In questo numero

processo ai grandi trial





ROCKET AF: un nuovo missile contro
il warfarin
Negli ultimi anni si è assistito allo sviluppo sempre più intenso di sostanze anticoagulanti con target differenti nella cascata coagulativa (inibitori della trombina e del fattore Xa) che stanno rivoluzionando la terapia anticoagulante orale. Nel 2009 dabigatran, nel 2010 rivaroxaban e nel 2011 apixaban sono in ordine cronologico i nuovi anticoagulanti orali che sembrano essere una promettente alternativa al warfarin nella prevenzione e trattamento delle malattie tromboemboliche. Il trial ROCKET AF presenta un inibitore diretto del fattore Xa rivaroxaban, il secondo missile lanciato contro il warfarin nel tentativo di abbattere lo strapotere degli antagonisti della vitamina K nella profilassi tromboembolica della fibrillazione atriale non valvolare. L’esito del confronto fra rivaroxaban e warfarin su oltre 14 000 pazienti è un pareggio sia nella prevenzione dell’ictus e dell’embolia sistemica sia nell’endpoint composito di sicurezza. Unica eccezione una riduzione di emorragie intracraniche ed emorragie fatali nei pazienti in rivaroxaban. La non inferiorità del rivaroxaban unitamente al vantaggio di essere l’unico fra i nuovi anticoagulanti orali testato in pazienti con un profilo di rischio medio-alto e somministrabile in un’unica dose giornaliera sono sufficienti a sferrare un attacco decisivo al warfarin? Le opinioni dei due esperti interpellati Alessandro Capucci e Domenico Prisco non sono univoche. Il primo, pur riportando con equilibrio alcuni punti deboli dello studio, prefigura un ruolo di primo piano del rivaroxaban nel panorama dell’anticoagulazione orale. Domenico Prisco, d’altro canto, solleva ragionevoli dubbi sulla metodologia statistica, sulle modalità di sospensione o switch a warfarin da rivaroxaban e sull’efficacia della monosomministrazione giornaliera di un farmaco ad emivita relativamente breve tanto da ritenere incerta l’introduzione in clinica del rivaroxaban. Uno scontro da non perdere per comprendere meglio lo scenario futuro della terapia anticoagulante orale. •





Lo studio ARISTOTLE: “grazie all’esperienza progrediscono la scienza e l’arte” (da
Metafisica, Aristotele)
In “Metafisica” Aristotele argomenta che l’uomo per sua inclinazione aspira alla conoscenza e traccia una scala gerarchica della conoscenza, ponendo al primo gradino la sensibilità, al secondo la memoria ed al terzo l’esperienza. Con l’esperienza si intuisce come una determinata medicina giovi in certi casi, con la scienza è possibile fornirne le motivazioni: solo con una serie di esperienze raggiungiamo la scienza, anche se per arrivare al “dioti” bisogna seguire un lungo percorso. Non è un caso che il secondo trial posto sotto processo in questo numero del Giornale abbia come acronimo il nome di uno dei più grandi filosofi dell’umanità. L’epistemologia aristotelica ci delinea in modo mirabile il percorso di un altro nuovo inibitore orale del fattore Xa: apixaban. Forti dell’esperienza dello studio AVERROES che ha dimostrato la netta superiorità di apixaban rispetto all’aspirina nella prevenzione dell’ictus in pazienti con fibrillazione atriale non idonei al trattamento con warfarin, ecco il trial ARISTOTLE, studio di confronto fra apixaban e warfarin nella profilassi tromboembolica della fibrillazione atriale non valvolare. Il disegno dello studio è rigoroso ed i risultati non lasciano spazio a dubbi. È ben dimostrata la superiorità di apixaban rispetto al warfarin nella riduzione di ictus o embolia sistemica, sanguinamento maggiore, emorragia intracranica e mortalità per qualsiasi causa, con una sovrapponibile incidenza di ictus ischemico e miglior tollerabilità. Il trial è discusso da Giuseppe Di Pasquale e Raffaele De Caterina. Entrambi i nostri autorevoli esperti, nonostante alcune perplessità sul dosaggio e sulla non riduzione dell’ictus ischemico per apixaban in confronto al warfarin, sostengono l’affidabilità dei sorprendenti risultati ottenuti nello studio ARISTOTLE. Ma allora apixaban si candida a buon diritto come principale antagonista non solo del warfarin ma soprattutto di dabigatran e rivaroxaban? In realtà mancano studi diretti di confronto fra i nuovi anticoagulanti orali in grado di guidarci verso la scelta più appropriata per il singolo paziente, ma finalmente dopo oltre 50 anni di solitudine del warfarin abbiamo a disposizione un più ampio armamentario terapeutico che si propone come alternativa efficace e sicura agli antagonisti della vitamina K nella profilassi tromboembolica della fibrillazione atriale non valvolare. •

rassegne





Quando la luce si spegne e l’armata
di Morfeo canta vittoria: la sincope
e l’importanza dell’anamnesi

In greco “syn koptein” vuol dire spezzare, interrompere e ben comunica l’idea di improvvisa rottura. Se in linguistica il termine sincope esprime la caduta di uno o più fonemi all’interno di una parola, in campo medico l’elemento che si interrompe è lo stato di coscienza. Tuttavia la sincope è solo una delle manifestazioni di una transitoria perdita di coscienza, esistendo in clinica anche altre forme reali o apparenti di transitoria perdita di coscienza non sincopali. Fino ad alcuni anni fa l’approccio diagnostico era poco codificato e quanto mai vario, basato sul comune buon senso e sull’esperienza personale. Solo nel 2001 Paolo Alboni et al. in “Diagnostic Value of History in Patients With Syncope With or Without Heart Disease “ (J Am Coll Cardiol 2001;37:1921-8) definirono il ruolo delle modalità di presentazione e l’importanza della presenza o assenza di cardiopatia nello snodo decisionale del paziente con sincope, apportando un contributo fondamentale alla standardizzazione dell’approccio diagnostico della sincope. Oggi l’anamnesi costituisce il punto di partenza della valutazione iniziale della sincope e rappresenta il miglior strumento per ottenere la diagnosi eziologica o formulare un’ipotesi diagnostica, fondamentale per orientare un appropriato percorso clinico, oltre a fornire utili informazioni prognostiche. Tuttavia, nonostante ripetute raccomandazioni anche nelle più recenti linee guida, la valutazione iniziale non ha ancora raggiunto standard ottimali. Pazienti con storia di sincope che afferiscono al pronto soccorso o gestiti a livello ambulatoriale vengono tuttora sottoposti a numerosi esami strumentali, costosi ed a bassa resa diagnostica, con il risultato di aumentare la spesa sanitaria senza spesso identificare una causa certa della perdita di coscienza. Si sente la necessità di questa rassegna in cui Paolo Alboni rivisita il ruolo dell’anamnesi nella valutazione iniziale di una transitoria perdita di coscienza di sospetta natura sincopale alla luce delle nuove conoscenze. Un mirabile excursus sulle differenti modalità di presentazione clinica e sui vari meccanismi fisiopatologici dei diversi tipi di transitoria perdita di coscienza che aiuta il cardiologo ad acquisire una metodologia adeguata nella gestione clinica della sincope. •





Occlusione percutanea dell’auricola sinistra: una nuova finestra nella strategia della prevenzione dell’ictus cardioembolico

La profilassi tromboembolica nella fibrillazione atriale è oggi al centro dell’attenzione come si evince dai numerosi sforzi fatti negli ultimi decenni alla ricerca di una strategia efficace e sicura. Attualmente l’unica strategia nella prevenzione del tromboembolismo è l’anticoagulazione orale con warfarin che a fronte dei suoi ben dimostrati benefici è mal tollerata e sottoutilizzata nella pratica clinica soprattutto per il rischio di eventi emorragici. Non va meglio con i nuovi anticoagulanti orali che continuano a mostrare un non trascurabile rischio emorragico, seppur ridotto rispetto al warfarin. Considerando le problematiche connesse ad una terapia cronica con anticoagulanti orali, non è sorprendente che in questi ultimi anni siano state ricercate e valutate strategie terapeutiche alternative per prevenire gli eventi tromboembolici. Nel 2001 è stata proposto un approccio percutaneo di chiusura dell’auricola sinistra, sede più frequente di formazione di trombi nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare. L’idea non è nuova. Da molti decenni i cardiochirurghi praticano la rescissione o sutura chirurgica dell’auricola sinistra, tuttavia la nuova procedura ha il vantaggio di essere effettuata in una sala interventistica, di ridurre i tempi di recupero post-intervento ed i potenziali rischi emorragici. Come tutte le tecniche di recente introduzione, necessita di validazioni su vasta scala in termini di efficacia e sicurezza. Paolo Danna et al. ci guidano in questo nuovo “mondo”: dalla descrizione della procedura e delle caratteristiche tecniche dei dispositivi in commercio all’analisi dei pochi studi di efficacia e sicurezza fino al consiglio di adottare per il momento stretti criteri di selezione dato un tasso ancora non trascurabile di complicanze. Un’interessante finestra su un’attraente strategia ancora poco praticata ma con ampi orizzonti nel panorama della profilassi tromboembolica nella fibrillazione atriale non valvolare.  •





Arresto cardiaco: qual è oggi
la strategia ottimale per migliorare
la sopravvivenza?

Il 1° marzo 2012 tutti i giornali riportavano la notizia “È morto Lucio Dalla. Uno dei più grandi cantautori italiani è deceduto improvvisamente a causa di un infarto”. Poche parole ma sufficienti per dare rilevanza ad un fenomeno già conosciuto nel mondo antico ma oggi in continua crescita ... la morte improvvisa ed alla sua eziologia più frequente ... la cardiopatia ischemica. Nelle società occidentali l’arresto cardiaco, se non adeguatamente trattato, rappresenta la principale causa di morte cardiovascolare. In Italia si stima che le morti per arresto cardiaco, in ambiente extraospedaliero, riguardano complessivamente 60 000 persone ogni anno (1 ogni 8 minuti e 45 secondi) e nel 2001 i dati epidemiologici mostravano una bassa percentuale di sopravvivenza dopo arresto cardiaco, solo 2-3%. Oggi in alcune realtà locali italiane là dove si è implementata l’applicazione della “catena della sopravvivenza” (allertamento, rianimazione cardiopolmonare, defibrillazione, ACLS precoci) la sopravvivenza è sensibilmente migliorata, ma non tanto quanto atteso. La prognosi dei pazienti resuscitati da arresto cardiaco è infatti fortemente condizionata dal quadro neurologico ed emodinamico. Come limitare il danno anossico, sostenere l’emodinamica ed individuare precocemente la causa dell’arresto cardiaco al fine di indirizzarne la terapia? In questa rassegna Niccolò Grieco e Paola Manzoni descrivono in modo estremamente chiaro le principali novità terapeutiche, le evidenze disponibili e le problematiche cliniche ed organizzative nella gestione dell’arresto cardiaco. Un monito per un’ottimale applicazione clinica di efficaci strategie nella difficile lotta all’arresto cardiaco. •





Una scelta difficile: a chi impiantare
un defibrillatore cardiaco e a chi no

A metà degli anni ‘60 Norbert Wiener, famoso cibernetico, si chiedeva quali problemi sarebbero stati sollevati sul fronte medico una volta che la medicina sarebbe stata in grado di posporre continuamente la morte. Nel 1980 nascono i defibrillatori cardiaci impiantabili (ICD). Oggi l’ICD si è dimostrato l’unico strumento efficace nel prevenire sia la morte improvvisa che la mortalità globale in popolazioni selezionate di pazienti, fra cui quelli con disfunzione ventricolare sinistra da cardiopatia ischemica, che costituiscono la categoria a maggior rischio, la più numerosa e per questo la più studiata. Se in questi pazienti non vi è più alcun dubbio sull’efficacia terapeutica dell’ICD, ancora oggi non abbiamo individuato con altrettanta efficacia quali pazienti abbiano maggior probabilità di trarre beneficio da tale terapia. Le raccomandazioni delle attuali linee guida non sono chiare sull’argomento, anzi tendono ad un’eccessiva semplificazione proponendo come unico criterio di selezione la frazione di eiezione del ventricolo sinistro, che tuttavia non appare da sola sufficiente: manca di sensibilità e specificità nella capacità di predire la morte improvvisa. D’altra parte, nonostante affannose ricerche, non siamo stati ancora in grado di identificare altri parametri clinici e strumentali predittivi di rischio, per cui un approccio multiparametrico sembra essere la strategia più razionale per selezionare quei pazienti a rischio elevato di aritmie fatali e trasformare tali morti in morti evitabili. Laura Vitali Serdoz et al. affrontano con rigore lo spinoso problema della stratificazione del rischio per morte improvvisa ed i complessi aspetti etici connessi alla decisione clinica di porre o non porre indicazione all’impianto di un ICD in mancanza di evidenze certe. Un’elegante rassegna che offre spunti di riflessione sull’uso più appropriato dell’ICD non solo nell’ottica di un uso razionale delle nostre limitate risorse in un’era di incertezza economica e di crisi finanziaria, ma soprattutto per risparmiare ai pazienti trattamenti inutili se non addirittura dannosi. •

informalmente





Derivazione aVR: da imbarazzante presenza a protagonista dell’ECG
Dalla prima rudimentale registrazione dell’attività elettrica del cuore (Augustus Waller, 1887) molteplici sono stati i contributi scientifici ed i testi di Elettrocardiografia che ci hanno insegnato a interpretare quella sequenza d’onde graficate su carta millimetrata che ancora oggi nel XXI secolo mantiene intatta la sua capacità diagnostica. Le uniche “complicanze” di questa metodica sono le errate interpretazioni, specie quando trascuriamo le informazioni che ciascuna derivazione può offrire. Nel 1995 al congresso dell’International Society of Computerized Electrocardiography (J Electrocardiol 1996;29 Suppl:270-4) fu chiesto a 35 partecipanti di interpretare 5 ECG complessi in cui aVR era stata sostituita con una derivazione – aVR. Il risultato fu che oltre l’80% non si accorse che la derivazione aVR era stata rovesciata. La maggior parte dei partecipanti dichiarò di aver analizzato solo 11 delle 12 derivazioni standard, ignorando la derivazione aVR. Oggi la derivazione aVR non suscita più una sorta di horror vacui, anzi sta vivendo un momento di gloria. Si è dimostrata in grado di fornire informazioni utili alla diagnosi di severità della coronaropatia ed alla distinzione fra ectopia ed aberranza nelle tachicardie a complessi larghi, ma ha anche un ruolo rilevante nella diagnostica di molte altre patologie cardiache. Con un mirabile parallelismo con l’opera leopardiana Gabriele Bronzetti et al. descrivono il tormentato vissuto della derivazione aVR che al pari della “siepe” nasconde importanti significati elettrocardiografici ed offrono al lettore un’accurata descrizione delle sue alterazioni in relazione alle diverse patologie cardiovascolari. Un imperdibile Informalmente che ci ricorda con forza che un ECG ha 12 derivazioni ed una sua corretta interpretazione non può prescindere da un’approfondita analisi della derivazione aVR. •

studi osservazionali





La cardiologia cambia, cambiamo le Cardiologie: il “levar del sole” della nuova terapia intensiva cardiologica all’Ospedale di Lecco

Sin dagli anni ’70 le unità coronariche erano prevalentemente orientate a garantire la qualità delle strategie terapeutiche e la gestione delle complicanze dell’infarto miocardico acuto, ottenendo una significativa riduzione della morbilità e della mortalità. Oggi lo scenario è radicalmente mutato. Solo il 50% dei pazienti afferenti alle unità coronariche ha una sindrome coronarica acuta, mentre sempre più rilevante è la quota di pazienti con un’ampia varietà di condizioni cliniche critiche che richiedono dispositivi e trattamenti sempre più sofisticati ad alto grado di specializzazione. Mutamenti epidemiologici, progresso tecnologico e risorse economiche sempre più limitate hanno imposto di fatto una riorganizzazione del sistema di offerta dei servizi sanitari con un ripensamento del ruolo dell’ospedale e delle singole unità operative ed un’evoluzione delle competenze cliniche del cardiologo intensivista. Luca Ferri et al. descrivono la loro esperienza in questo processo di trasformazione da unità coronarica a terapia intensiva cardiologica dopo l’avvio dell’attività cardiochirurgica nel dicembre 2009 e la riorganizzazione dell’Ospedale di Lecco attraverso l’applicazione del modello di “Dipartimento d’Apparato per Intensità di Cura”. I risultati sono incoraggianti. Il nuovo assetto organizzativo ha consentito una miglior appropriatezza nell’utilizzo dei posti-letto in terapia intensiva, ha favorito la multidisciplinarietà e lo sviluppo di competenze trasversali con un incremento del ricorso a presidi diagnostici e terapeutici avanzati, oggi indispensabili nella gestione del paziente cardiologico critico. Un messaggio di speranza per il futuro delle unità coronariche e per il futuro quadro generale della sanità pubblica sempre più alla ricerca di modelli in grado di coniugare al meglio sicurezza, efficienza, efficacia e sostenibilità dell’assistenza.  •





Dal telegrafo di Morse alla telemedicina: come ottenere una miglior gestione clinica del paziente con scompenso cardiaco?

Dal telegrafo di Morse del 1835 alla nascita della Arpanet, incubatore di Internet di fine anni ’50, è stato tutto un susseguirsi di scoperte che hanno cambiato il nostro vecchio mondo consentendo comunicazioni in tempo reale da un continente all’altro e rendendo le distanze più brevi. Inevitabile l’applicazione delle nuove tecnologie in campo medico che sta portando alla creazione di servizi di sanità in rete ed a forme innovative di domiciliarità utili soprattutto per categorie a rischio e con patologie croniche. Il paziente con scompenso cardiaco rappresenta il modello paradigmatico su cui misurare l’efficacia, l’efficienza e la qualità della continuità assistenziale ospedale-territorio. Questa patologia costituisce, infatti, una causa frequente di morbilità, ospedalizzazione e domanda di assistenza sanitaria che richiede l’apporto di diverse figure professionali, a tutt’oggi operanti in modo non coordinato. Da qui l’esigenza di costruire un modello organizzativo integrato tra ospedale e territorio che garantisca un percorso adeguato di continuità terapeutica ed assistenziale per fornire le cure più appropriate al paziente con scompenso cardiaco, spesso affetto da altre patologie croniche ed in condizioni di fragilità. Può essere la telemedicina una soluzione? In questo studio pilota Francesco Mazzuoli et al. propongono un modello, che coinvolge specialisti ospedalieri, medici di medicina generale ed infermieri, basato su una gestione comune dei dati mediante un sistema di informatizzazione web-based da affiancare alla tradizionale valutazione clinico-strumentale specialistica differenziata sul diverso rischio di instabilizzazione. Le conseguenze dirette dell’informatizzazione sono un miglior controllo clinico del paziente con scompenso cardiaco, un minor utilizzo di servizi specialistici con una significativa diminuzione dell’ospedalizzazione ed un’intuibile riduzione dei costi complessivi. Un’esperienza positiva che stimola ad implementare i servizi di telemedicina nel ridisegno strutturale ed organizzativo della rete di assistenza tra ospedale e territorio. •

caso clinico





Septal pouch
come sorgente di tromboembolismo: è necessario indagare prima di ritenerlo colpevole
Determinare l’eziologia di un ictus cerebri è clinicamente rilevante poiché può influenzare la prognosi, la terapia e la probabilità di recidive. Circa il 20% degli ictus si ritiene siano di origine cardioembolica, il 10-30% ha un’eziologia criptogenetica. L’atrio è spesso sospettato in presenza di un evento ischemico cerebrale. Vengono chiamati in causa fibrillazione atriale, trombosi atriale o auricolare nelle varie cardiopatie strutturali o forame ovale pervio. Recentemente un’altra struttura intratriale è stata messa sotto processo come potenziale sorgente tromboembolica ... una specie di marsupio che si crea in seguito ad una incompleta fusione fra septum primum e septum secundum durante la chiusura del forame ovale definita septal pouch. In studi autoptici ed ecocardiografici il suo riscontro è frequente, ma, come nel forame ovale pervio, il suo ruolo tromboembolico non è chiaro. In questo numero Alberto Cresti et al. riportano il caso di un uomo di 69 anni affetto da cardiomiopatia dilatativa e fibrillazione atriale misconosciute giunto alla loro osservazione per un evento ischemico cerebrale transitorio. L’evidenza all’ecocardiogramma transesofageo di un septal pouch con una massa di sospetta natura trombotica al suo interno fa ritenere che il septal pouch sia il colpevole dell’evento ischemico cerebrale. Viene posta indicazione a trattamento con anticoagulanti orali, ma al controllo ecocardiografico la massa non è scomparsa. Le indagini continuano. Ecco la risonanza magnetica cardiaca che decreta: la massa all’interno del septal pouch non è trombosi, ma lipoma. L’accusa si sgonfia. Il septal pouch non è il colpevole. Questo interessante caso ci ricorda che anche in medicina esiste la presunzione di innocenza fino a prova contraria. In mancanza di chiare evidenze di un’associazione fra septal pouch e ictus cardioembolico, solo la dimostrazione di trombosi può sostenere la prova di una relazione causale fra septal pouch ed evento ischemico cerebrale acuto. •