La fase della riabilitazione

Roberto F.E. Pedretti

U.O. Cardiologia Riabilitativa, Dipartimento di Cardioangiologia Riabilitativa, Istituti Clinici Scientifici Maugeri, IRCCS, Istituto di Pavia

Preventive Cardiology and Cardiac Rehabilitation (CR) is the specialty of clinical cardiology dedicated to the care of post-acute and chronic heart disease patients. The goals are to improve quality of life and prognosis, clinical stability, optimization of pharmacological and non-pharmacologic therapy, management of comorbidities, treatment of disabilities, reinforcement of secondary prevention interventions and adherence to therapy. The global mandate of CR has changed over time. From the acute intervention, we moved on to the care in the medium and long-term period.

Despite its clear benefits and guideline recommendations, CR is still not fully considered within the cardiovascular landscape. Furthermore, the importance of CR at the clinical level and of the “health” gain of CR is little known by the beneficiaries themselves, i.e. patients on one side and the health system on the other. The main criticism is the low referral rate of cardiac patients to CR programs. In Italy, in Europe and in the USA it appears to be <30%. The challenge for CR is to work on the changes induced by epidemiology and the healthcare system needs. CR inpatient wards must be increasingly available and organized to acquire complex patients, often elderly and frail, up to the development of sub-intensive rehabilitation therapy units; in Italy, it is also necessary to develop outpatient pathways for patients of moderate-low complexity, in order to increase the referral rate to CR. Finally, integrating CR programs with long-term follow-up pathways of cardiac patients is a very important task, fully entering in the areas of e-Health and m-Health.

Key words. Cardiac rehabilitation; Secondary cardiovascular prevention.

CARDIOLOGIA RIABILITATIVA E PREVENTIVA: LA SITUAZIONE ATTUALE

La Cardiologia Preventiva e Riabilitativa (CPR) costituisce la specialità della cardiologia clinica dedicata alla cura del paziente cardiopatico cosiddetto post-acuto e cronico, il cui obiettivo è quello di migliorarne la qualità di vita e la prognosi mediante la prosecuzione della stratificazione prognostica, la stabilizzazione clinica, l’ottimizzazione della terapia farmacologica e non, la gestione delle comorbilità, il trattamento delle disabilità, la prosecuzione e il rinforzo degli interventi di prevenzione secondaria e il mantenimento dell’aderenza alla terapia1,2.

Il mandato globale della CPR si è modificato nel tempo. Dall’intervento in acuto, si è passati alla sfida assistenziale di garantire continuità e qualità di cura a medio e lungo termine.

La CPR (o i suoi elementi costitutivi) continuano a trovare indicazione dopo sindrome coronarica acuta, con raccomandazione di classe I, dopo interventi di cardiochirurgia coronarica e valvolare, e nello scompenso cardiaco post-acuto e cronico3-6. Non trovano indicazione ad un programma di CPR solo quei pazienti che presentino una modesta probabilità di recupero funzionale, quali i pazienti con importante disabilità motoria o dello stato cognitivo preesistente all’evento acuto o i soggetti con breve aspettativa di vita.

La fotografia 2013 della CPR in Italia evidenziava 221 strutture dedicate, in continuo incremento da oltre 30 anni, con una distribuzione regionale ancora non omogenea, ma con la media di una struttura ogni 270 000 abitanti. Il network appariva, sia pure in minor misura rispetto alle survey precedenti, ancora molto sbilanciato verso un’offerta prevalentemente degenziale, talora anche ad alta complessità organizzativa. Infatti, l’11% dei posti letto venivano descritti come dotati di un’organizzazione sub-intensiva7.

La CPR, nonostante la sua storia pluridecennale e l’aver dimostrato negli anni grande vitalità sul piano sia culturale che operativo, continua ad essere non adeguatamente considerata all’interno del panorama cardiologico. Inoltre, l’importanza della CPR sul piano clinico e dei risultati “di salute” che essa fornisce è poco conosciuta dagli stessi beneficiari, cioè i pazienti da un lato e il sistema sanitario dall’altro. Continua probabilmente ad esistere una certa pregiudiziale nei confronti della CPR basata su equivoci di fondo: forse si pensa che la prevenzione sia qualcosa che tutti gli operatori sanitari già conoscano e realizzino al meglio e che la riabilitazione null’altro sia che attività fisica, poco diversa da quella che si può eseguire in una palestra, forse con una maggior supervisione sanitaria. Per quanto riguarda il sistema sanitario continua a persistere una visione di associazione stretta tra riabilitazione e fisioterapia, visione mutuata dalla riabilitazione neuromotoria, probabilmente ormai non più adeguata nemmeno per quest’ultima e traslata sic et simpliciter anche alla CPR e a quella respiratoria. Quanto sopra pare persistere nonostante innumerevoli documenti di consenso sviluppati dalle diverse Società Scientifiche che, tra loro aggregate sul piano culturale, mostrano una “base” assai più lontana rispetto alle loro indicazioni.

MULTIDISCIPLINARIETÀ ED EFFICACIA

Il primo punto da sottolineare è che la CPR non coincide con la sola prescrizione e svolgimento di un programma di training fisico, dove peraltro tuttora persistono problemi nella corretta prescrizione e declinazione dello stesso8,9; al contrario i programmi di CPR sono costituiti da un intervento multidisciplinare, diretto da un cardiologo e alla cui realizzazione collaborano ulteriori professionisti quali l’infermiere, il fisioterapista, lo psicologo e il dietista1,10. A questi possono aggiungersi ulteriori professionalità quali l’assistente sociale e i diversi specialisti medici per la gestione ottimale delle comorbilità, sempre più comuni oggi nei pazienti avviati a programmi di CPR.

Quanto sopra può essere realizzato sia in regime degenziale che in contesto ambulatoriale, sulla scorta delle necessità dei pazienti. In qualunque contesto venga declinata, la CPR non può prescindere dal continuare a erogare i propri contenuti fondamentali, ovvero una valutazione complessiva centrata sui bisogni e sugli obiettivi del paziente, un intervento di stabilizzazione clinica e di ottimizzazione della terapia, una prescrizione e implementazione di attività fisica, un supporto educazionale sui fattori di rischio legati allo stile di vita e sul disagio socio-emotivo, un counseling specifico (anche mirato all’aderenza terapeutica) e infine una valutazione periodica degli outcome1,2.

L’efficacia della CPR non è in discussione, dal momento che lo svolgimento di un programma di CPR costituisce una raccomandazione di classe I da parte delle linee guida. A supporto di tale concetto menzioniamo qui solo i risultati di due recenti studi italiani, l’uno condotto nel contesto clinico riabilitativo ambulatoriale e relativo a pazienti con cardiopatia ischemica e l’altro basato sull’analisi di dati amministrativi, condotto nel contesto clinico riabilitativo degenziale in pazienti con scompenso cardiaco11,12.

Doimo et al.11 hanno mostrato come in pazienti affetti da cardiopatia ischemica (sindrome coronarica acuta, intervento chirurgico di rivascolarizzazione miocardica, angioplastica coronarica), 839 con e 441 senza un programma di CPR, la CPR durante un follow-up mediano di 82 mesi riduca significativamente la mortalità per ogni causa a lungo termine (10 vs 19%, p=0.002), la mortalità cardiovascolare (2 vs 7%, p=0.008) e le ospedalizzazioni (11 vs 25%, p<0.001).

In una coorte di 140 552 pazienti ricoverati presso gli ospedali per acuti della Regione Lombardia per un episodio incidente di scompenso cardiaco, il 29% (n = 39 709) alla dimissione dall’ospedale per acuti ha avuto poi ≥1 accesso presso un reparto degenziale di Cardiologia Riabilitativa a differenza del restante 81% (n = 100 843) che non ha mai svolto alcun programma di CPR degenziale12. I pazienti ammessi in CPR apparivano significativamente più gravi, come dimostrato dal fatto che presentassero un numero significativamente più elevato di comorbilità (p<0.001) e il primo accesso in un reparto di CPR fosse preceduto nella storia clinica da ben 3.26±1.78 ospedalizzazioni in acuto12. Nonostante il profilo di maggior rischio, all’analisi multivariata l’accesso ad un reparto di CPR condizionava una significativa riduzione della mortalità per ogni causa (hazard ratio [HR] 0.577, p=0.01) e della probabilità di riospedalizzazione per ogni causa (HR 0.799, p=0.01) in un follow-up a lungo termine interessante la finestra temporale degli anni 2005-201212.

Un accenno inoltre al tema dell’aderenza alla terapia farmacologica e ad un corretto stile di vita.

L’aderenza al trattamento medico è la chiave del successo nella quasi totalità delle condizioni croniche, in special modo nelle malattie cardiovascolari ove gioca un ruolo determinante. L’aderenza viene definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come il comportamento di un soggetto/paziente, in termini di assunzione di farmaci, osservanza di una dieta, di un particolare stile di vita che corrisponde alle raccomandazioni concordate con un professionista sanitario13. I fattori alla base della scarsa aderenza sono molteplici e possono essere divisi in quelli correlati al paziente, al medico prescrittore, al sistema sanitario ed infine, all’ambiente. La dimensione del problema è ben descritta da una metanalisi eseguita su 20 studi coinvolgenti oltre 370 000 pazienti, che ha osservato come l’aderenza alla terapia farmacologica per i farmaci cardiovascolari sia solo del 57% (intervallo di confidenza [IC] 95% 50-64) dopo una mediana di 24 mesi dalla prescrizione, sebbene vi sia una maggiore aderenza nella prevenzione secondaria (66%; IC 95% 56-75) rispetto alla prevenzione primaria (50%; IC 95% 45-56)14. È stato calcolato che la scarsa aderenza alla terapia si traduce in circa 200 000 morti all’anno in Europa e si stimano costi di circa 125 miliardi di euro/anno nel vecchio Continente e 300 miliardi di dollari/anno negli Stati Uniti15,16.

Un consistente contributo al raggiungimento e al mantenimento dell’aderenza, intesa nel senso più ampio e completo del termine, può essere offerto dai programmi di CPR, non a caso definita come l’unione di tutti gli interventi richiesti per garantire il miglioramento fisico, psicologico e sociale dei pazienti con malattia cronica o successivamente ad un evento acuto cardiovascolare. In un’importante metanalisi, Anderson et al.17 hanno valutato 14 486 pazienti in 63 studi, con un follow-up mediano di 12 mesi, dimostrando come i programmi di CPR possano ridurre la mortalità cardiovascolare e le ospedalizzazioni migliorando, inoltre, la qualità di vita dei pazienti.

CRITICITÀ E PROSPETTIVE

La principale criticità è rappresentata dal basso “referral rate” dei pazienti cardiopatici ai programmi di CPR. Il dato, stimato nella realtà nazionale, non pare >30%7. Tale problematica non è solo italiana, ma deve trovare una soluzione sia attraverso una corretta applicazione nella pratica clinica quotidiana del concetto di “appropriatezza organizzativa”, basato sulla scelta del contesto clinico (CPR degenziale, CPR ambulatoriale, invio diretto al territorio) più adatto sulla scorta della stratificazione prognostica e dei bisogni del paziente, sia attraverso la trasmissione da parte della CPR della cultura della prevenzione e della riabilitazione al di fuori del proprio perimetro. Circa quest’ultimo punto, i dati del Registro BLITZ-4 dimostrano come sia ampiamente insufficiente lo svolgimento nei reparti per acuti di momenti di counseling sui diversi temi della prevenzione secondaria18.

La CPR, la cui efficacia è già stata ben dimostrata, deve però accettare pienamente la sfida imposta dall’epidemiologia e dal sistema sanitario. I reparti di degenza devono essere sempre più disponibili e organizzati per acquisire pazienti complessi, spesso anziani e fragili, sino allo sviluppo di unità di terapia sub-intensiva riabilitativa; è necessario parallelamente sviluppare e incentivare percorsi ambulatoriali per i pazienti di complessità moderato-bassa, anche per aumentare il “referral rate” alla CPR ed evitare che il paziente oggi a basso rischio diventi domani un soggetto ad alto rischio. Naturalmente quanto sopra non può realizzarsi in assenza di un’adeguata sensibilità da parte dell’interlocutore istituzionale.

La CPR deve infine presidiare il percorso della continuità assistenziale, inserendosi ed integrandosi al meglio con i percorsi di follow-up a lungo termine dei pazienti cardiopatici19, muovendosi inoltre nell’ottica della “medicina individualizzata” e “di precisione”, inserendosi nei settori dell’e-Health e m-Health. Le esperienze aneddotiche di telemedicina censite da ISYDE.13-Directory è importante si sviluppino e diventino modalità di cura complementari a quelle tradizionali. Per questo, è importante che ci si avvicini e familiarizzi sempre più con termini come biomarcatori, genetica, epigenetica, intelligenza artificiale.

RIASSUNTO

La Cardiologia Preventiva e Riabilitativa (CPR) costituisce la specialità della cardiologia clinica dedicata alla cura del paziente cardiopatico cosiddetto post-acuto e cronico, il cui obiettivo è quello di migliorarne la qualità di vita e la prognosi mediante la prosecuzione della stratificazione prognostica, la stabilizzazione clinica, l’ottimizzazione della terapia farmacologica e non, la gestione delle comorbilità, il trattamento delle disabilità, la prosecuzione e il rinforzo degli interventi di prevenzione secondaria e il mantenimento dell’aderenza alla terapia. Il mandato globale della CPR si è modificato nel tempo. Dall’intervento in acuto, si è passati alla sfida assistenziale di garantire continuità e qualità di cura a medio e lungo termine.

La CPR, nonostante la sua storia pluridecennale e l’aver dimostrato negli anni grande vitalità sul piano sia culturale che operativo, continua ad essere non adeguatamente considerata all’interno del panorama cardiologico. Inoltre, l’importanza della CPR sul piano clinico e dei risultati “di salute” che essa fornisce è poco conosciuta dagli stessi beneficiari, cioè i pazienti da un lato e il sistema sanitario dall’altro. La principale criticità è rappresentata dal basso “referral rate” dei pazienti cardiopatici ai programmi di CPR. Il dato, stimato nella realtà nazionale, non pare >30%. La CPR, la cui efficacia è già stata ben dimostrata, deve però accettare pienamente la sfida imposta dall’epidemiologia e dal sistema sanitario. I reparti di degenza devono essere sempre più disponibili e organizzati per acquisire pazienti complessi, spesso anziani e fragili, sino allo sviluppo di unità di terapia sub-intensiva riabilitativa; è necessario parallelamente sviluppare e incentivare percorsi ambulatoriali per i pazienti di complessità moderato-bassa, anche per aumentare il “referral rate” alla CPR. La CPR deve infine presidiare il percorso della continuità assistenziale, inserendosi ed integrandosi al meglio con i percorsi di follow-up a lungo termine dei pazienti cardiopatici, muovendosi inoltre nell’ottica della “medicina individualizzata” e “di precisione”, inserendosi nei settori dell’e-Health e m-Health.

Parole chiave. Cardiologia riabilitativa; Prevenzione cardiovascolare secondaria.

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