In questo numero

processo ai grandi trial




Rivaroxaban quale alternativa agli antagonisti della vitamina K in vista di cardioversione elettiva in pazienti con fibrillazione atriale
Paolo Colonna, Rossella Troccoli e Giovanni Luca Botto commentano lo studio X-VeRT, il primo studio prospettico randomizzato che ha valutato l’uso di un nuovo anticoagulante orale in soggetti da sottoporre a cardioversione elettiva della fibrillazione atriale. Da decenni la cardioversione a ritmo sinusale rappresenta il cardine del trattamento di questa aritmia, malgrado diversi studi di confronto tra strategia di controllo del ritmo e strategia di controllo della frequenza non abbiano evidenziato un’evidente superiorità della prima sulla seconda nel migliorare la prognosi. Tuttavia diverse analisi post-hoc hanno dimostrato un vantaggio del mantenimento del ritmo sinusale sulla sopravvivenza. È già noto che un’anticoagulazione efficace si ottiene in tempi più brevi con i nuovi anticoagulanti orali. Questo rappresenta un potenziale vantaggio soprattutto nella riduzione dei tempi di pretrattamento necessari prima dell’esecuzione di una cardioversione. Lo studio X-VeRT è stato disegnato per valutare in maniera prospettica l’efficacia e la sicurezza di rivaroxaban verso gli antagonisti della vitamina K in pazienti naive o già in trattamento anticoagulante nel contesto della cardioversione elettiva della fibrillazione atriale. X-VeRT è stato il primo studio prospettico, randomizzato, in aperto, condotto su 1504 pazienti con fibrillazione atriale non valvolare di durata >48h, o non nota, stabili dal punto di vista emodinamico, reclutati in 16 paesi del mondo. Pazienti naive alla terapia anticoagulante o pretrattati, nei quali era prevista una procedura di cardioversione, sono stati randomizzati a ricevere rivaroxaban 20 mg/die (15 mg/die se la clearance della creatinina era compresa fra 30 e 49 ml/min) o terapia con antagonisti della vitamina K, con aggiustamento di dosaggio (per ottenere un INR fra 2.0 e 3.0) in un rapporto 2:1. La decisione se effettuare la cardioversione precoce con ecocardiografia transesofagea (obiettivo di 1-5 giorni di rivaroxaban o terapia standard con antagonisti della vitamina K prima dell’intervento) o differirla a un momento successivo (rivaroxaban o antagonisti della vitamina K per 3-8 settimane prima dell’intervento) è stata affidata agli sperimentatori locali. Lo studio ha dimostrato che il trattamento con rivaroxaban è in grado di offrire ai pazienti con fibrillazione atriale un’efficace protezione antitrombotica prima, durante
e dopo la procedura di cardioversione, riducendo il rischio di instabilità dell’effetto anticoagulante e consentendo una cardioversione precoce, sicura e a basso rischio embolico. •




La doppia antiaggregazione piastrinica dopo impianto di stent medicato: nuova luce sulla durata della terapia?
Rispetto agli stent non medicati, gli stent coronarici a rilascio di farmaco (DES) hanno ridotto in modo significativo il rischio di restenosi intrastent. Tuttavia i DES sembrano associati ad un significativo incremento di trombosi tardiva rispetto agli stent non medicati. Ci si è quindi concentrati in tempi recenti sulla durata ottimale della doppia terapia antiaggregante dopo impianto di DES, che tuttavia è rimasta indeterminata. Su questa linea, in questo numero del Giornale, Piera Capranzano e Battistina Castiglioni commentano lo studio ISAR-SAFE, che ha confrontato 6 vs 12 mesi di doppia antiaggregazione. Si tratta di uno studio ampio, che ha arruolato circa 4000 pazienti ed è peraltro l’unico studio in doppio cieco e controllato verso placebo nell’ambito della terapia antiaggregante dopo impianto di DES. L’ISAR-SAFE, in linea con i risultati di altri studi, ha concluso che prolungare la doppia terapia antiaggregante oltre i 6 mesi, fino a 12 mesi dopo l’impianto dello stent, non conferisce alcun vantaggio clinico in termini di riduzione degli eventi ischemici includenti la morte, l’infarto del miocardio, la trombosi dello stent – definita o probabile – e l’ictus. Di fatto, i risultati dell’ISAR-SAFE non si discostano da quelli degli studi precedenti e non aggiungono particolari novità nello scenario attuale della durata della terapia antiaggregante dopo impianto di DES, che rimane ancora dominato dalla valutazione individuale del rischio. •

editoriali




L’ecocardiografia in area critica:
uno strumento indispensabile che mette d’accordo cardiologo e intensivista
L’ecocardiografia è uno strumento diagnostico e di monitoraggio estremamente utile in ambito cardiologico. Il suo utilizzo trova sempre maggiore applicazione al di fuori del più stretto ambito cardiologico specialistico e l’esigenza che un tale strumento sia accessibile a figure professionali diverse dal cardiologo si è fatta sempre più pressante nella medicina moderna. In particolare, nel paziente critico emodinamicamente instabile la diagnosi rapida rappresenta la sfida cui è chiamato quotidianamente l’anestesista rianimatore nell’unità di terapia intensiva, nel dipartimento di emergenza e in sala operatoria. Chi svolge la propria attività professionale in area critica ha da tempo sentito la necessità di uno strumento diagnostico che permettesse una diagnosi rapida ed eziologica dell’instabilità emodinamica per consentire una terapia pronta e mirata. Anche metodiche, da sempre di pertinenza cardiologica quale l’ecocardiografia transesofagea, trovano ampia applicabilità in pazienti di area critica, soprattutto in pazienti con instabilità emodinamica refrattaria alla terapia medica, nei quali è necessario escludere controindicazioni specifiche all’utilizzo di dispositivi di supporto al circolo quali l’ECMO. Non da ultimo, anche l’incannulazione di un vaso centrale in un paziente critico ed emodinamicamente instabile si giova dell’utilizzo di metodiche ecocardiografiche. Un cardiologo, Michele Oppizzi, e due anestesisti rianimatori, Fabio Guarracino e Pietro Bertini, fanno il punto sulle raccomandazioni europee riguardo all’impiego dell’ecocardiografia in ambiente intensivo, recentemente pubblicate su European Heart Journal Acute Cardiovascular Care. Entrambe le figure professionali sottolineano l’importanza del lavoro di squadra e la complementarietà di competenze professionali che fanno capo al cardiologo, all’anestesista rianimatore e non ultimo al medico di pronto soccorso e medicina d’urgenza. Cardiologo e intensivisti si trovano anche d’accordo sul fatto che l’ecocardiografia debba essere uno strumento complementare al monitoraggio emodinamico invasivo, soprattutto nei pazienti più instabili. •

rassegna




Ecocardiografia e resincronizzazione cardiaca: una questione ancora aperta
La terapia di resincronizzazione cardiaca è attualmente una presidio fondamentale nei pazienti con disfunzione sistolica ventricolare sinistra. L’ecocardiografia ci permette di valutare in questi pazienti oltre al deficit di funzione di pompa e di contrattilità anche il grado di desincronizzazione sia essa atrioventricolare, interventricolare o intraventricolare. Tuttavia, la valutazione della dissincronia meccanica mediante ecocardiografia non è necessaria per indicare l’impianto del resincronizzatore nei pazienti con blocco di branca sinistra e QRS >150 ms e non va effettuata nei pazienti con QRS “stretto”. D’altro canto, nel sottogruppo di pazienti con blocco di branca sinistra e QRS <150 ms oppure senza blocco di branca sinistra ma con QRS “largo” la dimostrazione della presenza di dissincronia meccanica mediante ecocardiografia potrebbe essere utile per rinforzare la scelta di procedere all’impianto del resincronizzatore. Oltre alla caratterizzazione del paziente candidato alla terapia di resincronizzazione cardiaca, l’ecocardiografia esprime le proprie potenzialità anche nell’identificazione del sito ottimale di pacing, nell’ottimizzazione del pacing stesso, nella valutazione della risposta alla resincronizzazione da parte del singolo paziente e quindi nel follow-up dei pazienti sottoposti a tale terapia.
Donato Mele et al. fanno il punto sul ruolo che l’ecocardiografia ha oggi, nella pratica clinica, prima, durante e dopo l’impianto di un resincronizzatore, con un’ampia ed attenta analisi della letteratura che recentemente ha visto una fioritura rapida e numerosa. •

studi osservazionali
Articolo del mese




La fibrillazione atriale nel “mondo reale”: i dati dall’Osservatorio della provincia di Trieste
La fibrillazione atriale è la più comune aritmia che il cardiologo clinico incontra nella propria attività quotidiana. Numerosi studi internazionali hanno analizzato le caratteristiche clinico-demografiche, il ruolo prognostico e l’impatto socio-economico della fibrillazione atriale nel mondo reale. I dati su coorti italiane sono invece molto scarsi. In uno studio relativo ai dati provenienti dall’osservatorio delle malattie cardiovascolari della provincia di Trieste, Carmine Mazzone et al. analizzano l’epidemiologia, le strategie terapeutiche,
le complicanze tromboemboliche ed emorragiche di un’ampia popolazione di pazienti ed inoltre fanno il punto sull’eleggibilità potenziale al trattamento anticoagulante in accordo con le determinazioni dell’Agenzia Italiana del Farmaco ed i dati della letteratura. Le conclusioni alle quali gli autori giungono suggeriscono che in una popolazione di pazienti appartenenti al “mondo reale” e non a trial clinici, la fibrillazione atriale è diagnosticata in circa un quinto dei pazienti, generalmente più anziani e
a più alto rischio di complicanze tromboemboliche. La frequenza degli eventi fatali e non fatali correla significativamente con la tipologia di
fibrillazione atriale e con gli score di rischio tromboembolico ed emorragico. Inoltre un dato importante che emerge da questo studio è l’assoluta inadeguatezza della prescrizione della terapia anticoagulante. •




Lo stent MGuard: una valida strategia per la riduzione del “no-reflow” in pazienti con STEMI
Nei pazienti colpiti da infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), sottoposti ad angioplastica primaria con applicazione di stent, l’embolizzazione distale di frammenti di trombo o di placca è un fenomeno frequente cui può conseguire un ridotto grado di riperfusione miocardica fino al fenomeno del “no-reflow”. Lo stent MGuard (InspireMD, Tel Aviv, Israele) è un dispositivo dotato di una rete esterna in Dacron (mesh-covered), disegnato al fine
di limitare la frammentazione e migrazione distale del materiale trombotico durante l’impianto di stent.
Enrico Cerrato et al. analizzano in uno studio prospettico, monocentrico, ma non randommizato l’utilizzo di questo dispositivo in pazienti con STEMI ed alto carico trombotico giungendo alla conclusione che l’utilizzo di tale dispositivo rappresenta una valida strategia per ottenere un’adeguata riperfusione, con un buon profilo di sicurezza a lungo termine. •

dal particolare al generale




Dissezione coronarica spontanea: uno sguardo all’interno della coronaria può fare la differenza
La dissezione coronarica spontanea, anche nota come aneurisma dissecante o ematoma intramurale delle coronarie, è una rara causa di sindrome coronarica acuta, spesso complicata da morte improvvisa. La sua incidenza all’angiografia varia da 0.1% a 0.2% di tutte le cause di sindrome coronarica acuta, ma l’entità del problema è probabilmente sottostimata, dato che si tratta di una condizione clinica che può esordire con morte improvvisa e risultare quindi sottodiagnosticata. In accordo con i dati del Rochester Epidemiology Project, dal 1979 al 2009 l’incidenza annuale di dissezione coronarica spontanea è stimabile pari a 0.26/100000 (0.33 donne, 0.18 uomini). Giuseppe Ciliberti et al. ci presentano un caso di una giovane donna giunta in ospedale per una sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST, in cui la coronarografia ha posto il sospetto di dissezione coronarica. Tale sospetto è diventato certezza con l’utilizzo dell’ecografia intravascolare, che ha evidenziato una dissezione coronarica con coinvolgimento del tronco comune, che nella già rara patologia della dissezione coronarica spontanea risulta essere una sede ancora più raramente interessata. L’applicazione di uno stent medicato risultava estremamente efficace anche alla luce del follow-up successivo. La revisione della letteratura da parte degli autori arricchisce in modo sostanziale la stesura di questo lavoro. •




Quando le cose si mettono male: la dissezione iatrogena del tronco comune
La dissezione iatrogena del tronco comune è una rara complicanza delle procedure di rivascolarizzazione coronarica percutanea e ancora più rara nelle procedure diagnostiche. È certamente una complicanza estremamente grave che mette a rischio la vita del paziente. Filippo Zilio et al. descrivono il caso di una donna giunta in ospedale con un quadro di infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST nella quale la procedura di rivascolarizzazione veniva complicata da dissezione del tronco comune con conseguente shock cardiogeno che richiedeva l’applicazione dapprima di contropulsatore intra-aortico ed ECMO e successivamente, per il persistere del quadro clinico, anche di assistenza meccanica al circolo mediante HeartWare. Nonostante tali presidi la paziente è infine giunta ad exitus per grave emorragia cerebrale. Gli autori fanno poi il punto su tale complicanza con una attenta e puntuale revisione della letteratura, mettendo in luce tutti gli aspetti più salienti, dall’eziopatogenesi, all’utilizzo dei supporti meccanici per sostenere l’emodinamica fino alle più appropriate strategie terapeutiche. •