In questo numero

processo ai grandi trial





Spazio, ultima frontiera, dal diario
di bordo dell’astronave Enterprise:
i segreti di Saturn
Nella saga di Star Trek, attorno a Saturno è collocata una stazione spaziale orbitale dove vengono costruiti dei modelli dell’astronave US Enterprise. Altra saga, altrettanto affascinante, e con ripercussioni ben più importanti sulla salute della razza umana, è quella delle statine e placca aterosclerotica, che ha visto già molti studi realizzati ad hoc. Gli effetti delle statine sulla placca aterosclerotica in pazienti clinicamente stabili sono studiati da circa 20 anni, dapprima in maniera grossolana con studi angiografici e, da circa 10 anni, con tecniche sempre più sofisticate di imaging coronarico (la nostra Enterprise). La saga di questi studi ha prodotto alcune acquisizioni consolidatesi negli anni e cioè che le statine sono in grado di ridurre la velocità di progressione delle placche la cui entità è comunque troppo limitata per spiegare i grandi benefici clinici della terapia con statine nel ridurre gli effetti cardiovascolari maggiori sia in prevenzione primaria che secondaria.
Lo studio SATURN rappresenta l’ultimo atto della saga delle statine e placca coronarica, confrontando testa a testa, in una vasta popolazione di pazienti con coronaropatia stabile, sottoposti ad ecografia intravascolare, gli effetti di atorvastatina e rosuvastatina ad alte dosi sulla progressione delle lesioni aterosclerotiche valutandone anche il profilo di sicurezza. Commentano il risultato dello studio SATURN, di sostanziale pareggio tra le due statine, due esperti come Massimo Fineschi e Achille Gaspardone.
Da una grande saga, un grande processo: da non perdere. •

rassegne





Forame ovale ed ictus cardioembolico: un enigma senza fine
Nel 1877 Julius Cohnheim descrisse il caso di una giovane donna affetta da tromboflebite della vena cruralis e con forame ovale pervio (FOP) deceduta per ictus cerebrale ipotizzando per la prima volta l’embolia paradossa e la possibile correlazione fra ictus ischemico cerebrale e FOP. A distanza di oltre un secolo, nonostante i progressi tecnologici, la miglior conoscenza dell’anatomia ed un’ampia letteratura scientifica sull’argomento, il reale impatto del FOP tra le cause di ictus ischemico cardioembolico rimane ancora controverso. Non esiste infatti accordo sul ruolo patogenetico del FOP, sul nesso fisiopatologico fra ictus e FOP, sul ruolo dei fattori di rischio per malattia cerebrovascolare e sulla rilevanza dell’età. Non va meglio neppure riguardo alla condotta terapeutica da seguire nel singolo paziente. In mancanza di chiare evidenze di una superiorità della chiusura percutanea transcatetere del FOP sulla sola terapia medica, sono considerevoli le differenze di atteggiamento delle linee guida delle diverse società scientifiche e dei vari documenti di consenso e le differenti applicazioni nella pratica clinica quotidiana. Non è quindi sorprendente l’incertezza dei medici su quale possa essere il miglior approccio terapeutico nel caso di riscontro di un FOP dopo un evento cerebrovascolare. In una brillante ed esaustiva revisione della letteratura Davide Stolfo et al. pongono sotto processo il FOP, esplorando in modo analitico gli indizi su una possibile relazione causale con l’ictus ischemico cardioembolico ed i pro ed i contro delle diverse tipologie di trattamento, senza tuttavia giungere ad una sentenza definitiva, ma lasciando il giudizio in sospeso in attesa di nuove e conclusive prove. •





A proposito di Cabala
La superstizione sul numero 13 si chiama triskaidekafobia ed è una credenza con radici molto lontane: nella cultura cristiana Satana viene descritto come il “tredicesimo angelo” e nell’episodio evangelico dell’ultima cena l’apostolo Giuda Iscariota è il 13° a sedersi a tavola. Il giorno venerdì 13 (del 1307, giorno dell’apertura degli ordini inviati da Papa Clemente V al Re di Francia, Filippo IV il bello, che portarono all’inizio del processo a migliaia di templari considerati eretici) è diventato, nel mondo, una icona di sventura.
La concezione del numero 13 varia però a seconda delle culture ed in oriente viene considerato un numero fortunato, ad esempio in mandarino, il numero 13, che è pronunciato come shisan, può significare “sicuramente vivace” o “la crescita sicura” ed è di buon auspicio. Così anche in Italia sotto certi aspetti (basti pensare a quando c’era il 13 al Totocalcio).
Con maestria assoluta Pierfranco Terrosu ci spiega le ragioni intime di un quadro di normative complesso che ha portato alla nuova Nota 13 AIFA che introduce significativi cambiamenti nella regolamentazione del rimborso delle statine offrendo molteplici spunti di discussione. Risulta chiaro, aldilà delle critiche (inevitabili in una materia tanto scottante), che il principio ispiratore della nuova Nota appare essere la semplificazione e la garanzia di cura per tutti coloro che possono trarre vantaggio dalla statina, secondo principi di corretta e doverosa priorità prescrittiva. Almeno in questo caso il numero 13 non appare espressione di coincidenze fortuite legate alla sorte, quanto piuttosto di una pianificazione rigorosa di politica sanitaria. •





Aspirina in prevenzione primaria:
il precario equilibrio tra beneficio cardiovascolare e rischio emorragico

Impostare un trattamento farmacologico specie se di lungo periodo ed a scopo preventivo comporta un’attenta valutazione dei benefici clinici che devono essere accuratamente soppesati in rapporto ai rischi, tenendo presente le caratteristiche cliniche del singolo paziente, gli effetti collaterali della terapia ed anche il probabile esito finale qualora il farmaco non venga somministrato. Il farmaco imputato in questa imperdibile rassegna di Raffaele De Caterina et al. è ... l’aspirina, nota per le sue proprietà antiaggreganti ma associata ad un rischio emorragico non trascurabile. Se l’impiego dell’aspirina nell’ambito della prevenzione secondaria di eventi cardiovascolari ha ormai evidenze consolidate e non vi sono dubbi che gli effetti benefici in termini di riduzione di eventi ischemici fatali e non fatali superino di gran lunga le potenziali e dannose reazioni avverse, al contrario il beneficio netto dell’aspirina nella prevenzione primaria di eventi cardiovascolari è una questione ancora aperta. I numerosi trial su popolazioni generali e su specifiche tipologie di soggetti senza precedenti cardiovascolari non hanno fornito risposte univoche, dividendo la comunità scientifica in sostenitori ed oppositori dell’impiego dell’aspirina in prevenzione primaria.
De Caterina et al. fanno il punto sull’argomento, estendendo l’analisi anche a categorie da sempre considerate ad alto rischio cardiovascolare ma ancora poco indagate come i diabetici ed i soggetti affetti da arteriopatia periferica asintomatica, nei quali meccanismi di aumentato ricambio piastrinico, resistenza all’aspirina, iperproduzione extrapiastrinica di trombossano A
2 ed aumentato rischio emorragico sembrano concorrere al paradossale insuccesso dell’assunzione routinaria dell’aspirina. Dati deludenti che sconsigliano l’uso estensivo dell’aspirina in prevenzione primaria. Limitare la somministrazione di aspirina a soggetti selezionati od assumere una dose bi- invece che mono-giornaliera del farmaco potrebbero essere soluzioni vincenti, ma ancora da verificare. •





5 molecole in 1 compressa:
è la soluzione contro l’“affollamento terapeutico”?

Da molti anni ampi studi epidemiologici e trial clinici hanno dimostrato un significativo incremento del ricorso alla polifarmacoterapia, strategia risultata efficace in alcuni stati di malattia per migliorare la risposta terapeutica e la qualità di vita. Non si può tuttavia trascurare l’evidenza che anche la miglior politerapia si associa ad un maggior rischio di eventi avversi anche gravi ed un aumento della mortalità specie in quelle categorie di pazienti particolarmente fragili. Quali sono le dimensioni del problema in Italia? Secondi i dati raccolti dal Rapporto Nazionale OsMed 2010, redatto dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’AIFA, si è registrato un aumento del 2.7% nel consumo farmaceutico territoriale rispetto all’anno precedente, addirittura raddoppiato in dieci anni, un maggior consumo di farmaci negli anziani ed un maggior utilizzo dei farmaci cardiovascolari rispetto ad altre categorie. Il registro SIMI REPOSI (Registro dei pazienti per lo studio delle polipatologie e politerapie in reparti di Medicina interna), in corso dal 2008, rileva inoltre che su circa 3000 pazienti italiani con più di 65 anni oltre l’80% assume regolarmente almeno cinque specialità medicinali per la gestione di una o più patologie croniche e che le reazioni avverse derivate da terapie inappropriate risultano la quinta causa di morte per gli anziani negli ospedali. Ma nell’ambito specifico della prevenzione primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari quali sono i vantaggi ed i limiti della politerapia? La polipillola è sufficiente a salvare il mondo dalla patologia cardiovascolare? In questa attualissima rassegna Massimo Volpe et al. esaminano in modo critico la letteratura disponibile sull’argomento ed aiutano il cardiologo a comprendere meglio i meccanismi dei regimi politerapici in ambito cardiovascolare, per utilizzarli al meglio quando necessari ed evitarli quando rischiosi. •

studio osservazionale





Un
blitz nello scompenso cardiaco
La metodologia degli studi BLITZ dell’ANMCO è collaudata, trattandosi, nel rispetto dell’etimologia dell’acronimo, di osservazioni brevi su tutto il territorio nazionale. Lo studio BLITZ-3 ha l’obiettivo di descrivere prospetticamente l’epidemiologia dei ricoveri, la gestione e le opzioni terapeutiche relative ai pazienti ricoverati per scompenso cardiaco nelle UTIC italiane. Alessandra Chinaglia et al. illustrano i risultati dello studio osservazionale BLITZ-3. Nel periodo 7-20 aprile 2008, su 6986 pazienti consecutivi ricoverati nelle 332 UTIC, lo scompenso cardiaco è risultato la seconda causa di ricovero dopo le sindromi coronariche acute. I pazienti ricoverati per scompenso cardiaco sono risultati generalmente più anziani, più spesso donne e con più comorbilità rispetto ai pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta.
Nota positiva l’attuale mortalità complessiva per scompenso cardiaco nelle UTIC italiane, particolarmente bassa (3%). Gli autori descrivono inoltre i cambiamenti che si sono osservati nel tempo nell’epidemiologia dello scompenso e nella distribuzione dei ricoveri e nel trattamento dello scompenso cardiaco nelle UTIC italiane. In generale, laddove la mission dell’ospedale è rivolta soprattutto al trattamento delle sindromi coronariche acute, risulta un’evidente minor presa in carico del paziente con scompenso cardiaco, fatto che trova ulteriore conferma nell’alta quota di ricoveri dei pazienti con questo quadro nel reparti di Medicina Generale o in altri contesti. Si tratta di importanti spunti di riflessione nell’attuale quadro generale della sanità pubblica. •

caso clinico





Trombosi intrastent molto tardiva
e trombocitemia essenziale:
una rara associazione
In questo numero Marco Mele et al. riportano il caso di un uomo di 72 anni, iperteso, già sottoposto ad una procedura di angioplastica percutanea dell’arteria coronaria destra con impianto di stent medicato di prima generazione, che presentava in anamnesi una diagnosi di trombocitemia essenziale, senza trattamento specifico. Dopo 24 mesi dalla procedura di rivascolarizzazione miocardica percutanea si è manifestata una sindrome coronarica acuta con documentazione angiografica di trombosi intrastent. La trombosi intrastent è un evento poco frequente, al cui sviluppo concorrono diversi fattori, ciascuno dei quali può assumere un ruolo differente a seconda della fase (precoce, tardiva e molto tardiva) di esordio della trombosi. La trombosi intrastent precoce è principalmente correlata alle tecniche di impianto degli stent, alle caratteristiche della lesione ed agli effetti della duplice terapia antiaggregante, mentre ben poco si sa sui fattori che determinano le più rare trombosi intrastent tardive e molto tardive. Fra i fattori di rischio che risultano maggiormente coinvolti nella trombosi intrastent vengono annoverate anche alcune condizioni cliniche come il diabete mellito, l’insufficienza renale cronica, la disfunzione ventricolare sinistra, mentre solo sporadiche sono le associazioni con la trombocitemia essenziale. La peculiarità di questo caso è la concomitanza di due rare condizioni patologiche: trombosi intrastent molto tardiva e trombocitemia essenziale. Un caso interessante che ci ricorda di prestare maggior attenzione a quei soggetti con co-patologie associate ad uno stato protrombotico, potenzialmente in grado di sviluppare trombosi intrastent anche molto tardive. •

documento di consenso





Stent coronarico e chirurgia:
la gestione perioperatoria della terapia antiaggregante  

Stranamente, l’origine del lemma “stent” rimane incerta. Si tende ad attribuire a Jan F. Esser, un chirurgo plastico olandese che nel 1916 utilizzò questa parola per descrivere un composto per impronte dentali inventato nel 1856 dal dentista inglese Charles Stent (1807-1885); il termine si estese progressivamente all’utilizzo della parola “stent” per indicare il ricostruire, rendere di nuovo funzionali (e/o pervie) vari tipi di strutture corporee. L’origine del termine non è purtroppo, ad oggi, la sola cosa incerta relativa allo stent.
È esperienza quotidiana del cardiologo ospedaliero essere chiamato a consulenza per problematiche legate alla gestione della terapia perioperatoria in pazienti portatori di stent. La dimensione del problema è piuttosto consistente dato che nel mondo ogni anno vengono impiantati circa 2 milioni di stent e che un’alta percentuale di questi pazienti va, successivamente, incontro ad un intervento chirurgico. In questo contesto i punti di vista del cardiologo e del chirurgo generale (e dell’anestesista) sono differenti; il primo si preoccupa del rischio trombotico complessivo del paziente con cardiopatia ischemica che è noto aumentare nel periodo perioperatorio e del rischio di trombosi intrastent foriero di complicanze cliniche anche drammatiche, mentre il chirurgo/anestesista si (pre)occupa quasi esclusivamente del rischio emorragico connesso all’intervento chirurgico effettuato in corso di terapia antiaggregante.
Le attuali linee guida non forniscono indicazioni precise al proposito lasciando per lo più ad una valutazione personale la stima del rischio trombotico del paziente e del rischio emorragico specifico per quel dato tipo di intervento.
Il documento di consenso presentato da Roberta Rossini e al. è il frutto di una collaborazione intersocietaria, promossa dalla Società Italiana di Cardiologia Invasiva (GISE) e dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) con i rappresentanti di tutte le società scientifiche di chirurgia con l’obiettivo di uniformare la gestione della terapia antiaggregante, indirizzando in modo ragionevole e al meglio le conoscenze attuali. Il risultato è uno strumento pratico di formidabile aiuto per tutte le figure professionali coinvolte nella gestione clinica del paziente cardiopatico portatore di stent nel periodo perioperatorio. Un documento destinato ad una sicura popolarità. •