In questo numero




processo ai grandi trial
La filosofia dello studio AVERROES:
un grande trial per una nicchia
di pazienti

Lo studio AVERROES dimostra la superiorità del nuovo inibitore del fattore Xa, apixaban, rispetto all’aspirina nella prevenzione dell’ictus in pazienti con fibrillazione atriale non idonei al trattamento con antagonisti della vitamina K (AVK). Il disegno dello studio è rigoroso ed i risultati non lasciano spazio a dubbi, vista la necessità di interrompere precocemente l’arruolamento per un chiaro beneficio a favore dell’apixaban. L’analisi di due esperti del settore come Raffaele
De Caterina
e Rosanna Abbate ci permette però di focalizzare l’attenzione su alcuni discutibili aspetti del trial. Molti pazienti sono stati giudicati “inadeguati” alla terapia anticoagulante orale in virtù di un basso profilo di rischio tromboembolico: in realtà la categoria di pazienti a rischio tromboembolico troppo basso per meritare l’uso di AVK si sta restringendo sempre di più. Le attuali linee guida della Società Europea di Cardiologia sottolineano l’utilità degli AVK anche per categorie a basso rischio (CHADS 2VASc2 = 1) per la dimostrazione che anche questi pazienti hanno da guadagnare dall’uso degli AVK al posto di farmaci antipiastrinici. Secondo Raffaele De Caterina i risultati dello studio sono comunque preziosi perché i pazienti a basso rischio dell’AVERROES rappresentano una popolazione veramente esistente, in cui la prescrizione di AVK costituisce ancora motivo di incertezza per cardiologi e medici curanti. L’opinione di Rosanna Abbate è invece diversa; molti sono gli aspetti discutibili dello studio, dai dubbi criteri di esclusione dalla terapia anticoagulante, all’elevata percentuale di pazienti con profilo di rischio tromboembolico molto basso, per finire con i bassi dosaggi di aspirina utilizzati nella maggior parte dei soggetti. Ma le perplessità maggiori sono relative proprio alla “filosofia” dello studio; il problema che sta maggiormente a cuore alla comunità scientifica è la possibilità di utilizzare l’apixaban in sostituzione degli AVK, quesito cui risponderà a breve il trial ARISTOTLE, i cui risultati saranno presentati a Parigi al prossimo congresso ESC. I dati dell’AVERROES, per quanto utili, sono destinati ad interessare solo una ristretta nicchia di pazienti giudicati “non adeguati” alla terapia con AVK.
In conclusione, un processo che non esamina solo gli aspetti tecnici dello studio, ma offre anche interessanti spunti di riflessione sul futuro impiego dei nuovi farmaci anticoagulanti orali.




rassegne

Profilassi cardioembolica: è giunta l’ora di salutare il vecchio warfarin?
Da un farmaco che ha monopolizzato lo scenario della profilassi cardioembolica per oltre mezzo secolo ci si aspetterebbero eccellenti caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche; in realtà, il warfarin ha da sempre presentato numerosi limiti, come la risposta non prevedibile, la necessità di un monitoraggio routinario della coagulazione e la stretta finestra terapeutica. Per tali motivi l’impiego del warfarin nella pratica clinica è sempre stato difficoltoso, portando inevitabilmente ad un sottoutilizzo del farmaco, ad una qualità non ottimale dell’anticoagulazione ed a frequenti interruzioni della terapia. La rassegna di Giuseppe Di Pasquale e Letizia Riva offre una panoramica dettagliata dei limiti del warfarin, per poi dedicarsi alle nuove molecole, dai primi deludenti tentativi nella ricerca di valide alternative, fino ai recenti successi, che hanno permesso lo sviluppo dei nuovi inibitori diretti orali della trombina e degli inibitori diretti orali del fattore Xa. Lo scenario dei nuovi anticoagulanti orali viene decritto in maniera molto ordinata, distinguendo i farmaci che hanno già completato con successo gli studi di fase III, come il dabigatran e il rivaroxiban, da quelli che ancora devono terminare l’iter sperimentale, come l’apixaban.
La rassegna affronta alla fine il problema più spinoso; in che modo gestire questa fase di passaggio, dal warfarin ai nuovi anticoagulanti orali? Non esistono al momento indicazioni precise, ma secondo gli autori è ragionevole ipotizzare una fase iniziale nella quale i nuovi anticoagulanti non sostituiranno il warfarin, ma andranno a colmare in parte il sottoutilizzo del warfarin dei soggetti con necessità di profilassi cardioembolica, ma inadatti alla terapia con antagonisti della vitamina K. •




Lo strano caso dei filtri cavali:
il numero di impianti cresce, nonostante le indicazioni siano limitate
L’impianto dei filtri cavali è una delle tante procedure per cui esistono poche evidenze scientifiche e rappresenta pertanto motivo di incertezza e fonte di dibattito. Gennaro Santoro et al., dopo aver descritto le tecniche di impianto, i tipi di filtri disponibili e le complicanze legate alla procedura, si addentrano nel problema dell’impiego clinico: anche se lo studio PREPIC, unico trial randomizzato, non documenta nessun miglioramento della prognosi associato all’uso dei filtri cavali, le procedure di impianto sono in costante aumento, probabilmente grazie alla recente possibilità di utilizzare filtri rimovibili. In realtà, Santoro ci ricorda che la procedura di rimozione del filtro è un intervento non semplice, la cui complessità varia in funzione del dispositivo impiantato: questo è uno dei motivi per cui solo un terzo dei filtri impiantati viene successivamente rimosso. In sostanza, accanto alle poche indicazioni certe, rappresentate da trombosi venosa o embolia polmonare con controindicazione alla terapia anticoagulante e ricorrenza di trombosi venosa o embolia polmonare malgrado anticoagulazione, esistono tante condizioni cliniche in cui la decisione di impiegare un filtro cavale deve essere individualizzata sul singolo paziente, preferibilmente ricorrendo ad un approccio multidisciplinare. •




Il paziente con embolia polmonare acuta ad alto rischio: necessità di far luce sulla diagnosi e sul trattamento

Il trattamento del paziente con embolia polmonare ad alto rischio mette spesso a dura prova le capacità del cardiologo. La rassegna di Andrea Perkan et al. affronta le principali difficoltà nella gestione di questo tipo di emergenza cardiovascolare; la diagnosi stessa di “alto rischio” non è mai banale, come dimostrato dalle divergenze presenti nelle linee guida americane rispetto a quelle europee. Gli autori sottolineano infatti che il concetto di alto rischio non dovrebbe essere associato all’estensione anatomica dell’embolia e al grado di coinvolgimento dell’albero arterioso polmonare, ma dovrebbe tenere presente anche le comorbilità del paziente; in sostanza, un soggetto con embolia non massiva ma con grave broncopneumopatia o disfunzione ventricolare sinistra, potrebbe essere considerato a rischio elevato e trattato di conseguenza. Altra problematica non meno importante riguarda il trattamento fibrinolitico. Le evidenze scientifiche non sono così solide: abbiamo a disposizione 13 trial (meno di 500 pazienti trattati con fibrinolisi), tutti pubblicati prima del 2002. Se per i pazienti con instabilità emodinamica non ci sono dubbi sull’utilità della fibrinolisi, una grande incertezza è generalmente presente per il gruppo dei pazienti con emodinamica stabile ma con criteri di alto rischio, come disfunzione ventricolare destra, aumento dei marker di danno miocardico, ipossiemia, tachicardia: pur in assenza di dati scientifici certi, il recente statement dell’American Heart Association raccomanda la fibrinolisi anche in questo gruppo di pazienti, con embolia submassiva ma criteri di alto rischio, lasciando comunque sempre al giudizio del medico la valutazione del reale rischio del paziente, ivi compreso quello emorragico.
In conclusione, una rassegna estremamente utile per far luce sulla gestione di una vera e propria emergenza cardiovascolare, per la quale le evidenze scientifiche offrono un modesto supporto alla pratica clinica.




Le paure del cardiologo:
i betabloccanti nel paziente
con broncopneumopatia cronica

Evidenze scientifiche inconfutabili supportano l’uso dei betabloccanti (BB) nei pazienti affetti da scompenso cardiaco, in quanto farmaci indiscutibilmente efficaci nel migliorare la prognosi a distanza; tuttavia, il loro utilizzo nel mondo reale è di fatto inferiore alle attese, a causa di patologie come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), presente in circa un terzo dei pazienti con scompenso, che induce spesso il cardiologo a riconsiderare la strategia del betablocco. 
La rassegna di Giuseppe Di Tano et al. ci mette di fronte ad una serie di evidenze che dovrebbero aiutare il cardiologo a vincere gli antichi pregiudizi sulla tollerabilità dei BB; numerosi studi dimostrano come il trattamento con BB, soprattutto quelli cardioselettivi, sia sicuro, ben tollerato nei soggetti affetti da BPCO e in grado di dare benefici simili a quelli osservati in pazienti senza BPCO. Addirittura, il loro uso cronico sembra indurre un paradossale miglioramento della reattività bronchiale per una up-regulation della densità adreno-recettoriale nei polmoni, portando a benefici clinici sostanziali nei pazienti con BPCO. L’obiettivo della rassegna non è comunque quello di sovvertire le abitudini dei cardiologi, ma di invitare ad una valutazione più razionale di questi pazienti; in pochi casi, per esempio, viene eseguita una spirometria prima di iniziare il trattamento BB. Una valutazione della funzione respiratoria ci permetterebbe di stratificare la severità della patologia polmonare e di distinguere meglio i soggetti in cui la terapia BB è davvero controindicata (asma bronchiale reattiva e BPCO di grado severo, III stadio); in tutti gli altri, una terapia b1-selettiva può essere iniziata, pur mantenendo uno stretto monitoraggio dei parametri respiratori. •




informal
mente
Riflessioni su etica e responsabilità
del cardiologo

La rubrica “Informalmente” è dedicata, in questo numero, ad un argomento delicato e soprattutto di grande attualità: l’etica nella cardiologia contemporanea. Lo svolgimento di un tema tanto complesso è stato affidato ad una firma prestigiosa, come quella di Francesco Maria Bovenzi, attento osservatore dei radicali cambiamenti che stanno plasmando la nostra professione.
La possibilità di accedere facilmente ad informazioni di carattere medico-sanitario ha modificato profondamente l’atteggiamento del paziente nei confronti dei problemi della salute e della malattia.
Si è diffusa la persuasione che un uomo non muore perché si ammala, ma per una terapia sbagliata; l’invecchiamento non è visto come un lento e naturale declinare del vigore fisico, ma come una patologia cui bisogna opporsi con tutti i mezzi.
In sostanza, dalla medicina si pretende sempre di più e non si accetta il fallimento: purtroppo, la medicina, nonostante gli indiscutibili progressi compiuti soprattutto nel campo delle malattie cardiovascolari, rimane una scienza inesatta, i medici operano in un campo caratterizzato dall’incertezza, dove predominano le sfumature del grigio, le informazioni sono incomplete e la prevedibilità degli eventi biologici è spesso una cabala. Da questo esasperato concetto di tutela del diritto alla salute e di garanzia del risultato, il medico sente la necessità di tutelarsi abbracciando una forma di medicina difensivistica, che Bovenzi definisce “uno dei peggiori mali che possono colpire una moderna società”.
In conclusione, Bovenzi dipinge la cardiologia contemporanea con tinte piuttosto fosche ma, nelle sue riflessioni, ognuno di noi può sicuramente riconoscere i propri disagi e, dalla consapevolezza di un disagio, può nascere l’impegno per recuperare con determinazione la propria dignità professionale.




studi osservazionali

Angina refrattaria:
la stimolazione spinale
può migliorare la qualità della vita

Nonostante la terapia medica e la rivascolarizzazione coronarica rappresentino strategie efficaci nel trattamento dell’ischemia miocardica cronica, il numero di pazienti con angina refrattaria è in costante aumento. Si tratta di soggetti con una qualità di vita estremamente limitata, il cui destino è quello di andare incontro a frequenti ricoveri ospedalieri.
La stimolazione spinale rappresenta una reale alternativa terapeutica in questi casi: la tecnica si basa sulla “teoria del cancello”, secondo la quale la stimolazione elettrica delle fibre A del midollo è in grado di bloccare la trasmissione delle più piccole fibre C, vere responsabili delle sensazioni dolorose. I risultati dello studio di
Andrea Fumero et al. sono incoraggianti; in quasi 9 pazienti su 10 la stimolazione spinale ha determinato un miglioramento significativo della sintomatologia anginosa. Il beneficio sembra estendersi anche ad altri parametri come la classe NYHA, l’utilizzo di nitrati, la tolleranza all’attività fisica, con un generale miglioramento della qualità della vita.
Dallo studio emergono inoltre interessanti spunti di riflessione: tra i pazienti non responsivi alla terapia, c’erano quelli con diagnosi di angina microvascolare, in cui il dolore anginoso presenta probabilmente meccanismi di diversa natura.




Il lato oscuro del paziente
con sindrome coronarica acuta:
l’aspetto psico-emotivo della malattia

Il cardiologo che prende in cura un paziente con sindrome coronarica acuta si preoccupa di gestire al meglio la terapia medica, la procedura di rivascolarizzazione e il successivo decorso ospedaliero fino al momento della dimissione. In un’epoca in cui i tempi medi di degenza per una sindrome coronarica acuta sono di 4-5 giorni, non c’è tempo per instaurare un colloquio con il paziente, per accompagnarlo nel processo di percezione della malattia e per aiutarlo ad accettare la sua nuova condizione di cardiopatico. In realtà, una sindrome coronarica acuta può modificare profondamente la qualità di vita dei nostri pazienti, portando profondi cambiamenti all’interno della famiglia e sul posto di lavoro e modificando, in ultima analisi, la rappresentazione che il soggetto ha di se stesso.
Lo studio di Franco Bonaguidi et al. riporta le impressioni di alcuni pazienti con recente sindrome coronarica acuta, raccolte durante un colloquio con uno psicologo. I risultati sono per alcuni versi sorprendenti: le reazioni emotive alla malattia sono estremamente varie e, se la maggior parte dei pazienti intervistati riporta sensazioni negative, il 20% descrive un cambiamento psicologico di segno positivo, come se la malattia rappresentasse una sveglia necessaria per modificare lo stile di vita.
Lo studio ci ricorda un principio banale della psicologia: “mettere il dolore nelle parole”. La possibilità di parlare, di raccontare la propria esperienza e di esteriorizzare la propria sfera emotiva, è di per sé sufficiente nella maggior parte dei pazienti a suscitare un senso di sollievo. Il messaggio è alla fine molto semplice e diretto: una parola in più dopo un’angioplastica o al momento della dimissione costa poco e può essere talvolta di grande aiuto. •




Lo studio MEPHISTOPHELES:
il radicale cambiamento dell’assistenza ai pazienti post-cardiochirurgici

Il lavoro di Massimo Baravelli et al. analizza retrospettivamente i cambiamenti epidemiologici e clinici dei pazienti ricoverati dal 2002 al 2009 presso un centro di cardiologia riabilitativa dopo intervento cardiochirurgico; i risultati dello studio ci forniscono informazioni preziose, che mettono in risalto il profondo cambiamento avvenuto in questa categoria di pazienti in meno di un decennio.
Il continuo processo di invecchiamento della popolazione italiana, per cui un numero sempre maggiore di individui raggiunge le fasi estreme dell’esistenza, si associa ad un generale aumento della morbilità cardiovascolare, che ha prodotto in Italia, negli ultimi 20 anni, un proliferare di nuove strutture cardiochirurgiche/ interventistiche con un evidente miglioramento clinico-assistenziale, ma anche con un aumento del numero di ricoveri. Le strutture per acuti devono pertanto gestire pazienti sempre più anziani e pluricomplicati, garantendo contemporaneamente un rapido turnover e brevi tempi di ricovero. I pazienti più giovani non trovano posto nelle strutture riabilitative, destinate ai soggetti più anziani e complicati, e vengono dimessi direttamente a domicilio o inviati a programmi di riabilitazione ambulatoriale. Dato interessante è anche la marcata riduzione dei semplici interventi di bypass aortocoronarico, a fronte di un aumento degli interventi di associazione e di chirurgia ad alta complessità.
In conclusione, lo studio ci mostra come le strutture riabilitative debbano sempre più farsi carico di ricoveri complessi in cui le attività di stabilizzazione clinica del paziente sono in assoluto prevalenti rispetto al processo riabilitativo in sé. Questo crescente livello di assistenza si associa ad un inevitabile incremento dei costi che non può non suscitare preoccupazione vista la delicata congiuntura economica che il nostro paese sta attraversando. •




caso clinico

Embolia polmonare massiva
con elevato rischio emorragico:
un caso brillantemente risolto
con fibrinolisi loco-regionale

Il caso presentato da Salvatore Di Rosa et al. è l’esempio pratico di quanto è stato precedentemente teorizzato nella rassegna di Perkan et al., dedicata al trattamento dell’embolia polmonare ad alto rischio. La complessità della paziente in questione non è data solo dall’instabilità clinica e dall’estensione dell’embolia, dovuta ad un grosso embolo occludente l’arteria polmonare destra, ma anche dalla controindicazione alla fibrinolisi sistemica per un recente intervento neurochirurgico. Gli autori hanno deciso di trattare la paziente con un’infusione selettiva di una dose ridotta di tenecteplase, ottenendo un ottimo risultato sia angiografico che clinico.
La scelta della strategia terapeutica da adottare in questi casi non può essere standardizzata, ma nasce spesso dalla valutazione delle caratteristiche cliniche del singolo paziente, della complessità tecnica del caso, dell’esperienza dell’operatore e della disponibilità del materiale adatto al trattamento. Nel caso descritto da Di Rosa, un approccio terapeutico non usuale ha portato ad un eccellente risultato clinico.