In questo numero

processo ai grandi trial




Lo studio CARRESS e la decongestione del paziente scompensato: come scegliere tra ultrafiltrazione e diuretici per una corretta eliminazione dei fluidi
Il ruolo dei diuretici nel trattamento dello scompenso cardiaco acuto è da sempre apparso così evidente e scontato da poter fare a meno di trial clinici randomizzati che ne validassero scientificamente l’efficacia. In realtà, premesso che la deplezione di fluidi rappresenta l’obiettivo primario nel trattamento dello scompenso cardiaco acuto, non esiste al momento consenso unanime sul fatto che la terapia diuretica costituisca il mezzo ideale per raggiungere tale scopo. La risposta ai diuretici può risultare infatti insoddisfacente, talvolta per una resistenza intrinseca al farmaco, ma più spesso per modalità inadeguate di somministrazione che esitano in una decongestione troppo aggressiva. A partire dagli anni ’90 si è quindi cominciato a vedere l’ultrafiltrazione come un’efficace metodica alternativa per il trattamento della congestione di questi pazienti. I primi due studi, RAPID e UNLOAD, hanno dato risultati incoraggianti ed il CARRESS, dotato di un disegno ancora più rigoroso, è stato condotto nella speranza di ottenere ulteriori conferme. I risultati dello studio sono stati tuttavia deludenti: nel gruppo randomizzato ad ultrafiltrazione, non solo non c’è stata nessuna variazione in termini di riduzione del peso corporeo rispetto al gruppo in trattamento con diuretici, ma è stato anche registrato un maggiore incremento della creatininemia oltre ad un tasso più elevato di complicanze emorragiche e vascolari. Tre cultori della materia come Enrico Fiaccadori, Giuseppe Regolisti e Giancarlo Marenzi, ci offrono una lucida analisi dello studio senza rinunciare ad esprimere il loro personale punto di vista sull’argomento. Diversi fattori possono aver contribuito a limitare l’efficacia dell’ultrafiltrazione: in primo luogo lo studio ha arruolato pazienti ad alto rischio, con elevati valori di creatininemia basale e con un’alta percentuale di diabetici. Inoltre, l’applicazione tardiva della metodica in pazienti che già presentavano un deterioramento acuto della funzione renale ed un trattamento troppo aggressivo possono aver portato ad un’eccessiva decongestione con conseguente ipovolemia. In sostanza, un processo da leggere con estrema attenzione, che ci invita ad una riflessione inquietante: quando la terapia diuretica viene somministrata in modo appropriato e con protocolli rigorosi come nel CARRESS, l’ultrafiltrazione non sembra in grado di offrire ulteriori vantaggi. •

editoriale




L’arte del risparmio in Cardiologia
La farmacoeconomia rappresenta ancora un concetto astratto per una buona parte di medici che, nell’ottica di offrire ai pazienti le migliori terapie disponibili, considerano ogni sorta di limite economico come una delegittimazione del diritto alla salute del cittadino. Una tanto nobile ideologia è tuttavia destinata a scontrarsi con la natura “finita” delle risorse che impone al medico di pesare la compatibilità economica delle sue scelte. Fulvio Camerini e Stefano Palcic, prendendo spunto dal Documento di Indirizzo della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa recentemente pubblicato dal Giornale, ci offrono un’interessante riflessione sul costo della terapia antipertensiva. Se consideriamo che nel nostro Paese più di un terzo della popolazione è iperteso, è facile immaginare quali siano le dimensioni del problema; la scelta di un diuretico piuttosto che di un ACE-inibitore o di un calcioantagonista in un iperteso lieve può avere importanti risvolti economici. Purtroppo, neppure gli studi clinici ci aiutano a sviluppare una maggiori capacità di analisi farmacoeconomica: da una revisione di alcuni dei più importanti trial clinici condotti negli ultimi anni, è emerso che i costi dei farmaci testati erano riferiti solamente nel 5% degli studi e non erano in alcun modo menzionati nel 72% degli stessi. L’editoriale di Camerini e Palcic è evidentemente di grande attualità; in tempi di crisi economica, se non vogliamo che scelte non oculate o irrazionali sottraggano risorse in settori cruciali, l’atto prescrittivo, anche in un iperteso di I grado, deve essere accompagnato da un’attenta valutazione della compatibilità economica della scelta. •

rassegne




Le informazioni che il cardiologo deve sapere per monitorare i pazienti in terapia con farmaci antitumorali
Le rassegne di questo numero del Giornale hanno come filo conduttore la cardiotossicità: il contributo di Luigi Tarantini et al. introduce il problema affrontando il difficile argomento del monitoraggio del danno cardiaco nel paziente oncologico. La rassegna si apre con una dettagliata revisione dei principali farmaci antitumorali e dei loro meccanismi cardiotossici, ma arriva rapidamente ad affrontare gli aspetti clinici. Poiché la disfunzione ventricolare e lo scompenso cardiaco sono gli effetti avversi più frequenti, la frazione di eiezione rappresenta un parametro di cruciale importanza, la cui riduzione ai periodici controlli può indurre a sospendere il trattamento chemioterapico. Il calo della frazione di eiezione è comunque un indice tardivo di danno miocardico: parametri più raffinati di disfunzione contrattile come il Tei index, lo strain rate e l’ecocardiografia speckle tracking, hanno dimostrato di poter individuare il danno miocardico più precocemente, correlando anche con l’edema e la fibrosi delle pareti ventricolari. Molto promettente sembra anche l’utilizzo dei biomarcatori che permetterebbero, mediante un semplice prelievo ematico, di intercettare precocemente il danno miocardico e di personalizzare il regime di chemioterapia per ridurre il rischio di cardiotossicità: troponina e peptidi natriuretici hanno dato risultati incoraggianti. Al di là degli aspetti tecnici del monitoraggio clinico, il contributo di Tarantini et al. offre l’opportunità di focalizzare l’attenzione sul paziente oncologico anche a chi non si occupa di questa specifica branca della cardiologia: d’altra parte, il cancro e le malattie cardiovascolari spesso condividono gli stessi fattori di rischio ed il paziente oncologico rappresenta non di rado un soggetto ad alto rischio cardiovascolare che il cardiologo può facilmente incontrare nella sua pratica clinica quotidiana.  •




Nuove prospettive per la ranolazina: la prevenzione della cardiotossicità da antracicline
È noto come le antracicline possano determinare una cardiotossicità dose-dipendente e cumulativa, con disfunzione contrattile del ventricolo sinistro e conseguente scompenso cardiaco. Meno noti sono invece i meccanismi alla base del loro effetto tossico: sappiamo infatti che i farmaci antitumorali agiscono inibendo la sintesi del DNA delle cellule neoplastiche, ma d’altra parte i cardiomiociti bloccano il loro ciclo cellulare in G0/G1 o G2/M, senza replicare ulteriormente il loro DNA. Per questo motivo si ritiene probabile che il meccanismo della cardiotossicità da antracicline, diversamente da quello che causa la tradizionale citotossicità antitumorale, sia dovuto alla produzione di specie reattive dell’ossigeno che, attraverso l’attivazione della corrente tardiva del sodio, determina un sovraccarico diastolico di calcio, con profonde alterazioni meccaniche ed energetiche della cellula cardiaca. Dato che la ranolazina è attualmente il più potente inibitore clinico della corrente tardiva del sodio, è lecito ipotizzare che, attraverso tale inibizione, il farmaco possa essere in grado di ridurre il sovraccarico intracellulare di calcio, sodio-dipendente. La rassegna di Francesco Corradi et al. riesce ad illustrare con estrema chiarezza concetti non semplici di biologia molecolare, rendendo la lettura scorrevole ed interessante anche per il cardiologo clinico. Il messaggio della rassegna è che esiste un forte razionale a supporto di un possibile impiego della ranolazina nel trattamento della cardiotossicità da antracicline e che i tempi sono probabilmente maturi per la conduzione di uno studio clinico randomizzato. •




Il ferro nel cuore: dalla cardiotossicità delle malattie da accumulo alle nuove teorie sul danno miocardico in corso di infarto acuto
Prosegue il tema della cardiotossicità: l’imputato è in questo caso il ferro e la rassegna di Alberto Roghi ci offre una pregevole disamina delle condizioni patologiche che si associano ad accumulo di ferro nelle cellule miocardiche. La prima parte della rassegna affronta i meccanismi alla base della tossicità miocardica. L’accumulo cellulare di ferro induce un’aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno; questa condizione di aumentato stress ossidativo sarebbe poi responsabile dell’inibizione dei canali rianodinici del calcio del reticolo sarcoplasmatico, provocando un mancato re-uptake del calcio durante la ripolarizzazione cellulare. Da qui avrebbero origine gli effetti depressivi della funzione sistolica e diastolica globale, la comparsa di aritmie e la depressione della conduzione elettrica. La seconda parte della rassegna ci offre invece un interessante spunto di riflessione: la liberazione di grandi quantità di ferro libero nel corso di un infarto ad evoluzione emorragica potrebbe contribuire alla depressione della funzione cardiaca indotta dall’evento ischemico acuto. L’ipotesi nasce evidentemente dalla risonanza magnetica cardiaca, tecnica regina nella valutazione del sovraccarico marziale miocardico. La teoria trova supporto in alcuni studi sperimentali che hanno evidenziato una riduzione dell’area necrotica in corso di terapia ferrochelante. Studi clinici ci dicono inoltre che, in condizioni di terapia emotrasfusionale corretta e di adeguata ferrochelazione, l’incidenza di eventi mortali cardiovascolari e di morbilità secondaria agli effetti tossici del ferro libero sui vari parenchimi è praticamente azzerata. In conclusione, un’ottima rassegna che ci consente di aggiornare le conoscenze in tema di cardiotossicità da ferro e ci illustra le più moderne teorie sul ruolo del ferro nel danno miocardico in corso di infarto acuto. •




Le erbe selvatiche in Cardiologia: usi, abusi ed intossicazioni
La sezione dedicata alla cardiotossicità si chiude con la rassegna di Stefano Maffè et al., un contributo di assoluta originalità che ci guida alla scoperta delle principali erbe selvatiche con potenziali effetti avversi sul sistema cardiovascolare. Con molte di queste specie botaniche abbiamo in realtà un rapporto pressoché quotidiano nell’ambiente lavorativo; basti pensare
alla
fiala di atropina che somministriamo per trattare una bradiaritmia o al trattamento di un’intossicazione digitalica. Ognuno dei capitoli della rassegna dedicati alle diverse specie riesce a suscitare allo stesso tempo stupore ed interesse per la facilità con cui ognuna delle piante citate può entrare a far parte della nostra vita quotidiana anche non strettamente professionale: l’efedrina contenuta in un banale spray decongestionante nasale o le piante di oleandro che decorano strade e viali sono un esempio lampante. Fortunatamente i casi fatali di avvelenamento riportati annualmente nelle casistiche internazionali sono molto rari (0.001%): tuttavia le intossicazioni sono frequenti ed il trattamento con antidoti è disponibile solo per poche specie come digitale e belladonna. Nella maggior parte dei casi la terapia si basa sul mantenimento delle funzioni vitali, cercando di garantire una corretta pervietà delle vie aeree, di sostenere il ritmo cardiaco anche con l’utilizzo di pacemaker temporaneo, di controllare convulsioni e ipertermia. In conclusione, la rassegna di Maffè et al. è davvero una lettura piacevole su un argomento apparentemente obsoleto ma in realtà di grande attualità. •

studio osservazionale




Prevalenza delle principali patologie cardiovascolari croniche in un distretto sanitario torinese
Lo studio di Mara Fanì et al. rappresenta una lodevole iniziativa da parte di un gruppo di medici di medicina generale di un distretto sanitario torinese. I dati raccolti ci forniscono una fotografia sulla prevalenza di malattie croniche cardiovascolari come infarto pregresso, scompenso cardiaco, aritmie e precedenti eventi ischemici cerebrovascolari su circa 87 000 pazienti nell’anno 2010. I risultati mostrano che la malattia coronarica rappresenta il problema numericamente più rilevante con un maggiore coinvolgimento del sesso maschile anche nelle fasce di età più avanzate. Seguono la fibrillazione atriale e l’ictus. Per quanto riguarda lo scompenso cardiaco, gli stessi autori ammettono che le stime possono essere falsate dall’oggettiva difficoltà di porre una diagnosi corretta in ambulatori di medicina generale in assenza di criteri specifici. Al di là dell’analisi scientifica dei dati, il lavoro degli autori merita una sincera ammirazione; oltre ad aver permesso di definire la distribuzione delle malattie croniche sul territorio, ha infatti prodotto risultati anche in termini di organizzazione del lavoro. A fronte di una possibile riduzione delle ore di attività di cardiologia ambulatoriale, gli autori hanno fornito ai propri dirigenti amministrativi dati concreti sulla prevalenza delle patologie cardiovascolari croniche nella popolazione residente, permettendo così di dimensionare il bisogno assistenziale e ottenendo, alla fine, il mantenimento a pieno regime del servizio di specialistica ambulatoriale.
L’editoriale di Luigi Tarantini et al. prende spunto da questo lavoro per affrontare temi scottanti e di assoluta attualità come la gestione territoriale dei pazienti affetti da patologie cardiovascolari croniche. È evidente che i progressi compiuti dalla medicina negli ultimi decenni hanno contribuito all’allungamento dell’aspettativa di vita ma anche alla progressiva espansione delle malattie croniche degenerative: se a questo fattore associamo il profondo mutamento della struttura familiare, non più in grado di assistere i soggetti “fragili” e la conseguente necessità di ricorrere a strutture di assistenza alternative come le case di riposo, il quadro che emerge è quello di una preoccupante carenza di risorse economiche per far fronte ad una tale domanda assistenziale. L’interazione tra cardiologo e medico di medicina generale diviene quindi essenziale per ottimizzare la gestione delle cardiopatie croniche in termini di appropriatezza ed efficacia. Oggi più che mai il rischio di eventi avversi nella fase postospedaliera richiede un attento monitoraggio: basti pensare al danno renale da farmaci o da mezzo di contrasto, alla possibilità di emorragie conseguenti alla terapia anticoagulante/antiaggregante, ma anche alla semplice aderenza non ottimale dei pazienti ai programmi terapeutici impostati. La sintonia tra ospedale e territorio diviene quindi cruciale per ridurre gli eventi avversi e le conseguenti nuove ospedalizzazioni e per cercare di ottimizzare le risorse economiche e rendere sostenibile la gestione di questi pazienti. •

controversie in medicina cardiovascolare




Il trattamento dell’endocardite infettiva: cardiologo e chirurgo a confronto
Si tratta senza dubbio di una delle controversie più accese mai pubblicate sul Giornale, sia perché l’argomento offre di per sé enormi spunti di discussione, sia perché le parti in causa sono cardiologo e cardiochirurgo. Il casus belli è dato da uno dei pochi studi randomizzati pubblicati sul tema in un recente numero del New England Journal of Medicine: nello studio EASE, la chirurgia precoce in pazienti con endocardite infettiva del cuore sinistro ha dimostrato una riduzione significativa di un endpoint composito (morte ospedaliera + eventi embolici entro 6 settimane) rispetto alla terapia convenzionale. Secondo Francesco Enia, i numerosi limiti dello studio, tra cui quello di essere un trial praticamente monocentrico, di aver arruolato soggetti con età media piuttosto bassa e di aver escluso i pazienti a rischio più elevato, non consentono di trarre conclusioni definitive. L’opinione di Enia è quindi piuttosto radicale: non esistono ad oggi dati sufficientemente forti sui quali basare l’opzione chirurgica (precoce o tardiva) nel paziente con endocardite infettiva. Di diverso avviso sono invece Daniele Maselli e Raffaele Scaffa. Il miglioramento delle tecniche chirurgiche e rianimatorie, così come un utilizzo più mirato dei farmaci antibiotici, permettono di considerare la chirurgia precoce come una valida strategia; un intervento precoce offre peraltro maggiori possibilità di riuscire a preservare la valvola nativa, soprattutto la mitrale. L’obiettivo della chirurgia precoce è di fatto quello di evitare l’embolia sistemica, che si verifica in circa un terzo dei pazienti con endocardite, coinvolge spesso il sistema nervoso centrale ed è la seconda causa di morte dopo la scompenso cardiaco in questi pazienti. Sembra quindi razionale proporre un trattamento chirurgico precoce almeno nei pazienti con vegetazioni di grandi dimensioni e con notevole mobilità. Anche se le posizioni degli autori divergono radicalmente, entrambi sostengono la necessità di un approccio multidisciplinare (cardiologi, microbiologi, chirurghi) a questo tipo di pazienti, con strategie terapeutiche che emergano da protocolli scritti e condivisi dai vari specialisti. •

casi clinici




Un raro caso di metastasi cardiaca da adenocarcinoma intestinale
Il caso presentato da Claudia Castellani et al. descrive una localizzazione cardiaca di un adenocarcinoma del sigma in una donna di 64 anni. Data l’assenza di sintomatologia, la diagnosi è stata posta inizialmente ad un controllo TC programmato e successivamente confermata con ecocardiografia transesofagea e risonanza magnetica cardiaca. La peculiarità del caso è rappresentata dalla localizzazione cardiaca, che non costituisce la sede più frequente di metastatizzazione dell’adenocarcinoma intestinale, dalla crescita intracavitaria della massa, che è più spesso caratteristica dei tumori primitivi, e dall’assenza di sintomi in presenza di una voluminosa massa occludente circa i due terzi della cavità atriale destra con infiltrazione della parete laterale dell’atrio e dell’origine della vena cava superiore. Il messaggio degli autori è quello di effettuare sempre uno stretto follow-up di questi pazienti volto a evidenziare precocemente singole lesioni metastatiche anche nelle sedi non usuali. •




La diagnostica differenziale nell’ipertensione secondaria: un complesso caso di carcinoma surrenalico
Alessandra Leone et al. ci presentano un caso clinico piuttosto complesso di ipertensione arteriosa secondaria ad un carcinoma surrenalico secernente cortisolo. Le difficoltà incontrate nel percorso clinico che ha condotto alla formulazione della diagnosi corretta ci fanno capire quanto possa essere insidiosa la diagnosi differenziale nei casi di ipertensione secondaria; il paziente ha presentato infatti, per un lungo periodo di tempo, un quadro di ipercortisolismo subclinico con sintomi molto aspecifici e spesso mascherati dagli effetti collaterali delle varie terapie antipertensive che sono state intraprese prima di giungere alla diagnosi definitiva. Il successivo peggioramento del quadro clinico ha infine indotto gli autori ad iniziare un trattamento palliativo con mifepristone, un farmaco ad azione antagonista verso i recettori dei glucocorticoidi, in grado di contrastare gli effetti dovuti all’aumentata produzione di cortisolo. In sostanza, un caso clinico complesso che ci permette di focalizzare l’attenzione sulle molteplici difficoltà della diagnostica differenziale nell’ipertensione secondaria. •




Un raro caso di linfoma di Burkitt con localizzazione primitiva cardiaca
Se il coinvolgimento cardiaco da parte dei linfomi maligni disseminati è un evento piuttosto frequente, la localizzazione unica e primitiva di un linfoma a livello del cuore rappresenta un caso di raro riscontro in soggetti non affetti da deficit immunitari. Il caso presentato da Enrico Donegani et al. descrive un linfoma di Burkitt diagnosticato in un ragazzo camerunense di 14 anni che era stato ricoverato per scompenso cardiaco. L’ecocardiogramma ha permesso subito di evidenziare la massa che riempiva quasi completamente l’atrio destro, con associata occlusione intermittente dell’ostio della valvola tricuspide: la prima ipotesi diagnostica è stata quella di mixoma, ma l’esame istologico, dopo resezione chirurgica della massa, ha consentito di arrivare alla diagnosi definitiva. Grazie al successivo trattamento chemioterapico si è potuta ottenere una remissione completa della malattia. Un’ulteriore dimostrazione che solo un vero approccio multidisciplinare, che parte dall’ecocardiogramma basale del cardiologo clinico per arrivare alla biologia molecolare del patologo, permette di risolvere con successo casi più complessi, di non comune presentazione. •