In questo numero

processo ai grandi trial





Diabete e malattia coronarica multivasale: bypass e angioplastica a confronto nello studio FREEDOM
Lo studio FREEDOM è stato ideato e realizzato nel tentativo di chiarire quale sia la migliore strategia di rivascolarizzazione miocardica nei pazienti diabetici affetti da malattia coronarica multivasale stabile. Contrariamente a quanto l’acronimo dello studio indurrebbe a pensare, i risultati del trial non lasciano grande libertà di scelta ai cardiologi interventisti che, di fronte ad un paziente diabetico multivasale, si trovano ad avere, adesso più che mai, le mani decisamente legate. D’altra parte, il diabete ha da sempre rappresentato un campo difficile per l’angioplastica coronarica: partite importanti erano già state perse con gli studi ARTS, CARDIA e SYNTAX, che hanno riconosciuto la superiorità del bypass rispetto all’angioplastica soprattutto in termini di successive rivascolarizzazioni. Nel FREEDOM la supremazia del bypass è emersa in maniera ancora più evidente: i pazienti randomizzati a chirurgia hanno infatti presentato una significativa riduzione di morte e infarto miocardico non fatale anche se al prezzo di una maggiore incidenza di ictus cerebri.
Anche un trial apparentemente indiscutibile può tuttavia presentare ombre e debolezze se analizzato attentamente. Il compito di scardinare le certezze del FREEDOM è stato affidato a Carlo Briguori e Giovanni Alfonso Chiariello, che muovono alcune critiche lucide e razionali allo studio: l’estrema selezione dei pazienti, che ha portato ad arruolare solo il 6% di quelli inclusi al momento dello screening iniziale, può aver condizionato i risultati, così come la bassa percentuale di soggetti con importante disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, condizione che avrebbe presumibilmente peggiorato la prognosi del gruppo sottoposto a chirurgia. Il messaggio del FREEDOM è invece pienamente condiviso da Giovanni Melandri, secondo cui la superiorità del bypass sull’angioplastica può essere giustificata dal fatto che i pazienti diabetici presentano una coronaropatia più diffusa e più complessa e la possibilità di effettuare una rivascolarizzazione completa è minore con l’approccio percutaneo. In conclusione, un processo avvincente per uno studio importante, dedicato ad una nicchia di pazienti, quelli diabetici con malattia coronarica complessa, che da sempre rappresentano una sfida terapeutica complessa per tutti i cardiologi. •

rassegne





Proteomica, dalle ceneri della genetica classica un nuovo paradigma per la cardiologia molecolare

Il coronamento di un sogno, quello del sequenziamento del genoma umano, culminato nel multimilionario Genome Project, ha inevitabilmente portato medici e biologi a sognare ancora, perché quello che abbiamo ottenuto pare ancora poco di fronte alle nuove complessità emerse lungo la strada. Il dogma “un gene, una proteina”, e il conseguente miraggio di poter prevedere il fenotipo e addirittura la prognosi delle malattie genetiche col semplice sequenziamento di frammenti di DNA, sta miseramente naufragando. È ormai evidente che anche nei modelli monogenici di malattia (come la sindrome Marfan o le cardiomiopatie familiari), identiche mutazioni in genomi quasi identici possono dar luogo a fenotipi e decorsi diametralmente opposti e imprevedibili. Questo apparente paradosso in realtà si spiega benissimo con i numerosi e regolatissimi cambiamenti co- e post-traduzionali a cui vengono sottoposte le proteine degli organismi complessi, per cui il risultato finale della sintesi proteica è molto diverso da quello prevedibile dalla semplice sequenza del DNA. In questa brillante rassegna, ricca di spunti basati su ricerche personali, Cristina Banfi et al. ci introducono nel mondo del “proteoma”, l’insieme di tutte le proteine presenti in una cellula o in un organismo, comprendente sia le proteine tradotte direttamente dal materiale genetico sia quelle sottoposte a processi di modificazione post-traduzionale. La proteomica viene definita dagli autori come la scienza che ha lo “scopo di identificare e caratterizzare i continui cambiamenti dell’espressione proteica in un sistema biologico in diverse condizioni fisiologiche e patologiche e mira quindi ad analizzare il legame tra la sequenza genica e la fisiologia della cellula e a studiare la dinamica dei prodotti genici e delle loro interazioni”. La materia è difficile, ma porta con sé il nucleo di una nuova comprensione delle cardiopatie genetiche e della loro terapia. •





Anche le miocarditi hanno un volto, ma ne conosciamo le vere sembianze?

Nonostante i rilevanti progressi scientifici e tecnologici la diagnosi di miocardite ed il suo trattamento specifico costituiscono tuttora una sfida per il cardiologo clinico. Sono ancora molti gli aspetti poco noti della malattia. Mancano dati certi sulla reale incidenza di miocardite nella popolazione generale, stima resa complessa dall’ampia variabilità di presentazione clinica della malattia (da forme asintomatiche o paucisintomatiche a quadri clinici di scompenso cardiaco fino ad eventi fatali improvvisi), per cui spesso non viene sospettata e per questo neppure ricercata. In Italia i pochi dati disponibili, ottenuti da studi autoptici, riportano un range di prevalenza variabile fra 0.11% e 5.5 % in gruppi di soggetti non selezionati, arrivando fino al 50% nei soggetti affetti da infezioni ospedaliere o da AIDS. Incerta è anche la storia naturale della malattia che varia a seconda dell’eziologia, della modalità di presentazione clinica e dell’intervallo fra esordio clinico e diagnosi. Ed ancora, è controverso il ruolo di indagini non invasive come la sierologia, l’ecocardiografia e la risonanza magnetica cardiaca, che pur consentendo un inquadramento clinico, permettono solo una stima della probabilità diagnostica di miocardite. Anche la biopsia endomiocardica, che ad oggi risulta essere l’unico esame di riferimento in grado di fornire una diagnosi certa di miocardite, una sua caratterizzazione istopatologica e molecolare ed una definizione di terapie specifiche ed appropriate, soprattutto in forme a presentazione con instabilità emodinamica, aritmica e con importante disfunzione ventricolare, ha limiti di sensibilità. Sono tanto numerose le incertezze e le perplessità da rendere particolarmente difficoltoso il work-up diagnostico e decisionale nel caso di una sospetta miocardite. Si sente la necessità di questa rassegna in cui Marco Anzini et al. analizzano con rigore gli aspetti controversi in tema di diagnosi, stratificazione prognostica e terapia delle miocarditi, al fine di offrire al lettore informazioni chiare ed operativamente utili per un approccio multiparametrico e ragionato ad una patologia che, per l’estremo polimorfismo di presentazione ed evoluzione, pone ancora rilevanti problemi di strategia diagnostica e terapeutica. •





Malattie infiammatorie sistemiche: un piano di attacco su più fronti per ridurre il rischio cardiovascolare
Colpiscono 3 persone su 10 nel mondo ed in Italia oltre 5 milioni di persone. Sono le malattie infiammatorie sistemiche, patologie spesso dimenticate, ma caratterizzate da una rilevante riduzione della qualità di vita e della spettanza di vita rispetto alla popolazione generale. Sono un gruppo di patologie eterogenee che coinvolgono non solo le articolazioni, ma anche altri organi ed apparati. Il sistema cardiovascolare è frequentemente colpito, con manifestazioni in sedi diverse, dal pericardio, miocardio, endocardio, valvole, sistema di conduzione, arterie coronarie ai grandi e piccoli vasi del circolo sistemico, e con variabili gradi di severità a seconda del tipo di malattia infiammatoria sistemica. In particolare i pazienti con queste patologie hanno la tendenza a sviluppare un’aterosclerosi precoce ed aggressiva, con conseguenze importanti come eventi ischemici acuti coronarici e cerebrali anche in età giovanile. Evidenze crescenti suggeriscono che la risposta infiammatoria sistemica, tipica delle malattie sistemiche autoimmuni, sebbene con meccanismi fisiopatologici ancora poco chiari, può svolgere un ruolo centrale nello sviluppo dell’aterogenesi accelerata attraverso l’accentuazione ed interazione con i ben stabiliti e nuovi fattori di rischio cardiovascolare. A gravare ulteriormente sul rischio cardiovascolare concorrono gli effetti sfavorevoli di alcuni farmaci di più comune uso in queste affezioni. Come prevenire le complicanze cardiovascolari in questi pazienti? Una diagnosi precoce della malattia infiammatoria sistemica, un trattamento precoce ed efficace del processo infiammatorio in atto, un attento controllo dei fattori di rischio, affiancato a periodici controlli clinici potrebbero ridurre il rischio di eventi cardiovascolari? In questa rassegna Fabio Marsico et al. presentano un mirabile excursus sulle complicanze cardiovascolari delle malattie infiammatorie sistemiche che si associano ad un aumentato rischio cardiovascolare, sui possibili meccanismi fisiopatologici che collegano l’infiammazione sistemica all’aumento del rischio cardiovascolare, sulle strategie terapeutiche e sugli aspetti clinici attualmente carenti e meritevoli di future investigazioni. Un monito per un’ottimale applicazione clinica di interventi su più fronti, mirati ed efficaci, che potrebbero ridurre l’impatto sul sistema cardiovascolare delle più comuni malattie infiammatorie sistemiche. •





“... tutto è aspro, cupo, orrendo: la disperazione trasforma il giorno in notte d’inferno e costringe a nutrirci di lacrime e di dolore” [Petrarca,
Secretum]
Tristezza, sconforto, disagio, malinconia, insonnia, apatia o agitazione, indecisione e pensieri ricorrenti di morte, un insieme di anomalie comportamentali patologiche che nell’arte letteraria e figurativa gli artisti sono stati i primi a cogliere ed a rappresentare. Solo negli anni ’20 lo psichiatra Adolf Meyer inquadrò questi sintomi in un’unica sindrome psichiatrica denominata “depressione”, in sostituzione del termine precedentemente in uso “melanconia” che mal definiva questa condizione patologica. Oggi la depressione è un quadro clinico diffuso, anche se ancora di difficile diagnosi per la molteplicità e diversità dei sintomi non sempre ben identificabili. In Italia sono almeno 1.5 milioni gli adulti che soffrono di depressione, mentre quasi 5 milioni, oltre il 10% della popolazione, ne hanno sofferto almeno una volta nel corso della vita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e la Banca Mondiale ritengono che la depressione sia oggi la quarta causa di disabilità nel mondo. In ambito cardiologico la cardiopatia ischemica è la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. Due patologie che in proiezione futura sembrano entrambe destinate negli anni a coinvolgere un numero sempre più crescente di persone. Ma esiste una relazione fra depressione e cardiopatia ischemica? Ad oggi le evidenze scientifiche indicano un legame eziologico e prognostico fra cardiopatia ischemica e depressione, ma quanta attenzione prestiamo alla condizione psicologica del paziente cardiopatico nella nostra pratica clinica quotidiana? In un’elegante rassegna Carmine Pizzi et al. forniscono al lettore informazioni utili su come riconoscere e combattere la depressione nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica al fine di ottenere un significativo miglioramento della qualità di vita, conseguire una riduzione dei fattori di rischio anche nei pazienti con quadri clinici di depressione maggiore e migliorarne la prognosi. Una rassegna da non perdere che insegna quanto sia indispensabile una buona relazione tra medico e paziente per poter comprendere, se presente, il senso e la profondità della sofferenza psicologica di ogni singolo paziente. •

studio osservazionale





Riconoscere, capire, trattare la sindrome di Marfan

La sindrome di Marfan si mostra attraverso un caleidoscopio di manifestazioni cliniche variabilissime, spesso insidiose e solo apparentemente slegate tra loro. Come ben sa chi si occupa di questi pazienti, l’approccio clinico molto non può non essere multidisciplinare, e la rete di competenze che si rende necessaria per un centro di eccellenza è una delle più ampie immaginabili. Al cardiologo spetta suo malgrado un ruolo assolutamente centrale in questa rete, perché se un connettivo abnorme può causare una miriadi di problemi clinici, è di complicanze vascolari che muoiono i pazienti. La dissezione aortica giovanile rappresenta quasi una firma del Marfan e delle sindromi correlate, ed è una causa di morte che oggi si può prevenire. L’introduzione dell’intervento di Bentall e, successivamente, delle tecniche ricostruttive con conservazione della valvola nativa secondo David e Yacoub, ha contribuito in modo determinante al lusinghiero aumento dell’aspettativa di vita nei pazienti con sindrome di Marfan e alla preservazione della loro qualità di vita. Proprio perché più longevi, questi pazienti devono però fare i conti con la storia naturale dell’aortopatia, che viene nel tempo a coinvolgere i segmenti toracici più distali, in cui il trattamento chirurgico (che è spesso un redo) può essere vantaggiosamente sostituito con un impianto di protesi per via percutanea. Ciascuna di queste due opzioni presenta inevitabili vantaggi e svantaggi: una scelta appropriata passa solo dalla profonda conoscenza della patologia di base e dei limiti tecnici di ciascun percorso, così da poter cucire su misura per ciascun paziente la strategia più adatta al suo caso. In questo numero, Marco Di Eusanio et al. ci offrono una esauriente rassegna delle opzioni chirurgiche ed endovascolari per il trattamento della patologia aortica nelle sindromi Marfan-correlate, cogliendo in modo acuto e competente i veri punti nevralgici per il cardiologo, con un occhio particolarmente attento – com’è giusto nei pazienti in questa fascia di età – ai successi e alle complicanze a lungo termine.
A seguire, Susanna Grego et al. ci presentano un’esperienza cardiochirurgica di eccellenza nel più ampio contesto di un centro Marfan multidisciplinare, raccontandoci la grande mole di lavoro richiesto da questi pazienti prima ed al di fuori della sala operatoria. •

caso clinico





Scompenso cardiaco destro acuto:
quando le sorprese non finiscono mai ...
Lo scompenso cardiaco destro acuto in terapia intensiva rimane un rilevante problema clinico e gestionale. Complessa e di difficile identificazione è la sua fisiopatologia, poco studiato e limitato ad osservazioni non randomizzate anche il suo trattamento. I pazienti che ne sono affetti spesso presentano significative comorbilità ed instabilità emodinamica. È questo il caso clinico presentato in questo numero del Giornale da Vincenzo Tufaro et al. che descrivono il percorso diagnostico e terapeutico di una donna di 63 anni, affetta da molteplici e severe comorbilità, giunta alla loro osservazione in terapia intensiva per l’insorgenza di scompenso cardiaco acuto destro. L’ecocardiogramma transtoracico e transesofageo evidenziavano una grave disfunzione del ventricolo destro associato ad un’insufficienza tricuspidale di grado severo, non preesistente, ma riservavano anche una sorpresa suggerendo la possibile esistenza di una rara cardiopatia congenita come il cor triatriatum destro, diagnosi poi confermata da una successiva tomografia assiale computerizzata del cuore. Qual è la causa dello scompenso cardiaco destro e dell’insufficienza tricuspidale? Quanto il cor triatriatum condiziona la severità dello scompenso? Quale strategia terapeutica adottare? Un interessante caso clinico che ci fa comprendere quanto una diagnosi sia spesso difficile e non priva di sorprese, quanto possa essere complessa l’identificazione dei meccanismi fisiopatologici in gioco e come sia talora infruttuoso il trattamento.  •