Conclusioni

La sequenza delle diverse relazioni può essere sintetizzata da una serie di affermazioni.

1. L’organizzazione è muscolo. Da oltre 30 anni, già dai tempi del GISSI 1, è stato dimostrato che più è rapido un intervento riperfusivo, minore è la mortalità intraospedaliera e a medio-lungo termine. Con l’avvento della terapia di rivascolarizzazione percutanea, un’organizzazione tempestiva e mirata del trasporto dell’ammalato direttamente in sala di emodinamica è la chiave strategica per salvare muscolo cardiaco. Rimane aperto il problema del numero ancora rilevante di pazienti che non ricorrono al 118.

2. Il dolore toracico merita sempre attenzione. Anche se in una percentuale rilevante di casi il dolore toracico non risulta dovuto ad insufficienza coronarica, nessun tipo di dolore toracico ha un livello di rischio così basso da non giustificare accertamenti specifici. In questo senso, l’istituzione di un Chest Pain Team in ogni struttura ospedaliera potrebbe rappresentare la formula organizzativa più efficace dal punto di vista clinico ed economico.

3. La prognosi è migliorata negli anni. I flussi amministrativi regionali dimostrano una riduzione della mortalità intraospedaliera per tutte le cause dal 2009 (6.5%) al 2015 (5.2%). Il sistema sanitario dà prove di buon funzionamento ma si può fare di più prima e dopo il ricovero in ospedale.

4. I farmaci per la prevenzione secondaria servono soprattutto a chi li assume. Emerge ancora una volta come una buona aderenza alle terapie, in questo caso di prevenzione secondaria, si associ in maniera chiara a una riduzione degli eventi nel corso del follow-up.

5. Riabilitazione cardiovascolare oggi significa soprattutto prevenzione secondaria. Non si tratta di pianificare solo un programma di riabilitazione fisica, ma di condividere con il paziente tutte le modalità terapeutiche basate sull’evidenza, utili a ridurre le recidive ischemiche nel corso del follow-up. La comprensione e la condivisione delle strategie terapeutiche nel loro insieme sono la base per un’adeguata aderenza alle raccomandazioni.

6. La riabilitazione serve a chi la fa. Sia gli studi clinici controllati che i dati osservazionali di “real world” documentano che la prognosi dei soggetti che sono avviati a un programma di riabilitazione è significativamente migliore di chi non è avviato a tali programmi. Il problema vero rimane quindi la possibilità di accesso ai programmi strutturati di riabilitazione. Una percentuale ancora modesta di soggetti reduci da un episodio di sindrome coronarica acuta viene avviata a un programma di riabilitazione sia in regime di ospedalizzazione che ambulatoriale.

7. Il paziente coronarico è sempre più anziano e non presenta quasi mai una sola patologia. L’età media dei pazienti con sindrome coronarica acuta è sempre più avanzata e le comorbilità sono la regola. Questo andamento epidemiologico necessita di un approccio multidisciplinare, dove la componente cardiologica non può essere che solo una parte. La continuità terapeutica tra ospedale e territorio vede una posizione centrale nel medico di medicina generale, il cui ruolo può garantire la continuità delle cure, la possibilità concreta di effettuare un monitoraggio continuo del paziente, attuare l’integrazione tra le varie figure socio-sanitarie, supportare l’empowerment e il self-management del paziente.

8. Come integrare i differenti livelli di cura e gli attori coinvolti. Il modello lombardo per gestire la cronicità può essere considerato uno dei primi e concreti tentativi di attuazione del Piano Nazionale della Cronicità. Un confronto, pianificato in maniera metodologicamente solida, fra modelli attuati nel concreto in altre regioni italiane potrebbe aiutare a comprendere, in maniera scientificamente corretta, quali siano le migliori strategie per attuare il Piano Nazionale della Cronicità su tutto il territorio nazionale.

Il quadro generale è quello di un sistema sanitario lombardo ben strutturato per gestire le emergenze dovute alle sindromi coronariche acute. Ci sono ancora alcuni aspetti rilevanti da affrontare:

– l’organizzazione del trasporto del paziente là dove può ricevere le cure migliori funziona in maniera più che adeguata, ma sono ancora troppo numerosi i pazienti che non utilizzano i servizi del 118;

– le multimorbilità e l’età sempre più avanzata devono far ripensare alle modalità di gestione di questi pazienti, da un approccio strettamente specialistico, tipico del passato, a uno di tipo multidisciplinare;

– se l’andamento clinico in fase acuta è decisamente migliorato, quello sul medio-lungo termine è ancora caratterizzato da frequenti recidive e necessità di nuovi ricoveri. Programmi volti a ottenere una maggiore aderenza alla terapia e un ricorso più frequente a programmi di riabilitazione strutturati potrebbero essere un obiettivo strategico realizzabile nel prossimo futuro;

– la continuità terapeutica tra ospedale e territorio va assicurata e non può essere gestita che dal medico di medicina generale. La ricetta più efficiente in questo senso deve venire da un confronto sistematico tra i diversi modelli di presa in carico dei pazienti affetti da questa o altre patologie croniche.

Maddalena Lettino

U.O.C. Cardiologia

Ospedale San Gerardo, ASST-Monza

Monza

e-mail: maddalena.lettino@hotmail.it

Aldo Pietro Maggioni

Centro Studi ANMCO

Firenze

e-mail: maggioni@anmco.it