pazienti con scompenso cardiaco e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro sono la prova più convincente della validità di questo modello fisiopatologico.
Lo sviluppo e l’aggiornamento delle linee guida sul trattamento dello scompenso cardiaco deve essere considerato, tuttavia, solo un punto di partenza per l’avvio di programmi di diffusione di questi principi alla pratica clinica e soprattutto al paziente reale, potenzialmente diverso da quello arruolato nei grandi trial farmacologici. Appare inoltre indifferibile la ricerca e lo sviluppo di modelli organizzativi efficaci nella gestione di un numero sempre maggiore di pazienti con scompenso cardiaco.