Dettagli Novembre 2016, Vol. 17, N. 11 doi 10.1714/2498.26182 Scarica il PDF(385,1 kb) In questo numero titolo - split_articolo,controlla_titolo - art_titolo In questo numero testo - art_testo processo ai grandi trial Da stent a scaffold bioassorbibile Potrebbero essere la prossima innovazione tecnologica o addirittura la prossima rivoluzione nella cardiologia interventistica coronarica. Si tratta degli scaffold bioassorbibili che, dopo essere stati posizionati a sostegno della parete vascolare e averne rimosso l’occlusione, si riassorbono gradualmente nei tessuti del paziente nell’arco di due anni. La promessa è di avere maggiori possibilità di trattamento nel caso di progressione della malattia, perché si può procedere ancora con una rivascolarizzazione nel caso si rendessero necessari futuri interventi; un più facile uso di metodiche diagnostiche non invasive, come tomografia computerizzata e risonanza magnetica, nel follow-up dei pazienti; in ultima analisi la restitutio ad integrum del vaso che ritorna ad avere una risposta naturale vasomotoria agli stimoli fisiologici. Sarà così nel prossimo futuro? I commenti di Francesco Summaria et al. ci aiutano a capire i risultati del nuovo trial (ABSORB III) che ha confrontato il tradizionale stent metallico a rilascio di farmaco con il nuovo scaffold riassorbibile BVS (Abbott Vascular). Risultati che sono insieme promettenti e insufficienti a mettere una parola definitiva, ma sono necessari per far capire come solo con una precisa selezione dei pazienti, delle lesioni da trattare e le attenzioni specifiche alla diversa metodica di impianto rispetto agli stent tradizionali si potranno raggiungere risultati clinici migliori nei nostri pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica. • editoriale 120 anni ma non li dimostra... la terza vita dell’aspirina Nato come antalgico, antipiretico e antinfiammatorio alla fine dell’800, risorto negli anni ’70 del ’900 come antiaggregante piastrinico, l’acido acetilsalicilico crea nuove aspettative nella prevenzione oncologica nel XXI secolo. In una cavalcata sull’onda di un recente documento della U.S. Preventive Services Task Force, Massimo Volpe analizza i potenziali benefici stimati dall’uso dell’aspirina in prevenzione primaria, evidenziando la plausibilità dei meccanismi biologici coinvolti nell’inibizione della carcinogenesi e sottolineando come le raccomandazioni puntino a una valutazione quali-quantitativa del rapporto rischio-beneficio nei diversi gruppi di popolazione. • point break NAO e FA: FAQ Perché l’utilizzo dei nuovi anticoagulanti orali (NAO) nella profilassi tromboembolica della fibrillazione atriale (FA) fatica a decollare? È solo una questione relata alle limitazioni introdotte dai piani terapeutici oppure la ragione risiede in una comprensibile prudenza clinica nell’impiego di farmaci innovativi? In questa rassegna Roberto Cemin et al. rispondono agli interrogativi più frequenti relativi alla gestione di tali farmaci nella vita reale. L’articolo identifica 10 quesiti e a questi fornisce risposte schematiche. Ne derivano risvolti pratici e concreti che, esprimendo il punto di vista degli autori supportato, ove disponibili, da evidenze di sottoanalisi dei grandi trial, studi prospettici, documenti di consenso e guide pratiche, possono favorire scelte ragionate del clinico. Definizione di FA non valvolare, limitazioni prescrittive derivate dalla funzione renale e dall’età, interazioni farmacologiche “pericolose”, adeguatezza di aderenza terapeutica, antidoti e altro ancora: davvero un “FAQ” con risposte precise e (finalmente) pratiche. Da leggere e meditare. • Un lavoro di squadra La complessità clinica nella gestione di pazienti sottoposti a impianto di assistenze ventricolari del cuore sinistro richiede interventi multidisciplinari da parte di diverse figure professionali sanitarie. Il contributo di Anna Scaglione et al. relativo a questo argomento proviene proprio da una struttura riabilitativa in grado di far fronte ai diversi aspetti gestionali quali l’ottimizzazione della terapia farmacologica, l’adattamento della macchina da parte del paziente, la gestione delle complicanze infettive e della coagulazione. La fotografia di 260 impianti di assistenza ventricolare risulta positiva in termini di logistica e afferenza delle strutture riabilitative degenziali. • la cosa pubblica Il dramma dell’arresto cardiaco nello sportivo: effetti della Legge Balduzzi In ambito di prevenzione della morte improvvisa, Alessandro Zorzi et al. del Dipartimento di Scienze Cardiologiche dell’Università di Padova, che da molto tempo si occupano di queste problematiche, ci offrono un interessante lavoro che vuole valutare gli effetti della cosiddetta “Legge Balduzzi”, che ha recentemente imposto alle società sportive di dotarsi di un defibrillatore semiautomatico esterno e di garantire la presenza di personale addestrato durante lo svolgimento di allenamenti e competizioni. Come purtroppo ricordiamo, la legge è stata emanata anche sulla scia dei due drammatici eventi di morte improvvisa degli atleti Vigor Bovolenta e Pier Mario Morosini nel 2012. Gli autori hanno raccolto tutti i casi di arresto cardiaco improvviso di probabile origine cardiovascolare pubblicati su web dalla stampa nazionale e locale, che si sono verificati in impianti sportivi nell’anno 2015. I 123 casi riscontrati sono stati poi suddivisi in tre gruppi, in base al tipo di manovre rianimatorie praticate dagli astanti. All’analisi dei risultati segue un’approfondita valutazione della problematica della morte improvvisa nello sportivo, dell’utilità della presenza di defibrillatori semiautomatici esterni negli impianti sportivi e non, e della limitazione ancora esistente dell’utilizzo di tali dispositivi solo da parte di personale addestrato a farlo; particolare che circoscrive molto e riduce l’impatto che l’uso precoce del defibrillatore potrebbe avere in molti episodi di arresto cardiaco defibrillabile. Tutti i dati a nostra disposizione sembrano sottolineare come la cultura della rianimazione non possa essere appannaggio soltanto degli addetti ai lavori, ma dovrebbe diventare parte integrante della cultura generale del cittadino, in quando la morte improvvisa, per definizione, purtroppo non avverte e può avvenire in qualsiasi momento e luogo. • rassegna “Supercentri” ad alto volume per il trattamento della dissezione aortica? La dissezione acuta dell’aorta di tipo A è una patologia caratterizzata da una mortalità postoperatoria drammaticamente alta, compresa tra il 15% e il 30%. Il management della dissezione implica, infatti, un approccio chirurgico complesso, una gestione anestesiologica perioperatoria impegnativa ed un follow-up specifico per il monitoraggio di possibili complicazioni tardive. Tuttavia, Claudio Russo et al. ci riferiscono che la Duke University ha riportato di recente una mortalità operatoria del solo 2.8% rispetto al 34% osservato in periodi antecedenti. Un tasso così basso di mortalità ospedaliera, paragonabile alla chirurgia aortica elettiva, è stato raggiunto sia attraverso la definizione di un percorso diagnostico-terapeutico specifico, sia anche delegando la chirurgia dissecativa aortica ad un pool ristretto di soli due chirurghi. L’individuazione anche in Italia di supercentri regionali e ad alto volume potrebbe essere un interessante progetto per assicurare outcome eccellenti in pazienti affetti da una così devastante patologia. Tali centri dovrebbero impiegare chirurghi dediti prevalentemente a tale tipo di chirurgia aortica, avvalendosi del contributo multidisciplinare di altri professionisti (cardiologi, chirurghi vascolari, radiologi interventisti) così da fungere da hub per gli ospedali periferici ed a basso volume. Ciò permetterebbe inoltre di ridurre i tempi tra esordio della sintomatologia, diagnosi e trattamento chirurgico, fattore decisivo nel limitare i danni prodotti dall’evoluzione della dissecazione aortica. • studi osservazionali Articolo del mese Attività fisica nei bambini: l’ECG è davvero utile? Una delle principali controversie degli ultimi mesi in ambito cardiologico è quella che si è scatenata dopo la promulgazione da parte del Ministero della Salute del Decreto Legge 243, secondo il quale per effettuare attività fisica non agonistica è necessario eseguire un ECG “almeno una volta nella vita”. Questa dicitura ha comportato soprattutto in ambito pediatrico le maggiori novità, facendo sì che migliaia di bambini che si apprestano a iniziare un’attività sportiva non agonistica, abbiano la necessità di sottoporsi a un ECG. Per capire l’impatto della legge e l’opinione degli operatori sanitari coinvolti, in questo studio osservazionale Elena Poggi et al. hanno proposto a 7 pediatri del Comune di Genova, che hanno complessivamente in cura circa 3500 bambini, un questionario per indagare la frequenza dell’esecuzione dell’ECG per la certificazione di idoneità ad attività sportiva non agonistica nella popolazione pediatrica, e rilevare l’incidenza del riscontro di patologie cardiovascolari. I risultati sono interessanti e in parte anche inattesi, e ci portano a riflettere da una parte sull’utilità e dall’altra sull’eventuale pericolosità di uno screening così ampio, effettuato con un esame come l’ECG che spesso si presta a interpretazioni non univoche, soprattutto a causa della scarsa esperienza dei cardiologi con i tracciati dell’età evolutiva. Ci aiuta a valutare questi aspetti il brillante editoriale di Gabriele Bronzetti, che con spietata ironia, fra una citazione e l’altra, mette sotto la lente d’ingrandimento la nostra inadeguatezza nella refertazione dell’ECG pediatrico, ponendo questa diatriba nell’ambito più ampio del rapporto fra lo specialista cardiologo e il pediatra o il medico di famiglia. L’approccio italiano così interventista e paternalista in questo ambito, molto diverso da quello di altri paesi, in particolare degli Stati Uniti, porterà davvero a una riduzione delle morti improvvise o creerà soltanto una pletora di falsi positivi con richiesta di visite ed esami di secondo livello, e allarmismo nelle famiglie? • Fibrillazione atriale e rischio tromboembolico: quale strategia PREFERiamo? Il registro europeo PREFER in AF valutava le attuali strategie di prevenzione degli eventi tromboembolici relati alla fibrillazione atriale (FA). Studio multicentrico europeo, osservazionale e prospettico, esso aveva lo scopo di valutare caratteristiche cliniche, fattori di rischio tromboembolico ed emorragico, gestione della terapia, realtà prescrittiva attuale, aderenza alle linee guida, qualità di vita e soddisfazione del paziente. L’evoluzione delle stesse variabili è stata valutata a distanza di un anno di follow-up e Giulia Renda et al. espongono in questo lavoro i risultati italiani mettendoli a confronto con quelli europei globalmente intesi. Interessante è notare che in Italia esiste ancora una inappropriatezza nella prescrizione dei farmaci antitrombotici sia in termini di sotto-trattamento di pazienti ad elevato rischio tromboembolico sia di sovra-trattamento di pazienti a rischio molto basso. Preoccupante il fatto che vi sia una quota ancora consistente di pazienti trattati con farmaci antiaggreganti piastrinici (20%), in particolare nella FA parossistica e persistente, anche se appare lievemente migliorato rispetto a quello “basale”... ma siamo ancora distanti dalla media europea (15%). E ancora, in Italia gli antagonisti della vitamina K sono sempre la terapia più utilizzata nel periodo dell’analisi (follow-up 2013-2014) in particolare nelle classi di rischio più elevate, con dosaggi dell’INR più frequenti rispetto alle altre realtà europee e conseguente poca soddisfazione al trattamento (possibile causa di scarsa aderenza) e bassa qualità di vita. I nuovi anticoagulanti orali, in questa analisi ancora poco rappresentati, potranno ridurre le difficoltà di gestione dell’anticoagulante orale e migliorare l’aderenza al trattamento? La risposta (forse) dai dati futuri del PREFER in AF Prolongation. • Prescizione di rivaroxaban nel mondo reale: dati dalla “eXperienza” italiana Paolo Colonna e Fabrizio Ammirati, a nome del gruppo italiano eXperience, riportano in questo studio osservazionale retrospettivo le caratteristiche cliniche e di gestione dei pazienti con fibrillazione atriale (FA) non valvolare ai quali viene deciso di prescrivere il rivaroxaban nella pratica clinica del “mondo reale”. L’indagine epidemiologica è stata eseguita con il coinvolgimento di 95 medici specialisti ai quali è stato chiesto di fornire informazioni cliniche (caratteristiche cliniche basali, fattori di rischio per ictus ed emorragia, schema terapeutico utilizzato e patologie concomitanti) sui pazienti adulti consecutivi, e con una diagnosi clinica di FA non valvolare, giunti in valutazione durante il periodo di analisi (gennaio-febbraio 2014) e ai quali era stato prescritto il rivaroxaban come terapia per la prevenzione dell’ictus. Se i risultati dello studio sono confortanti quanto ad analogia di molte delle caratteristiche della popolazione arruolata (1127 pazienti) con quelle del trial registrativo, emergono d’altra parte alcuni dati interessanti riguardanti la distribuzione dei differenti tipi di FA e di pregressi episodi ischemici cerebrali, il controllo della frequenza cardiaca, le ragioni dello switch a rivaroxaban da warfarin e quelle della scelta di dosaggi differenti, la concomitanza con altri trattamenti (es. antiaggreganti piastrinici o farmaci antinfiammatori non steroidei) e l’importanza delle comorbilità. Una fotografia della realtà italiana messa ben a fuoco e utile per capire le ragioni di una scelta prescrittiva meditata. • Cuore e psiche Non si deve guardare solo al fisico, ma anche alla mente. È quello che ci ricordano Alessandra Voltolini et al. ed è quello che dobbiamo tener presente quando ci approcciamo a pazienti con assistenza meccanica al circolo; l’accettazione o adattamento a livello psicologico da parte del paziente passa talora attraverso stress, ansia e demoralizzazione, anche nel lungo periodo. I colloqui con il paziente e con i familiari risultano fondamentali nei diversi “momenti” terapeutici: prima dell’impianto per verificare la candidabilità e regolarmente ogni 3-6 mesi dopo l’impianto per monitorare la qualità di vita nel tempo. • dal particolare al generale Una rara cardiomegalia Bruno De Piccoli et al. ci offrono un caso davvero insolito che parte dall’osservazione, piuttosto aspecifica, di un sovraccarico diastolico biventricolare all’ecocardiogramma. L’esame obiettivo e altre indagini di imaging, quali eco e tomografia computerizzata dell’addome, hanno contribuito ad arrivare alla brillante diagnosi di teleangectasia emorragica ereditaria, nota anche come malattia di Rendu-Osler-Weber e confermata dall’analisi genetica. Gli autori ci ricordano anche i possibili approcci terapeutici, in termini di terapia ponte fino al trapianto di fegato. •