Sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento
del tratto ST ad altissimo rischio in coronaropatia
critica trivasale con indicazione a procedura coronarica
percutanea complessa, complicata da shock cardiogeno:
ruolo e timing dei supporti meccanici al circolo

Giulia Masiero, Andrea Pavei, Chiara Fraccaro, Massimo Napodano, Giuseppe Tarantini

Dipartimento di Scienze Cardiache, Toraciche e Vascolari, Policlinico Universitario, Padova

Cardiogenic shock (CS) following acute myocardial infarction complicated by severe ventricular dysfunction remains the leading cause of death despite customized pharmacological therapy and optimal revascularization. The use of temporary mechanical circulatory support (MCS) devices during refractory CS might represent the only chance of survival to address the underlying systemic inflammatory response preventing the development of multiorgan failure. We report the case of a patient with a very-high-risk non-ST-elevation acute coronary syndrome and multivessel calcific coronary artery disease complicated by refractory CS undergoing complex percutaneous coronary revascularization. We show a gradual and complementary use of MCS devices tailored on hemodynamic monitoring, clinical and laboratory variables and multidisciplinary collaboration to early recognize the downward spiral that may ensue with multiorgan dysfunction or potential complications leading to death.

Key words. Acute coronary syndrome; Cardiogenic shock; Mechanical circulatory support; Percutaneous coronary intervention.

INTRODUZIONE

L’infarto miocardico acuto (IMA) con conseguente disfunzione ventricolare sinistra rappresenta ad oggi la principale causa di shock cardiogeno (SC)1,2. Nonostante i progressi nella terapia medica e riperfusiva, lo SC associato ad IMA e non legato alle sue complicanze meccaniche è gravato da una mortalità a 30 giorni del 40% e ad 1 anno del 50%3,4. Il trattamento convenzionale comprende l’infusione di inotropi/vasopressori e supporti metabolici, associato ad una rivascolarizzazione miocardica il più precoce e completa possibile5. Quando l’instabilità emodinamica è refrattaria a questi trattamenti, i dispositivi di supporto meccanico al circolo (mechanical circulatory support, MCS) di breve termine possono rappresentare la sola possibilità di sopravvivenza5,6. Il trattamento con MCS può interrompere la cascata infiammatoria innescata dalla comparsa di shock e prevenire la progressione di danno d’organo irreversibile e successiva morte7. I dispositivi utilizzati in caso di IMA complicato da SC acuto refrattario comprendono: la contropulsazione aortica (intra-aortic balloon pump, IABP), il sistema di ossigenazione a membrana extracorporea (extracorporeal membrane oxygenation, ECMO) veno-arterioso e i dispositivi Impella (preferibilmente quelli che garantiscono un maggior flusso) (Tabella 1). Nel caso clinico proposto si evidenzia un ricorso progressivo e complementare a tali dispositivi in un paziente affetto da sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST (non-ST-elevation acute coronary syndrome, NSTE-ACS) ad altissimo rischio complicata da SC refrattario, in presenza di una coronaropatia calcifica critica travasale sottoposta a procedura coronarica percutanea (percutaneous coronary intervention, PCI) complessa.




CASO CLINICO

Riportiamo il caso di un uomo di 74 anni, iperteso, dislipidemico, affetto da diabete mellito in insulino-terapia complicato da neuropatia diabetica e nefropatia con insufficienza renale al III stadio, oltre ad una vasculopatia carotidea bilaterale non critica. Il paziente giungeva alla nostra osservazione in seguito alla comparsa di dolore toracico retrosternale oppressivo associato a dispnea improvvisa, ipoteso (pressione arteriosa media [PAM] 60 mmHg), tachipnoico, oligoanurico. All’esame obiettivo: murmure vescicolare ridotto su tutto l’ambito polmonare, crepitii bibasali, toni cardiaci tachicardici con ritmo di galoppo ed edemi declivi improntabili fino al terzo medio della gamba bilateralmente. L’ECG mostrava tachicardia sinusale e blocco di branca sinistra di nuovo riscontro. L’emogasanalisi arteriosa evidenziava un quadro di grave acidosi mista (pH 7.22, pCO2 45.1 mmHg, deficit di basi -8 mmHg, pO2 68 mmHg). Gli esami bioumorali rilevavano un cospicuo aumento della troponina I (3078 ng/l) in presenza di una severa riduzione della funzionalità renale con velocità di filtrazione glomerulare pari a 36 ml/min/m2. Dato il quadro di edema polmonare acuto e shock in atto (classe Killip 4), il paziente veniva ricoverato in terapia intensiva cardiologica e sottoposto a riempimento volemico e terapia diuretica infusiva, supporto farmacologico infusivo con dobutamina e noradrenalina, oltre a ventilazione non invasiva con pressione positiva continua delle vie aeree. Nel quadro di NSTE-ACS a rischio altissimo, in seguito alla somministrazione di eparina sodica e duplice terapia antiaggregante piastrinica con aspirina e ticagrelor, il paziente veniva condotto in sala di emodinamica per coronarografia urgente8. Previo reperimento di accesso arterioso femorale bilaterale, si eseguiva angiografia dell’asse iliaco-femorale con evidenza di ateromasia calcifica diffusa di grado non critico e si procedeva al posizionamento di IABP in modalità di contropulsazione 1:1. La successiva coronarografia mostrava una coronaropatia critica calcifica trivasale diffusa con stenosi critica del tronco comune distale, occlusione al tratto medio della coronaria circonflessa non dominante e stenosi subocclusive calcifiche a carico del tratto medio della coronaria discendente anteriore (DA), di sviluppato ramo diagonale e del tratto distale dei rami postero-laterale e discendente posteriore della coronaria destra (Figura 1). Veniva inizialmente eseguito tentativo inefficace di PCI su ramo DA per mancata progressione di palloni di piccolo calibro al tratto medio del vaso. La procedura si complicava con comparsa di ipotensione marcata e bradicardia spiccata fino all’arresto cardiaco da attività elettrica senza polso. Mediante supporto anestesiologico, si procedeva alle manovre rianimatorie, all’intubazione del paziente, al reperimento di un accesso venoso centrale e al posizionamento di pacemaker transvenoso. Nonostante il ripristino della circolazione spontanea e l’introduzione di terapia infusiva con adrenalina, il paziente si manteneva ipoteso, tachicardico, anurico in un quadro di acidosi mista scarsamente compensata con pH pari a 7.2. Il caso veniva valutato con il collega cardiochirurgo e, dato il quadro di SC refrattario e la necessità di procedere con PCI complessa urgente, si procedeva alla rimozione dell’IABP con inserimento di ECMO artero-venoso femorale destro5. Previa aterectomia rotazionale con burr 1.5 mm, veniva quindi eseguita angioplastica con palloni non complianti di calibro crescente e posizionamento di triplice stent medicato in overlap su tronco comune e DA prossimale media e al tratto distale di DA, con sovradistensione finale. Al controllo angiografico era evidente un buon risultato su tutte le lesioni trattate (Figura 1). Al termine della procedura il paziente veniva riportato in terapia intensiva sedato, intubato per via oro-tracheale e ventilato in modalità volume-controllato con discreti scambi emogasanalitici (pH 7.36, pCO2 32 mmHg), emodinamicamente supportato con inotropi, vasopressori in infusione ed ECMO con portata pari a 3.5 l/min, raggiungendo una PAM di 65 mmHg, con diuresi stimolata da diuretico in infusione. L’ecocardiogramma transtoracico mostrava un ventricolo sinistro moderatamente dilatato, severa depressione della funzione di pompa (frazione di eiezione 20%) per acinesia in toto della parete anteriore e del setto, con insufficienza mitralica funzionale severa per tethering dei lembi ed insufficienza aortica lieve (Figura 2). Nelle ore successive, si assisteva ad un progressivo deterioramento clinico, laboratoristico ed emodinamico del paziente con peggioramento degli scambi gassosi (pH 7.29, pCO2 40 mmHg), rialzo dei lattati oltre i 2 mmol/l, aumento della pressione venosa centrale, riduzione della PAM (55 mmHg) e della diuresi oraria. Alla radiografia del torace era evidente un severo quadro di congestione polmonare. Si rilevavano inoltre iniziali segni clinici di ipoperfusione dell’arto inferiore destro, sede delle cannule ECMO. In seguito alla rivalutazione del quadro in Heart Team, il paziente veniva nuovamente condotto in sala di emodinamica per il posizionamento percutaneo, da via arteriosa femorale sinistra, sotto guida fluoroscopica, di catetere Impella CP (Abiomed Inc.) ottenendo un flusso pari a 2.9 l/min. Veniva infine posizionata per via percutanea una cannula anterograda in arteria femorale destra per migliorare la perfusione dell’arto inferiore destro. All’ecocardiogramma di controllo, il ventricolo sinistro, pur mantenendo una severa depressione della funzione sistolica, mostrava una minor dilatazione ed una riduzione del grado di rigurgito mitralico (Figura 2). Consensualmente, miglioravano gli scambi emogasanalitici (pH 7.46, pCO2 22 mmHg), aumentava la PAM oltre i 65 mmHg, si riducevano i valori di pressione venosa centrale e di lattati ematici ed infine la diuresi oraria si assestava su valori di 80-100 ml/h. In seconda giornata di degenza tuttavia, si assisteva ad un nuovo episodio di instabilità emodinamica con progressivo instaurarsi di ipotensione, peggioramento degli scambi gassosi, aumento dei lattati e comparsa di severa anemizzazione. In sede di accesso vascolare destro, dove in precedenza erano state posizionate per via artero-venosa le cannule ECMO, si rilevava la comparsa di vasto ematoma sottoposto inizialmente a tentativo di compressione manuale ed infusione sottocutanea di adrenalina e acido tranexamico. Nonostante il riempimento volemico (con fluidi ed emazie concentrate) e il supporto farmacologico intensivo, si instaurava uno shock emorragico acuto complicato da attività elettrica senza polso, sottoposto in urgenza al letto del paziente a tentativo inefficace di riparazione chirurgica della breccia arteriosa, e complicato da exitus finale.




DISCUSSIONE

Lo SC si configura come una complessa sindrome da disfunzione multiorgano derivante da ipoperfusione tissutale secondaria ad una ridotta portata cardiaca in presenza di un adeguato volume intravascolare, spesso complicata da una sindrome da risposta infiammatoria sistemica e sepsi.

La causa più comune di SC rimane ad oggi l’IMA, che è all’origine dell’80% circa di tutti i casi. Nonostante i progressi della terapia di rivascolarizzazione miocardica e il ricorso sistematico ad una terapia farmacologica intensiva, lo SC rimane la principale causa di morte nei pazienti con sindrome coronarica acuta, con un tasso di mortalità ancora estremamente elevato, principalmente dovuto all’instaurarsi di disfunzione multiorgano irreversibile9. Il riconoscimento precoce, la corretta individuazione del profilo clinico ed emodinamico e il ricorso a terapie avanzate, quali i dispositivi di MCS, possono rappresentare, in pazienti selezionati, un’opportunità aggiuntiva per cercare di interrompere la cascata fisiopatologica dello shock5,6. La prevenzione di un’irreversibile disfunzione d’organo è correlata a tre fattori critici: 1) il timing ottimale del MCS (inizio precoce); 2) la corretta scelta del dispositivo di MCS per realizzare un livello ottimale di supporto cardiocircolatorio con ripristino di un’adeguata perfusione di organi ed apparati, che consenta inoltre l’esecuzione in sicurezza delle procedure di rivascolarizzazione; 3) la prevenzione e la gestione delle potenziali complicanze correlate al dispositivo (es. malfunzionamento, complicanze vascolari ed infezione)5,6. Nonostante la mancanza di trial randomizzati che evidenzino il beneficio in termini di mortalità legato all’utilizzo di MCS, le attuali linee guida ritengono ragionevole l’utilizzo di un MCS nei pazienti con SC refrattario alla terapia medica. Una recente analisi americana ha infatti evidenziato un drammatico incremento dell’utilizzo dei MCS percutanei dal 2007 al 2011, con una consensuale riduzione del tasso di mortalità intraospedaliera e dei costi10. Con modalità ed efficacia differenti a seconda del dispositivo utilizzato, i MCS riducono precarico, postcarico e consumo miocardico di ossigeno, al fine di garantire un’adeguata perfusione tissutale, finalizzata ad evitare la disfunzione multiorgano, e permettere il passaggio ad un recupero funzionale del cuore o ad un dispositivo di supporto di lungo termine. I device percutanei attualmente disponibili sono l’IABP, i dispositivi Impella ed i sistemi ECMO11.

L’IABP è un presidio che consente di migliorare la perfusione coronarica e di ridurre i volumi e il lavoro cardiaco, aumentando la PAM, diminuendo la pressione telediastolica ventricolare sinistra e, in ultima istanza, favorendo la gittata sistemica del ventricolo sinistro e la perfusione coronarica. Tale dispositivo è controindicato nei pazienti con insufficienza aortica significativa e dissezione aortica, mentre la vasculopatia periferica rappresenta una controindicazione relativa. Lo studio randomizzato multicentrico IABP-SHOCK II pubblicato nel 2012 è ad oggi il trial più ampio sull’utilizzo dell’IABP nei pazienti affetti da IMA complicato da SC3,4. Pur presentando notevoli limitazioni (quali l’esclusione di un numero cospicuo di pazienti dall’analisi finale, l’elevato numero di crossover tra gruppi, la mancanza di dati emodinamici, la mancanza di un timing standardizzato di posizionamento del dispositivo), lo studio non ha evidenziato alcun beneficio dell’aggiunta dell’IABP alla terapia standard in termini di mortalità a breve e medio termine. Alla luce di tale evidenza, le attuali linee guida europee hanno sancito il downgrading dell’utilizzo routinario di tale dispositivo nei pazienti con SC dalla classe IC alla classe III5. Considerata tuttavia la bassa incidenza di complicanze, l’ampia disponibilità in numerosi centri cardiologici, il rapido posizionamento e i seppur modesti effetti emodinamici, l’IABP può ancora essere considerato come presidio iniziale nei pazienti affetti da sindrome coronarica acuta complicata da SC, preferibilmente da complicanza meccanica12.

Il sistema Impella (Abiomed Inc.) comprende una famiglia di dispositivi costituiti da una pompa microassiale contenuta all’interno di un catetere pigtail. Viene posizionato a cavallo della valvola aortica per permettere all’estremità distale del catetere all’interno del ventricolo sinistro di aspirare sangue che sarà riversato in aorta ascendente, provvedendo allo svuotamento della cavità ventricolare sinistra, riducendo il lavoro ventricolare e garantendo fino ad un massimo di 5 l/min di flusso in relazione al tipo di dispositivo impiegato. L’Impella 2.5 e l’Impella CP sono posizionati per via percutanea e garantiscono rispettivamente 2.5 l/min e 3.7-4 l/min di flusso stimato. L’Impella 5.0 richiede invece l’isolamento chirurgico dell’arteria per il posizionamento del catetere che garantisce fino a 5 l/min di flusso stimato. L’utilizzo di tali dispositivi non è condizionato dalla frequenza cardiaca o dalla funzione contrattile residua del ventricolo sinistro ed è esclusivamente limitato dalla presenza di trombosi ventricolare sinistra, valvole aortiche meccaniche, stenosi aortiche serrate, severa insufficienza aortica, vasculopatia periferica avanzata, severa disfunzione ventricolare destra e difetti interventricolari. Le evidenze attuali hanno documentato la superiorità del supporto emodinamico fornito da tale dispositivo rispetto all’IABP nel contesto dell’IMA complicato da SC, senza tuttavia dimostrare un beneficio in termini di mortalità, verosimilmente per le ridotte dimensioni delle popolazioni di studio, la selezione dei pazienti e il timing di posizionamento del dispositivo13,14. Una recente metanalisi ha infatti verificato come l’impianto precoce dei cateteri Impella 2.5 in presenza di SC correlato ad IMA riduca del 48% la mortalità a 30 giorni se confrontato con l’utilizzo tardivo del dispositivo15. Questi risultati sono in linea con i modelli pre-clinici animali nei quali un inizio molto precoce del supporto emodinamico mediante tale dispositivo garantisce un efficace unloading ventricolare, mantenendo un’adeguata portata sistemica e perfusione coronarica, prevenendo l’instaurarsi della spirale negativa dell’ipoperfusione sistemica fino alla disfunzione multiorgano15. L’Impella inoltre ha un ruolo in tale contesto anche in combinazione con l’ECMO veno-arterioso per garantire un corretto unloading del ventricolo sinistro16.

Il sistema di supporto circolatorio ECMO veno-arterioso, posizionato sia per via percutanea che con isolamento chirurgico del vaso, è in grado di fornire un supporto circolatorio totale, garantendo fino a 4.5-7 l/min di portata sistemica a spese di un cospicuo aumento del postcarico ventricolare. Il flusso aortico avviene infatti principalmente per via retrograda ed è pertanto necessario favorire farmacologicamente la funzione contrattile del ventricolo sinistro. In presenza di distensione ventricolare sinistra, “smoke effect” endoventricolare ecografico, sporadica apertura della valvola aortica, emogasanalisi arteriosa scadente con concomitante peggioramento del quadro congestizio polmonare, aumentare i flussi dell’ECMO aumenterebbe ulteriormente il postcarico ventricolare e il consumo miocardico di ossigeno. In associazione ad adeguata terapia farmacologica, è opportuno quindi considerare lo scarico ventricolare sinistro mediante posizionamento chirurgico di un sistema di decompressione del ventricolo sinistro (“vent”) o il concomitante uso di un IABP o meglio ancora di un Impella17. Allo stato attuale non esistono studi randomizzati di confronto tra ECMO e altre terapie di supporto circolatorio. Una recente analisi propensity-matched svolta nel contesto dello SC conseguente ad IMA ha dimostrato un miglioramento del 33% del tasso di sopravvivenza a 30 giorni in caso di utilizzo di ECMO nei confronti del ricorso a IABP, senza riconoscere tuttavia alcun beneficio rispetto all’utilizzo di sistemi Impella14. Studi di registro hanno inoltre evidenziato come l’ECMO sia il dispositivo di scelta in caso di SC severo, mentre l’Impella venga preferito in caso di un minor grado di compromissione emodinamica, riservando l’utilizzo combinato di entrambe le tecniche ai casi in cui sia necessario superare le limitazioni specifiche di ciascun dispositivo18.

Nel caso descritto, il trattamento del paziente affetto da SC in corso di NSTE-ACS ad alto rischio, si è avvalso di un approccio multiparametrico comprensivo di variabili cliniche, laboratoristiche ed emodinamiche, al fine di intraprendere scelte terapeutiche tempestive per garantire un’adeguata perfusione d’organo19,20. Sono stati costantemente impiegati strumenti di monitoraggio emodinamico invasivo, continui controlli dei parametri bioumorali e valutazioni strumentali non invasive quali l’ecocardiografia. Il perseguimento della stabilizzazione clinica è stato ricercato ancor prima dell’invio del paziente in emodinamica al fine di garantire una rivascolarizzazione miocardica sicura ed efficace. Il paziente è stato quindi inizialmente trattato con fluido-terapia, farmaci vasopressori e inotropi come indicato dalle ultime linee guida 2016 sul trattamento dei pazienti con SC acuto che raccomandano come farmaco vasopressore di prima scelta la noradrenalina e come inotropo di prima scelta la dobutamina5. Inotropi e vasopressori sono funzionali ad aumentare la perfusione coronarica e ridurre i volumi ventricolari senza un eccessivo aumento della frequenza cardiaca; in caso contrario l’aumento del lavoro cardiaco rappresenta un ulteriore danno in un contesto ischemico, consigliando l’utilizzo dell’IABP. Nel caso descritto, infatti, il posizionamento dell’IABP è stato precoce e ha preceduto la procedura di rivascolarizzazione, in quanto la stabilizzazione emodinamica del paziente rappresenta l’obiettivo prioritario da perseguire, soprattutto di fronte alla necessità di eseguire una PCI complessa. Il realizzarsi di un severo quadro di compromissione emodinamica ha successivamente richiesto un upgrade dell’assistenza emodinamica con il posizionamento di un sistema ECMO per assicurare il supporto circolatorio necessario al completamento della procedura di PCI. Il mancato conseguimento dei parametri clinico-laboratoristici indicativi di un’adeguata perfusione d’organo (PAM >65 mmHg, frequenza cardiaca <110 b/min, lattati <2 mmol/l, SvO2/SvcO2 >65-70%, pH >7.3 o <7.5, pressione venosa centrale <12 mmHg, diuresi oraria ≥1 ml/kg/h) in presenza di distensione ventricolare sinistra e peggioramento del quadro di congestione polmonare, è stato correttamente interpretato come un segnale precoce di nuova destabilizzazione emodinamica che è stata prontamente affrontata ricorrendo ad un sistema di unloading ventricolare quale l’Impella. Il timing e la scelta del dispositivo adeguato allo stato clinico del paziente sono stati garantiti dalla collaborazione di un team multidisciplinare comprensivo del cardiologo clinico, dell’emodinamista e del cardiochirurgo, essenziale non solo per evitare pericolosi ritardi ma anche per riconoscere e trattare tempestivamente possibili complicanze legate al dispositivo stesso che potrebbero determinare l’exitus7,20. Nel caso descritto, proprio il verificarsi di una complicanza vascolare in sede di accesso femorale di MCS, pur se riscontrata e affrontata precocemente, ha determinato il decesso del paziente. Una recente metanalisi ha infatti dimostrato come l’utilizzo dell’ECMO veno-arterioso a seguito di un SC o di un arresto cardiaco, pur potenzialmente apportando benefici in termini di sopravvivenza, sia gravata da un elevato numero di complicanze quali sanguinamenti, anche mortali, nel 41% dei casi21.

In conclusione, il caso clinico proposto ha illustrato un ricorso progressivo e complementare di MCS, secondario ad una SCA complicata da SC acuto refrattario in presenza di una severa coronaropatia calcifica trivasale. Concetto cardine è stato il perseguimento della stabilizzazione emodinamica del paziente volta ad essere la più precoce ed efficace possibile, indispensabile per poter eseguire la PCI complessa nelle condizioni più favorevoli. La scelta e il timing del dispositivo di supporto al circolo sono dipesi da una valutazione multiparametrica supportata dalla collaborazione di un team multidisciplinare con l’obiettivo di riconoscere nel più breve tempo possibile i segnali del mancato raggiungimento di un’adeguata perfusione d’organo e di eventuali complicanze.

RIASSUNTO

Lo shock cardiogeno (SC) secondario ad infarto miocardico acuto con conseguente disfunzione ventricolare sinistra è una condizione gravata da tassi di mortalità molto elevati nonostante il ricorso a supporti farmacologici e metabolici, associato ad una rivascolarizzazione miocardica il più precoce e completa possibile. I dispositivi di supporto meccanico al circolo (MCS) di breve termine possono rappresentare la sola possibilità di sopravvivenza in caso di instabilità emodinamica refrattaria ad una terapia medica e riperfusiva ottimale al fine di interrompere la cascata infiammatoria innescata dalla comparsa di SC e prevenire la progressione di danno d’organo irreversibile. Proponiamo il caso clinico di un paziente affetto da sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST ad altissimo rischio complicata da SC refrattario, in presenza di una coronaropatia calcifica critica travasale sottoposta a procedura coronarica percutanea complessa. Abbiamo illustrato un ricorso progressivo e complementare dei dispositivi di MCS supportato da un approccio multiparametrico comprensivo di variabili cliniche, laboratoristiche ed emodinamiche e dalla collaborazione di un team multidisciplinare, con l’obiettivo di riconoscere nel più breve tempo possibile i segnali del mancato raggiungimento di un’adeguata perfusione d’organo e di eventuali complicanze.

Parole chiave. Procedura coronarica percutanea; Shock cardiogeno; Sindrome coronarica acuta; Supporto meccanico al circolo.

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