In questo numero

processo ai grandi trial




Contropulsazione nello shock cardiogeno: un’opzione obsoleta?
Una delle complicanze più serie dell’infarto miocardico acuto è lo shock cardiogeno, condizione gravata tutt’oggi da elevata mortalità. In questo contesto la rivascolarizzazione miocardica si è già dimostrata essere il trattamento più efficace nel migliorare la sopravvivenza, perché favorisce il ripristino del flusso coronarico con conseguente recupero della funzione miocardica. La contropulsazione aortica vede una delle sue indicazioni nello shock cardiogeno, migliorando portata e perfusione coronarica. Lo studio IABP-SHOCK II ha arruolato 600 pazienti con infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno in cui fosse programmata una rivascolarizzazione precoce, randomizzati a contropulsazione aortica vs trattamento medico standard. Lo studio ha avuto il merito di proporre outcome ancora insoddisfacenti in tale contesto, primo tra tutti la mortalità che non è risultata differente né a breve (40% ad 1 mese) né a lungo termine (50% ad 1 anno) nei due gruppi di studio nonostante la rivascolarizzazione precoce fosse stata eseguita nel 96% dei pazienti. Tutto questo è forse sufficiente per permetterci di licenziare dal nostro armamentario il contropulsatore aortico? Federico Pappalardo, Enrico Ammirati e Stefano Ferrari, che commentano il trial, non ne sono proprio così convinti. •




Ipotermia dopo arresto cardiaco: ragioniamoci “a freddo”

La mortalità e la disabilità da reliquati neurologici dopo arresto cardiaco extraospedaliero (OHCA) restano ancora molto alte nonostante i progressi della scienza rianimatoria. Dopo i risultati confortanti di riduzione di mortalità e miglioramento della prognosi neurologica sostenuti da due studi pubblicati nel 2002 con l’impiego dell’ipotermia terapeutica, essa è stata raccomandata dall’International Liaison Committee on Resuscitation come trattamento di neuroprotezione dopo rianimazione cardiopolmonare con ripresa di circolo spontaneo. Più recentemente due nuovi trial pongono in discussione i risultati precedenti e potrebbero cambiare in modo significativo le procedure per il controllo della temperatura corporea dopo arresto cardiaco. Il TTM trial ha randomizzato 939 pazienti privi di coscienza dopo rianimazione da OHCA di presunta origine cardiaca per ricevere una temperatura controllata a 33°C o 36°C per 24 ore. Il trial non ha mostrato differenze significative né in termini di mortalità né di esito neurologico sfavorevole. Il secondo studio (Kim et al.) è un trial preospedaliero che ha randomizzato 1359 pazienti rianimati da OHCA per ricevere o meno un’infusione endovenosa rapida di soluzione salina a 4°C con l’obiettivo di raggiungere una temperatura corporea inferiore a 34°C prima dell’arrivo in ospedale. Anche in questo studio non si sono dimostrate differenze significative tra i due gruppi in termini di sopravvivenza e di recupero neurologico alla dimissione. È interessante conoscere l’opinione di tre esperti sull’argomento, Massimo Massetti, Claudio Sandroni e Alfonso Ielasi, che ci danno il loro punto di vista sui risultati di questi trial offrendo spunti di riflessione su un aspetto ancora così controverso come la cura del paziente con ripresa di circolo spontaneo dopo OHCA. •

guardare oltre




I sistemi di assistenza ventricolare: il “caso” kazako

La prognosi dell’insufficienza cardiaca cronica, in particolare nelle forme avanzate/refrattarie, rimane gravata da significativa mortalità e riospedalizzazione con notevoli costi economici e sociali. L’impianto di sistemi di assistenza ventricolare si sta affermando come opzione terapeutica di ponte o alternativa al trapianto. In questo lavoro Serik Bekbossynov et al. portano all’attenzione del lettore l’esperienza del National Research Center for Cardiac Surgery di Astana, in Kazakhstan, dove in 2 anni (2011-2013) sono stati impiantati 100 sistemi di assistenza meccanica ventricolare in pazienti con scompenso cardiaco cronico avanzato. Sebbene il 62% degli impianti fosse nominalmente di ponte al trapianto, quasi nessun paziente è stato nei fatti trapiantato. La casistica rappresenta così un modello per l’assistenza di lungo periodo. Vengono riportati i risultati in termini di sopravvivenza (69% a 1 anno), distanza percorsa al test del cammino dei 6 min e livelli di NT-proBNP. Le complicanze più frequenti erano i sanguinamenti e lo scompenso destro entro il primo mese dall’impianto, successivamente l’infezione del cavo. Sotto il profilo organizzativo, un aspetto interessante è la costituzione di una rete di assistenza distribuita sul territorio, forse ancor più necessaria in questo territorio con caratteristiche peculiari di estrema estensione e bassa densità di popolazione. •

rassegne




Dislipidemia e statine: qualcosa di nuovo in vista?

Questa rassegna pone l’attenzione del lettore sul trattamento con ipolipemizzanti della dislipidemia, partendo dall’analisi delle linee guida internazionali per arrivare sino alla pratica clinica quotidiana. È infatti noto che le linee guida rappresentano un punto di riferimento essenziale per il clinico ma non possono sostituirsi completamente al parere del medico. L’argomento è di grande interesse in quanto l’eziopatogenesi dell’aterosclerosi, pur essendo multifattoriale, vede tra i principali fattori di rischio l’ipercolesterolemia ed è chiaramente documentato come la malattia cardiovascolare su base aterosclerotica rappresenti la prima causa di morte e disabilità non solo nei paesi ad alto grado di sviluppo socio-economico, ma anche in quelli in via di sviluppo. Dalla rassegna emerge chiaramente come lo studio dell’aterosclerosi e le strategie per contrastare la malattia cardiovascolare su base aterosclerotica con farmaci ipolipemizzanti siano in continua evoluzione e come ancora motivo di dibattito siano le modalità di approccio in prevenzione primaria nonché gli obiettivi da perseguire sia in prevenzione primaria che secondaria. Certa è invece la necessità di una modalità di approccio globale e a lungo termine al fine di ridurre il danno vascolare che si crea nel tempo, senza sottovalutare il rapporto costo-beneficio del nostro agire in questo contesto. Tiziano Lucchi e Carlo Vergani non mancano di approfondire aspetti specifici, quali la cura dell’ipercolesterolemia familiare omozigote, l’associazione fibrati-statina, la “problematica” aggiuntiva del paziente anziano, diabetico e con insufficienza renale, proponendo anche flow-chart operative in caso di manifestazioni di epatotossicità e miopatia da statina. •




Ectasia coronarica: questa sconosciuta
L’ectasia delle arterie coronarie è una dilatazione del vaso più o meno estesa spesso associata a coronaropatia aterosclerotica e con una prevalenza variabile tra il 2.7% e il 10%. Tale anomalia si può presentare in forma acquisita e congenita e si può esprimere clinicamente in modo variabile: può rappresentare un reperto coronarografico occasionale, con dolore toracico atipico, angina stabile o addirittura come sindrome coronarica acuta. In questa rassegna Gregory Dendramis et al. ci conducono nell’esplorazione approfondita di questa patologia dando largo spazio all’eziopatogenesi, con particolare riferimento alle lesioni istopatologiche che la caratterizzano, al coinvolgimento sistemico della malattia e sottolineando approfonditamente le differenze tra patologia ectasiante e stenosante, spesso coesistenti nello stesso soggetto. L’argomento è di interesse per molte ragioni: la prevalenza non è bassa e si associa frequentemente a coronaropatia aterosclerotica e (in minor misura) a malattie del connettivo e vasculiti sistemiche, non raramente concomita una patologia ectasiante di altri distretti vascolari, arteriosi e venosi. L’ectasia coronarica, anche quando non associata ad altre patologie, non è da sottovalutare, data l’incidenza significativa di infarto ed angina, indipendentemente dalla presenza di stenosi aterosclerotiche fisse. Infine, l’interesse puramente scientifico su tale patologia coronarica è ancora molto attivo in quanto risulta ancora poco chiaro il ruolo svolto dall’aterosclerosi nella genesi dell’ectasia coronarica ed il ruolo eziopatogenico delle metalloproteinasi di matrice in questo contesto. •




Protesi
sutureless: un’alternativa reale?
In questa rassegna Giuseppe Santarpino e Theodor Fischlein. focalizzano l’attenzione su una reale ed efficace alternativa alla terapia chirurgica della stenosi aortica sintomatica severa in pazienti ad alto rischio: la protesi valvolare sutureless. Questo tipo di protesi, biologiche pericardiche fissate all’interno di uno stent metallico che non richiedono suture/punti chirurgici (o solo pochi punti) per essere impiantate nell’anulus aortico, presentano obiettivi vantaggi. Possono infatti essere posizionate con tempi di clampaggio aortico (e quindi di ischemia miocardica) ridotti, limitata durata complessiva dell’intervento e possono essere utilizzate in pazienti con radice aortica di piccole dimensioni. Risultati preliminari di studi clinici documentano un’ottima compliance emodinamica al follow-up a breve e medio termine, buona “adoperabilità” della protesi, minore incidenza di insufficienza centro- e paravalvolare rispetto all’impianto transcatetere di valvola aortica (TAVI). Altro aspetto importante delle protesi sutureless è il loro utilizzo negli approcci chirurgici mini-invasivi. Attraverso piccoli accessi chirurgici, il posizionamento dei punti di sutura e l’annodamento possono essere difficoltosi e richiedere tempo e le protesi sutureless possono facilitare e rendere più rapidi questo tipo di approcci. Come per ogni nuova metodica, la tecnica di impianto richiede una breve curva di apprendimento. Inoltre non indifferente risulta il vantaggio derivante dalla possibilità di riposizionamento della protesi (almeno per alcuni modelli) in caso di iniziale scorretto posizionamento. Non mancano infine osservazioni sulle questioni aperte (estrazione in caso di degenerazione o necessità di reintervento, mancanza di follow-up a lungo termine per valutarne durabilità ed outcome clinico), sul confronto tra approccio sutureless vs TAVI, sulle prospettive future con possibili indicazioni per un utilizzo più estensivo di queste protesi. •

studio osservazionale
Articolo del mese




Sostituzione della valvola aortica transcatetere versus chirurgica: OBSERVANT della realtà italiana

La stenosi aortica è oggi la valvulopatia con la maggiore prevalenza in Europa e nel Nord-America. L’impianto transcatetere di valvola aortica (TAVI) rappresenta da qualche anno un’opzione terapeutica alternativa per pazienti le cui caratteristiche di “fragilità” controindichino l’intervento chirurgico tradizionale di sostituzione (SAVR) che costituisce, a tutt’oggi, il trattamento di riferimento. L’efficacia della TAVI è stata ampiamente dimostrata ma gli studi di confronto TAVI-SAVR sono ancora pochi. In questo studio nazionale, Paola D’Errigo et al. hanno confrontato le caratteristiche cliniche e gli esiti a breve termine dei due tipi di trattamento in pazienti affetti da stenosi aortica severa. Nello studio, che ha arruolato 7618 pazienti TAVI e 5707 pazienti SAVR, la mortalità per ogni causa a 30 giorni è stata del 5.7-8.2% nel gruppo TAVI e del 2.4% nel gruppo SAVR. Tali risultati sono sovrapponibili a quelli riportati da ampi registri multicentrici (per la SAVR), mentre nel gruppo TAVI la mortalità è risultata inferiore rispetto ad altri studi, probabilmente a causa del più basso profilo di rischio della popolazione arruolata. I pazienti TAVI presentavano infatti un EuroSCORE espressione di rischio “intermedio”, forse ad indicare che nel nostro Paese la TAVI viene sempre più spesso offerta, in contrasto con le linee guida europee e il documento di consenso FIC-SICCH, anche a pazienti giovani con poche controindicazioni all’intervento chirurgico tradizionale. L’articolo è offerto alla discussione attraverso la piccola posta ( piccolaposta@giornaledicardiologia.it) fino alla fine del mese di aprile. È interessante conoscere il punto di vista critico di Lorenzo Menicanti e Sergio Berti, esperti dell’argomento, negli editoriali dedicati. •

dal particolare al generale




Anomalia delle coronarie: l’imaging “perfetto”
Ilaria Passaseo et al. riportano un caso di origine anomala della coronaria destra dal seno di Valsalva sinistro, una anomalia coronarica rara e potenzialmente a rischio per chi ne è affetto. In questo pattern coronarico è infatti insito un possibile meccanismo di ischemia miocardica che risiede nella restrizione del flusso coronarico quando la coronaria destra anomala presenta decorso interarterioso (tra aorta e arteria polmonare). La presentazione del caso clinico diventa spunto per focalizzare l’attenzione del lettore sulla diagnostica mirata, che attualmente prevede l’utilizzo di ecocardiografia, angiografia coronarica, tomografia computerizzata (TC) delle coronarie e risonanza magnetica. Nel contesto delle anomalie coronariche la TC risulta favorita sulle altre metodiche per il suo alto potere di risoluzione spaziale, i tempi stretti di esecuzione e la possibilità di ricostruzioni multiplanari e tridimensionali, utili per una dettagliata analisi di origine e decorso dell’arteria anomala. Sfavorita è invece la coronarografia, anche “solo” per il fatto che spesso risulta difficile, se non impossibile, l’incannulazione selettiva del vaso anomalo. Nella presentazione non vengono tralasciati cenni sul trattamento di tale anomalia, che rimane tuttora molto dibattuto, essendo la maggior parte delle anomalie di origine della coronaria destra benigne e con basso rischio di morte cardiaca improvvisa. Ma anche in questo caso l’imaging risulta necessario per decidere il percorso terapeutico più idoneo. •