Strategie antitrombotiche a lungo termine
nel paziente post-infarto

Pasquale Perrone Filardi1, Pasquale Caldarola2, Furio Colivicchi3, Alessandro Mugelli4,
Ferdinando Varbella
5, Stefania Paolillo1,6

1Sezione di Cardiologia, Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli

2Dipartimento Cardiologico, ASL Bari, Bari

3Divisione di Cardiologia, Ospedale San Filippo Neri, Roma

4Dipartimento NeuroFarBa, Università degli Studi, Firenze

5Dipartimento Medicina Interna, ASL Torino 3, Torino

6Mediterranea Cardiocentro, Napoli

The early identification of patients with a history of an acute coronary event, exposed to an elevated risk of new ischemic events, is a fundamental step to reduce the residual risk and to restrict healthcare expenses. Effective measures in terms of antithrombotic treatment and secondary prevention are currently available to reach these objectives. In particular, the use of dual antiplatelet therapy both in the 12 months after an acute event and in the long term is highly effective in reducing antithrombotic complications in patients with a previous acute event. The turning point in the therapeutic management of these subjects is the correct identification of the residual ischemic risk and of the potential risk of bleeding in order to optimize the therapeutic choice selecting the most adequate, efficacious, and safe approach to improve long-term prognosis. The aim of the present article is to summarize the characteristics and the relevance of the currently available antithrombotic strategies to adopt in patients with a previous acute coronary event, focusing the attention on the importance of ischemic residual risk reduction in the long term.

Key words. Acute coronary syndrome; Chronic coronary syndromes; Dual antiplatelet therapy; Residual risk; Secondary prevention.

INTRODUZIONE

I pazienti che presentano in anamnesi un pregresso evento acuto coronarico sono esposti ad un elevato rischio residuo di eventi ricorrenti1-3. Pertanto, l’identificazione precoce di tali soggetti e l’applicazione di adeguate misure di trattamento antitrombotico e di prevenzione secondaria sono fondamentali per ridurre il rischio residuo e contenere la spesa sanitaria.

La doppia terapia antiaggregante (dual antiplatelet therapy, DAPT) si è dimostrata altamente efficace nel ridurre le complicanze aterotrombotiche nel paziente con pregresso evento coronarico. Per questo motivo le linee guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association (ACC/AHA)4 e della Società Europea di Cardiologia (ESC)5 raccomandano il trattamento con DAPT basato su acido acetilsalicilico (ASA) e inibitori orali del recettore piastrinico per l’adenosina difosfato (ADP) P2Y12 per 12 mesi post-evento acuto a meno che non sia presente un elevato rischio emorragico o vi sia la necessità di un intervento chirurgico non differibile nel periodo suddetto. Allo stesso modo, le linee guida europee sulla gestione delle sindromi coronariche croniche6 raccomandano il proseguimento di una più aggressiva terapia antitrombotica oltre i 12 mesi nei pazienti ad alto rischio di eventi ischemici (classe IIa) o a rischio moderato (classe IIb) che hanno ben tollerato la DAPT nel primo anno post-infarto miocardico (IM), suggerendo, in aggiunta ad ASA 75-100 mg, l’utilizzo di clopidogrel 75 mg/die o ticagrelor 60 mg bid (prasugrel solo post-angioplastica coronarica percutanea [PCI]) o in alternativa utilizzando rivaroxaban al dosaggio di 2.5 mg bid. Negli ultimi anni c’è stata ampia discussione sulla durata ottimale della DAPT e sulla migliore combinazione, ma diversi studi hanno dimostrato come in pazienti con un profilo di rischio elevato al basale, un atteggiamento terapeutico più aggressivo si associ ad un miglior outcome di mortalità e morbilità cardiovascolare a lungo termine7.

Obiettivo del presente articolo è riassumere le caratteristiche e la rilevanza delle strategie antitrombotiche post-sindrome coronarica acuta (SCA) attualmente disponibili, focalizzando in particolare l’attenzione sull’importanza della riduzione del rischio residuo nel lungo termine.

RISCHIO RESIDUO POST-INFARTO

Primo anno post-sindrome coronarica acuta: perché i 12 mesi di doppia terapia antiaggregante devono rappresentare ancora lo standard di cura?

I pazienti che si presentano con SCA sono esposti ad un rischio maggiore di eventi ischemici dopo PCI rispetto ai pazienti con cardiopatia ischemica stabile8,9. Le raccomandazioni delle società internazionali4,5 suggeriscono l’uso della DAPT per almeno 12 mesi post-evento acuto come dimostrato inizialmente dallo studio PCI-CURE10 con utilizzo esclusivo di clopidogrel come inibitore P2Y12 e stent non medicati di vecchia generazione. Successivamente gli studi TRITON-TIMI 3811 e PLATO12 hanno dimostrato la superiorità dei nuovi inibitori P2Y12, prasugrel e ticagrelor, sul clopidogrel per la loro maggiore potenza antiaggregante e minore variabilità individuale, determinandone la raccomandazione d’uso in tutti i pazienti con SCA che non presentino controindicazioni alla somministrazione.

Dopo l’introduzione di stent medicati (DES) di ultima generazione, che presentano un profilo di sicurezza maggiore dopo PCI in genere13,14, anche dopo SCA sono stati proposti nuovi schemi di terapia che prevedono un periodo più breve di DAPT. Un’altra ipotesi presa in considerazione prevede un utilizzo più breve dei potenti inibitori P2Y12 prasugrel o ticagrelor con passaggio precoce a clopidogrel (de-escalation) prima dei 12 mesi15,16.

L’importanza dei primi 12 mesi di DAPT è alla base di una successiva terapia a lungo termine in quanto se la DAPT con ticagrelor dopo SCA e PCI viene interrotta per più di 1 mese sembra essere meno evidente il vantaggio a lungo termine nei pazienti dello studio PEGASUS-TIMI 5417.

Cercheremo pertanto di esaminare i risultati di questi nuovi trial di breve durata o di de-escalation per valutare se i primi 12 mesi di DAPT con ASA e se gli inibitori P2Y12 prasugrel e ticagrelor rappresentano ancora lo standard di cura nella maggior parte dei pazienti post-SCA e post-PCI. In linea generale, la maggior parte degli studi ha mostrato dati incerti sulla sicurezza ed efficacia della DAPT accorciata13,18. La più completa metanalisi13 di 6 studi randomizzati ha evidenziato una relativa sicurezza in termini di IM e trombosi di stent. Tuttavia, i pazienti inclusi nei trial spesso sono a basso rischio e solo il 10% dei pazienti inclusi in questa metanalisi era in realtà post-IM e con lesioni coronariche trattate in prevalenza non complesse19.

Doppia terapia antiaggregante accorciata (<12 mesi) seguita da solo acido acetilsalicilico

Il principale trial dedicato solo a pazienti post-SCA e post-PCI è lo SMART-DATE19 presentato al Congresso dell’ACC del 2018, condotto da ricercatori coreani negli anni 2012-2015 (DES di ultima generazione), multicentrico, non in cieco, che ha arruolato oltre 2700 pazienti con SCA (un terzo affetti da IM con sopraslivellamento del tratto ST [STEMI], un terzo da IM senza sopraslivellamento del tratto ST [NSTEMI] e un terzo da angina instabile) randomizzati a 6 vs 12-18 mesi di DAPT. Endpoint primario dello studio era un composito a 18 mesi (non inferiorità) costituito da eventi cardiovascolari avversi maggiori (MACE): mortalità totale, IM e ictus. Gli endpoint secondari erano i singoli componenti dell’endpoint primario e la trombosi di stent definita o probabile. La maggior parte dei pazienti (80%) ha ricevuto clopidogrel in aggiunta ad ASA a causa della tardiva disponibilità dei nuovi inibitori P2Y12 in Corea. È stata dimostrata la non inferiorità del trattamento breve (6 mesi) di DAPT rispetto ai 12 mesi per l’incidenza a 18 mesi dell’endpoint primario di MACE (4.7 vs 4.2%; hazard ratio [HR] 1.13, intervallo di confidenza [IC] 95% 0.79-1.16; p=0.51) senza tuttavia un beneficio in termini di riduzione dell’endpoint emorragico (Bleeding Academic Research Consortium [BARC] 2-5 2.7 vs 3.9%; HR 0.69, IC 95% 0.45-1.05; p=0.09), sebbene con un trend favorevole per la durata minore. È invece risultato significativo l’aumento più che doppio dell’incidenza a 18 mesi di nuovo IM nel gruppo trattato con DAPT breve di 6 mesi rispetto ai 12 mesi (1.8 vs 0.8%; HR 2.41, IC 95% 1.15-5.05; p=0.02). Nell’analisi del sottogruppo dei pazienti arruolati per IM come evento indice, il beneficio della DAPT prolungata a 12 mesi è risultato ancora maggiore nel prevenire un nuovo evento coronarico (2.3 vs 0.5%; HR 4.27, IC 95% 1.61-11.31; p<0.01). In particolare, l’effetto protettivo della DAPT prolungata è stato più evidente nelle lesioni non target e nelle lesioni di altri vasi rispetto alla trombosi di stent nel vaso target19. Questo dato è in accordo con i risultati dello studio PROSPECT20 nel quale circa metà dei nuovi eventi successivi ad una SCA erano collegati a lesioni diverse (cosiddette “non-culprit”) da quelle dell’evento iniziale. Tuttavia, il numero esiguo di pazienti arruolati e la bassa incidenza dell’evento trombosi di stent, ovvero 15 casi nella DAPT a 6 mesi vs 10 casi nella DAPT a 12 mesi (1.1 vs. 0.7%; HR 1.5, IC 95% 0.68-3.35; p=0.32), potrebbe avere mascherato anche in questo caso una ancora maggiore sicurezza della DAPT prolungata. Inoltre, le lesioni trattate con PCI sono state relativamente semplici con solo 9% di biforcazioni, 1.3 lesioni (1.4 stent) per paziente e lunghezza totale di 26 mm degli stent, per cui non si può escludere che ci sia stato un bias nell’esclusione di pazienti sottoposti a PCI ad alto rischio per i quali la DAPT prolungata sarebbe stata ancora più utile. Nell’analisi post-hoc landmark è stato osservato che tutti i MACE si sono verificati maggiormente nel gruppo trattato con DAPT a 6 mesi con un significativo aumento dell’incidenza di IM pari a 5 volte tra 6 e 18 mesi senza un benefico nell’incidenza di sanguinamenti maggiori. Per questo motivo gli autori concludono che non può essere sicuro un protocollo di solo 6 mesi di DAPT post-SCA e post-PCI anche se eseguita con tecniche attuali e con DES di ultima generazione. Il trattamento per 12 mesi con DAPT deve rimanere lo standard di cura per questi pazienti nonostante il miglioramento della sicurezza dei nuovi DES.

Esclusivamente pazienti con STEMI sono stati inclusi nello studio olandese ed europeo DAPT-STEMI21 in cui sono stati arruolati 870 soggetti che hanno raggiunto senza eventi i 6 mesi dopo la PCI primaria, eseguita con un unico tipo di DES di seconda generazione (zotarolimus) e randomizzati solo a quel punto a DAPT breve (6 mesi) o prolungata (12 mesi) basata su ASA più uno degli inibitori P2Y12 clopidogrel (40%), prasugrel (30%) o ticagrelor (30%). Al follow-up a 24 mesi nessuna differenza è emersa tra i due gruppi in termini di eventi avversi ischemici (mortalità totale, IM, ictus, nuova rivascolarizzazione o sanguinamento TIMI maggiore) e l’endpoint primario combinato di non inferiorità è stato raggiunto. Tuttavia gli stessi autori riconoscono molti limiti del lavoro costituiti da una popolazione estremamente selezionata a basso rischio, sia in fase di procedura indice (prevalentemente singola lesione o singolo vaso con 1.4 stent per paziente, lunghezza degli stent 28-29 mm, vasi di grosso calibro >3 mm nel 70% dei casi), sia al follow-up senza eventi a 6 mesi che identifica un criterio di ottima prognosi a distanza. Oltre il 20% (n = 230) dei pazienti selezionati non è poi stato randomizzato a causa di vari motivi (molti per ritiro del consenso) per cui è possibile che quelli più ad alto rischio siano stati esclusi. Il basso numero di pazienti totale non permette, al contrario dello SMART-DATE19 che ne ha inclusi più del doppio, di evidenziare possibili differenze all’interno dei singoli componenti dell’endpoint primario come l’incidenza di IM o di trombosi di stent. In ultimo, come già per lo SMART-DATE, l’utilizzo estensivo di clopidogrel potrebbe avere limitato i vantaggi che il ticagrelor ha mostrato nel trattamento a lungo termine del sottogruppo post-IM17,22,23.

Anche nei pazienti sottoposti a PCI non selezionati per indicazione (pazienti stabili e post-SCA) e per questo a rischio minore, le metanalisi più complete hanno evidenziato una relazione tra aumento del rischio di IM e di trombosi di stent con la DAPT accorciata e sospensione precoce dell’inibitore P2Y12 rispetto ai 12 mesi raccomandati24,25.

Doppia terapia antiaggregante accorciata seguita da monoterapia con inibitori del recettore P2Y12

Il tentativo di superare i limiti del trattamento con solo ASA post-SCA e post-PCI in monoterapia sono alla base di studi in cui dopo un periodo breve e variabile di DAPT veniva proseguito unicamente l’inibitore P2Y1219,26,27. Questa ipotesi è stata valutata in due studi molto simili, STOPDAPT-226 e SMART-CHOICE27, condotti in Giappone e in Corea con l’obiettivo di dimostrare la sicurezza dei rispettivi stent di ultima generazione post-PCI. Sono stati, rispettivamente, inclusi circa 1500 pazienti per gruppo con indicazioni differenti alla rivascolarizzazione (38% SCA in STOPDAPT-2 e 58% in SMART-CHOICE). La DAPT è stata interrotta a 1 mese (STOPDAPT-2) o a 3 mesi (SMART-CHOICE) nel braccio sperimentale con proseguimento del solo clopidogrel, mentre nel braccio di controllo la DAPT è stata proseguita per 12 mesi. L’endpoint primario di entrambi era un composito ischemico (morte, IM, ictus, trombosi di stent) per la non inferiorità e la protezione dal sanguinamento (TIMI maggiore o minore o BARC 2-5) per la superiorità del trattamento sperimentale con DAPT accorciata rispetto a monoterapia con clopidogrel. Ancora una volta queste conclusioni se da un lato confermano la sicurezza dei DES di ultima generazione, dall’altro non possono essere estese alla maggior parte dei pazienti sottoposti a PCI per IM o SCA. La scarsa numerosità del campione di soggetti post-SCA non permette di escludere differenze per incidenza di eventi rari che invece sono emerse dallo SMART-DATE dedicato esclusivamente alle SCA e condotto negli stessi anni e negli stessi centri. Questi trial non avevano la potenza statistica per rilevare la non inferiorità all’interno di endpoint secondari. La popolazione esaminata era costituita da pazienti a rischio estremamente basso dal punto di vista clinico ed interventistico con score ischemico PARIS e CREDO-Kyoto basso e SYNTAX score mediano di 9 che esprime una bassa complessità anatomica della PCI con in media meno di due stent per paziente, poche biforcazioni e pochi tronchi comuni trattati nella procedura indice. Il basso numero assoluto dei singoli eventi avversi ischemici (<2%) ed emorragici (<3% seppure usando una classificazione molto sensibile come BARC 2) nei due lavori e nei differenti gruppi di trattamento conferma l’arruolamento di una popolazione molto selezionata in senso favorevole. Questo bias di selezione è evidenziato nello STOPDAPT-2 in cui sono stati valutati 10 001 pazienti eleggibili per poi arruolarne 3045, escludendo pazienti ad alto rischio per età, presentazione clinica, anatomia coronarica ad alto rischio o giudizio sfavorevole del medico. Nello stesso studio l’analisi dei sottogruppi ha mostrato un ridotto vantaggio della monoterapia con clopidogrel nei pazienti a rischio ischemico più alto, come quelli con presentazione SCA, i diabetici e con PARIS score intermedio e score trombotico CREDO-Kyoto elevato. Altro elemento per questi studi condotti in Asia è l’utilizzo estensivo di metodiche di imaging intracoronarico per ottimizzare la PCI che potrebbe avere contribuito a ridurre gli eventi avversi e a favorire una DAPT accorciata.

In ultimo, l’utilizzo di clopidogrel come antiaggregante anti-P2Y12 non rappresenta più lo standard di terapia consigliato dalle linee guida americane e soprattutto in Europa nei pazienti post-SCA e post-PCI.

Il maggiore trial ad avere valutato ipotesi di monoterapia con inibitori P2Y12 dopo 1 mese di DAPT (ticagrelor + ASA per tutti) è il GLOBAL LEADERS28 prevalentemente europeo, in cui il braccio sperimentale è stato trattato con ticagrelor da solo per 23 mesi ed il braccio di controllo con DAPT classica basata su ASA + clopidogrel per 12 mesi seguita da solo ASA con follow-up a 2 anni. Sono stati randomizzati 15 968 pazienti al momento della PCI indice, di cui circa 47% con SCA e 53% stabili. I risultati in termini di endpoint primario (mortalità globale e IM) o di sanguinamento (BARC 2-5) non hanno mostrato differenze significative tra le due strategie di trattamento. Tuttavia è emersa una interazione nell’analisi dei sottogruppi con un vantaggio significativo per il ticagrelor in mono-somministrazione nei pazienti post-PCI e post-SCA (p per interazione =0.0068), ma non è stato specificato se nel breve termine (12 mesi) o a lungo termine (ulteriori 11 mesi) nei quali sarebbe giustificato un effetto favorevole del ticagralor rispetto ad ASA. In questo, ma anche negli altri due trial di monoterapia con inibitori P2Y12, si verifica una scarsa aderenza alla monoterapia con crossover fino al 15-20% verso la DAPT tradizionale3. Quest’ultimo studio, nonostante la maggiore numerosità dei pazienti rispetto ai precedenti, forse proprio per la complessità del suo disegno e il basso numero di eventi avversi, non è destinato a modificare le linee guida nel trattamento dei pazienti post-PCI in quanto il ticagrelor non è validato nei pazienti stabili e la monoterapia (neppure per 1 mese) nel medio e lungo termine non ha mostrato vantaggi.

Al di fuori del rischio emorragico proibitivo, la DAPT accorciata guadagnerà maggiore spazio con i nuovi DES che si sono dimostrati sicuri nel medio e lungo termine specie se abbinati a tecniche di imaging intracoronarico, ma prevalentemente nei pazienti a basso rischio ischemico, con presentazione clinica stabile, senza IM (meno del 30% dei pazienti dei tre trial era biomarker-positiva) e PCI semplice in vasi di grosso calibro e singolo stent impiantato. La DAPT classica con ticagrelor o prasugrel e ASA per 12 mesi deve dunque rimanere lo standard di cura post-SCA e post-PCI3,29.

Da ultimo sono stati recentemente presentati i risultati dello studio TWILIGHT30,31 che ha arruolato 9006 pazienti ad alto rischio emorragico o ischemico clinico o anatomico (es. SCA, biomarker-positivi, malattia multivasale, biforcazioni, lunghezza stent >30 mm) dimessi con DAPT corretta con ticagrelor e ASA per 3 mesi e successivamente randomizzati in doppio cieco alla sospensione o meno dell’ASA con follow-up a 15 e 18 mesi. Lo studio ha dimostrato che la monoterapia con ticagrelor dopo il terzo mese è associata ad un rischio più basso di sanguinamenti clinicamente rilevanti rispetto alla combinazione con ASA, in assenza di un rischio più elevato di morte, IM o ictus. Tale dato supporta l’utilizzo della DAPT accorciata, seguita dal solo ticagrelor, in presenza di elevato rischio emorragico, con una simile protezione nei riguardi di eventi cardiovascolari maggiori.

De-escalation dai nuovi inibitori del recettore P2Y12 a clopidogrel

Nei pazienti ad alto rischio post-SCA, prasugrel e ticagrelor hanno un effetto più rapido, più potente e più riproducibile rispetto al clopidogrel e non presentano gradi diversi di resistenza individuale, riducono gli eventi ischemici post-SCA e post-PCI a scapito di un aumento del rischio emorragico32. Per questo motivo dopo il primo mese o terzo mese che sono i più critici per le complicanze ischemiche è stato proposto un passaggio al clopidogrel come inibitore P2Y12 per ridurre il rischio emorragico che rimane presente nei 12 mesi successivi. Questa strategia chiamata “de-escalation” nata esclusivamente per pazienti post-SCA, quando il prasugrel ancora non aveva il brevetto scaduto, avrebbe avuto anche il vantaggio di ridurre i costi del trattamento. Il primo lavoro presentato a riguardo è stato il TOPIC15, un trial monocentrico, non in cieco, condotto su 645 pazienti con SCA sottoposti a PCI e trattati con ticagrelor (43%) o prasugrel (57%) più ASA per 1 mese senza eventi e randomizzati successivamente a proseguire questa DAPT o sostituire il più potente inibitore P2Y12 con il clopidogrel controllando in cieco la reattività piastrinica. Adottando come indice di sanguinamento un criterio molto sensibile quale il BARC 2 (ogni evento che richiede attenzione medica), viene dimostrato su questi piccoli numeri un beneficio della de-escalation nella riduzione dei sanguinamenti (13 [4.0%] vs 48 [14.9%]; HR 0.30, IC 95% 0.18-0.50; p<0.01) senza aumento significativo degli eventi ischemici (30 [9.3%] vs 37 [11.5%]; HR 0.48, IC 95% 0.34-0.68; p=0.36). Tuttavia, il campione ridotto di 600 pazienti è di molto sotto-potenziato per evidenziare differenze negli endpoint ischemici. Inoltre, l’analisi accurata della reattività piastrinica nel sottostudio TOPIC-VASP33 mostra che nel sottogruppo dei soggetti poco responsivi al clopidogrel vi è stato un aumento degli eventi ischemici (20 [11.7%] vs 14 [8.3%]; HR 1.67, IC 95% 0.81-3.45; p=0.17) non significativo per l’esiguità del campione, ma che non permette di garantire sicurezza con questa strategia di routine.

Ugualmente non conclusivo è il secondo studio condotto sulla de-escalation, il TROPICAL-ACS16, su un campione multicentrico di 2610 pazienti ad alto rischio con SCA (biomarker-positiva) e PCI trattati per 1 settimana con ASA e prasugrel e randomizzati non in cieco al proseguimento per 12 mesi di questo tipo di DAPT o al passaggio a clopidogrel guidato da test di reattività piastrinica. Il numero di eventi ischemici ed emorragici è stato inferiore a quanto previsto e si è dimostrato un minimo trend favorevole non significativo della de-escalation solo considerando i sanguinamenti BARC 1 (emorragia senza conseguenza e senza presa in carico), ma non i BARC 2. L’endpoint composito di morte cardiovascolare, IM, ictus e sanguinamento BARC 1-5 si è verificato in 175 pazienti del gruppo DAPT classica (12 mesi con prasugrel e ASA) vs 143 pazienti del gruppo de-escalation (13 vs 11%; HR 0.81, IC 95% 0.65-1.01; p=0.06). Inoltre, il 40% dei soggetti che avrebbe dovuto passare a clopidogrel (de-escalation) ha mostrato alta reattività piastrinica e pertanto in questi è stata confermata la terapia con prasugrel.

Ad ulteriore conferma del rischio dello switching o della de-escalation da un potente inibitore P2Y12 al clopidogrel nei pazienti con SCA durante i primi periodi post-PCI, è stato presentato lo studio italiano SCOPE34 condotto come registro prospettico per 3 mesi in 39 centri ad alto volume di PCI che ha arruolato 1363 pazienti con SCA che hanno per qualche motivo modificato la DAPT. Il down-grading da prasugrel o ticagrelor a clopidogrel, dovuto ad un sanguinamento (o semplicemente rischio emorragico) o ad un costo eccessivo senza rimborso, comporta un aumento di 10 volte della reattività piastrinica con aumento di oltre il 20% dell’incidenza di eventi ischemici ed è un potente fattore predittivo di eventi cardiovascolari avversi netti (odds ratio 5.3, IC 95% 2.1-18.2; p=0.04).

Pertanto, la DAPT con ASA ed un inibitore P2Y12 rimane la strategia di scelta post-SCA e post-PCI per almeno 12 mesi e deve essere adottata di routine a meno che non sussista un serio problema di sanguinamento o di rischio emorragico. Il proseguimento per almeno 12 mesi post-IM e post-PCI è alla base di ogni valutazione sulla strategia antiaggregante a lungo termine dove la bilancia tra rischio e beneficio è più labile e dove è necessaria un’accurata selezione del paziente già al momento del ricovero indice (score emorragico PRECISE-DAPT) o alla dimissione (score trombotico o emorragico PARIS) o alla visita di follow up a 12 mesi (DAPT score) senza interruzione, passando al ticagrelor 60 mg bid che nello studio PEGASUS-TMI 5417 con i suoi rigorosi criteri di inclusione ed esclusione si è dimostrata efficace, come successivamente riportato.

MECCANISMO D’AZIONE DELLE DUE CLASSI DI ANTIAGGREGANTI E ANTICOAGULANTI: TARGET E OBIETTIVI DIFFERENTI

Come già descritto, i farmaci antitrombotici hanno una documentata efficacia e sono ampiamenti usati in prevenzione secondaria, ma nonostante i benefici, il loro utilizzo prolungato è associato al rischio di complicazioni anche gravi. La Figura 1 riassume in modo schematico il processo che porta alla formazione del trombo piastrinico che è il responsabile finale dell’evento aterotrombotico con il sito d’azione dei principali farmaci antitrombotici disponibili menzionati in questo sottocapitolo e potrà aiutare a definire e valutare il razionale delle associazioni più utilizzate in clinica35.




Farmaci antiaggreganti

Quando usato cronicamente in prevenzione secondaria l’ASA riduce del 19% il rischio di MACE e del 10% la mortalità a fronte di un incremento dei sanguinamenti36. L’utilizzo di antiaggreganti più potenti (clopidogrel, prasugrel, ticagrelor) da soli o in associazione ad ASA o l’uso di anticoagulanti orali da soli o in associazione ad antiaggreganti (“dual pathway inhibition”) riduce ulteriormente il rischio di MACE, ma aumenta il rischio di sanguinamenti e non modifica la mortalità37.

È importante ricordare che le vie attivate dalla trombina, dal trombossano A2 e dall’ADP trasmettono segnali indipendenti per l’aggregazione piastrinica e di conseguenza rappresentano bersagli modulabili farmacologicamente in modo additivo.

L’ASA a basse dosi acetila in modo selettivo un residuo serinico che si trova in vicinanza del sito catalitico dell’enzima, inibendo così in modo irreversibile la ciclossigenasi-1 con conseguente soppressione, completa e di lunga durata, della produzione di trombossano A2. Infatti, dal momento che le piastrine non sono in grado di sintetizzare nuove proteine, l’azione dell’ASA sulla ciclossigenasi-1 dura per tutta la vita delle piastrine (7-10 giorni) e dosi ripetute di bassi dosaggi di ASA causano un effetto inibitorio cumulativo sulla funzionalità piastrinica. Ricordiamo solo che l’azione dell’ASA sulle piastrine si esercita nel sangue portale.

Gli inibitori orali P2Y12 comprendono due classi di farmaci, le tienopiridine (ticlopidina, clopidogrel e prasugrel) e il ticagrelor, che è un analogo strutturale dell’adenosina trifosfato. Le principali proprietà farmacodinamiche e farmacocinetiche di questi farmaci sono riassunte in Tabella 15.

Le tienopiridine sono profarmaci e, in quanto tali, per agire necessitano di un’attivazione metabolica, che porta alla formazione di metaboliti attivi che bloccano in modo irreversibile il recettore P2Y12 tramite la formazione di un ponte disolfuro, inibendo così l’attivazione piastrinica indotta dall’ADP. L’ampia variabilità individuale nella capacità del clopidogrel di inibire l’aggregazione piastrinica ADP-dipendente (alcuni pazienti sono definiti resistenti al farmaco), è in parte riconducibile al polimorfismo genetico nei citocromi che sono implicati nella sua attivazione metabolica. Il principale citocromo coinvolto è il CYP2C19; nei pazienti che presentano una perdita di funzione del CYP2C19 si ha una ridotta formazione del metabolita attivo, quindi una minore attività antiaggregante e un maggior numero di eventi cardiovascolari.

Il prasugrel, pur essendo un profarmaco che necessita di attivazione metabolica, ha un’insorgenza dell’effetto antiaggregante più rapido e meno imprevedibile rispetto al clopidogrel. Il suo assorbimento gastrointestinale è rapido e completo e, in pratica, tutto il farmaco assorbito va incontro ad attivazione metabolica. Invece, la percentuale di clopidogrel assorbito che va incontro ad attivazione metabolica è del 15%, mentre il rimanente 85% è inattivato dalle esterasi.

Il ticagrelor, grazie alla sua struttura che assomiglia a quella dell’agonista fisiologico, si lega al recettore P2Y12 direttamente e in modo reversibile, ma in un sito diverso da quello attivo. Agisce cioè come antagonista allosterico, modificando la struttura del recettore, impedendo il legame dall’ADP al recettore P2Y12 e prevenendo così l’attivazione piastrinica ADP-dipendente.

Il blocco del recettore P2Y12 da parte del prasugrel o del ticagrelor è più rapido e più completo rispetto a quello causato dal clopidogrel e rende conto dei benefici aggiuntivi nelle SCA quando associati all’ASA. Da un altro punto di vista dimostra l’importanza clinica della modulazione farmacologica delle diverse vie che portano all’attivazione piastrinica.




Farmaci anticoagulanti

La trombina è un importante attivatore piastrinico. Sulle piastrine umane sono presenti almeno due recettori attivati da proteasi (PAR-1 e PAR-4); il PAR-1 ha l’affinità più alta per la trombina. Vorapaxar, derivato da una sostanza di origine naturale (alcaloide isolato dalla corteccia della magnolia australiana), inibisce in modo specifico l’aggregazione e la secrezione piastrinica indotta dalla trombina. Utilizzato in aggiunta all’ASA e al clopidogrel ha prodotto una riduzione non statisticamente significativa di MACE associata ad un incremento dei sanguinamenti. Su richiesta dell’azienda farmaceutica titolare, l’autorizzazione alla commercializzazione di voraxapar in Europa è stata revocata nel giugno 2017.

Il rivaroxaban è un inibitore orale del fattore Xa e impedisce pertanto la conversione della protrombina in trombina. Lo studio COMPASS38 ha rinnovato l’interesse per l’interazione dell’inibizione dell’aggregazione piastrinica attraverso vie metaboliche diverse (“dual pathway inhibition”). In questo caso l’ASA attenua l’attivazione piastrinica mediata dal trombossano A2 a cui si associa l’attenuazione della formazione di trombina da parte del rivaroxaban. Pertanto la formazione del trombo è inibita dalla modulazione negativa di due vie: attivazione piastrinica e formazione di trombina.

Il risultato principale dello studio è che, in confronto ad ASA da solo, la combinazione di rivaroxaban (2.5 mg bid) più ASA riduceva i MACE del 24% a fronte di un incremento del 70% nei sanguinamenti maggiori.

EVIDENZE NEL TRATTAMENTO A LUNGO TERMINE: TERAPIA ANTIAGGREGANTE E ANTICOAGULANTE ORALE

Le linee guida europee sulla gestione delle sindromi coronariche croniche6 raccomandano un’adeguata stratificazione del rischio nei pazienti con coronaropatia nota al fine di applicare adeguate misure di prevenzione secondaria, incluso un idoneo approccio antitrombotico a lungo termine. In particolare, nei pazienti ad elevato rischio di nuovi eventi ischemici (malattia multivasale con almeno un fattore tra diabete, IM ricorrente, arteriopatia periferica ed insufficienza renale cronica con velocità di filtrazione glomerulare stimata compresa tra 15-59 ml/min/1.73 m2) e in assenza di elevato rischio di sanguinamento, è raccomandato (in classe IIa per i pazienti ad elevato rischio ischemico ed in classe IIb per quelli a rischio moderato) l’utilizzo di trattamento antitrombotico a lungo termine (>12 mesi) con, in aggiunta ad ASA 75-100 mg, clopidogrel 75 mg/die o ticagrelor 60 mg bid o prasugrel (solo post-PCI) o in alternativa utilizzando rivaroxaban al dosaggio di 2.5 mg bid. Appare dunque cruciale la stratificazione del rischio nei pazienti che hanno subito un evento coronarico, come riportato in Tabella 2.




Il primo studio disegnato per testare il proseguimento della DAPT post-IM e dopo il completamento dei 12 mesi di DAPT è stato il PEGASUS-TIMI 5417. Tale studio ha arruolato 21 162 pazienti con precedente IM, randomizzati ad 1.7 anni dall’evento acuto a ticagrelor 90 mg bid, ticagrelor 60 mg bid o placebo in combinazione con ASA a bassa dose. La popolazione arruolata presentava al basale un elevato rischio ischemico per la presenza, richiesta dai criteri di inclusione, di un fattore di rischio aggiuntivo, tra età ≥65 anni, diabete, insufficienza renale cronica, malattia multivasale, o ricorrenza di IM. L’endpoint primario di efficacia era un composito di morte cardiovascolare, IM o ictus. Ticagrelor, in entrambe le dosi, ha dimostrato di ridurre significativamente l’endpoint primario in confronto a placebo (ticagrelor 90 mg: HR 0.85, IC 95% 0.75-0.96; p=0.008; ticagrelor 60 mg: HR 0.84, IC 95% 0.74-0.95; p=0.004) con una significativa riduzione anche dell’IM (sia 90 che 60 mg) e dell’ictus ischemico (60 mg) e con una tendenza favorevole verso una più bassa incidenza di morte cardiovascolare (60 mg). L’endpoint primario di sicurezza comprendeva i sanguinamenti maggiori TIMI e sia ticagrelor 90 che 60 mg hanno dimostrato un lieve aumento del rischio in confronto al placebo (a 3 anni 2.6% per 90 mg e 2.3% per 60 mg) in assenza di differenze su sanguinamenti fatali ed emorragie intracraniche. L’analisi combinata degli eventi ischemici prevenuti e dei sanguinamenti maggiori provocati (beneficio clinico netto) dimostrava un evidente vantaggio della DAPT prolungata con una riduzione significativa. Una analisi dello studio, clinicamente rilevante, ha evidenziato che il beneficio netto nel braccio ticagrelor era tanto più evidente quanto minore fosse il tempo dall’interruzione della DAPT. Successivamente è stata pubblicata una sottoanalisi dello studio che ha considerato solo i pazienti che corrispondono alle indicazioni di trattamento della European Medicines Agency (EMA), ovvero arruolati entro 2 anni da un precedente IM o entro 1 anno dalla sospensione della DAPT. In concordanza con le evidenze della sottoanalisi relativa ai tempi di arruolamento dell’intero studio, il sottogruppo di pazienti (n=16 153, ovvero oltre il 75% dell’intera popolazione) corrispondenti alle indicazioni di trattamento EMA ha mostrato un beneficio più consistente in termini di riduzione degli eventi (20%) ed una significativa riduzione della mortalità cardiovascolare (29%) e totale (20%)39. Il messaggio clinico che proviene da queste osservazioni appare evidente e consiste nella raccomandazione di proseguire la DAPT (in Italia rimborsata solo con ticagrelor 60 mg bid) oltre i 12 mesi nel paziente che si ritiene adeguato al trattamento, il più precocemente e possibilmente in continuità dopo i primi 12 mesi.

Un altro approccio recentemente studiato è quello della “dual pathway inhibition” che prevede l’utilizzo di ASA in associazione a rivaroxaban, inibitore diretto del fattore Xa. Lo studio COMPASS38 ha randomizzato 27 395 pazienti con malattia aterosclerotica stabile ed elevato rischio residuo a ricevere rivaroxaban 2.5 mg bid in aggiunta ad ASA 100 mg, rivaroxaban 5 mg bid, o solo ASA al fine di valutarne l’efficacia sull’outcome primario di morte cardiovascolare, IM o ictus in pazienti con malattia cardiovascolare ischemica. Lo studio è stato interrotto prematuramente per un evidente maggior beneficio del trattamento rivaroxaban + ASA ad un follow-up medio di 23 mesi. In particolare, la combinazione rivaroxaban + ASA ha ridotto significativamente l’occorrenza dell’endpoint primario dello studio in confronto a solo ASA (4.1 vs 5.4%; HR 0.76, IC 95% 0.66-0.86; p<0.001) al prezzo di una maggiore incidenza di sanguinamenti maggiori, ma in assenza di differenze su sanguinamenti fatali ed emorragie intracraniche. La maggiore riduzione assoluta del rischio è stata osservata in pazienti ad elevato rischio basale, ovvero nei diabetici, nei pazienti con arteriopatia periferica o disfunzione renale moderata, così come nei fumatori.

Nonostante i risultati favorevoli ottenuti negli studi con ticagrelor 60 mg e rivaroxaban 2.5 mg, non esistono al momento studi di confronto nel lungo termine tra terapia antiaggregante e anticoagulante orale, né i due studi possono essere confrontati tra di loro per caratteristiche differenti di popolazione, approccio terapeutico, durata dello studio e numero di eventi. In particolare, giova sottolineare come le popolazioni del PEGASUS-TIMI 54 e COMPASS siano profondamente differenti, nel primo caso trattandosi di pazienti con pregresso IM entro 3 anni dall’arruolamento (mediana di arruolamento di 1.7 anni dall’evento indice) mentre i pazienti COMPASS potevano essere arruolati anche in assenza di eventi coronarici acuti e senza vincoli temporali (solo il 62% circa di pazienti con pregresso IM e con una distanza media dall’evento acuto di 7.1 anni), tanto da determinare una popolazione con storia clinica molto diversa dai pazienti PEGASUS-TIMI 54 e più spostata verso un contesto clinico cronicizzato.

Pertanto, la scelta sul miglior approccio antitrombotico a lungo termine deve essere personalizzata sul singolo paziente, dopo adeguata stratificazione del rischio residuo ischemico e del rischio emorragico, come successivamente descritto. Le linee guida6 non forniscono un approccio preferenziale verso la terapia antiaggregante e anticoagulante orale, ma inseriscono entrambe le opzioni nella stessa classe di raccomandazione lasciando al clinico la scelta sull’opzione terapeutica più corretta in ciascun paziente.

IMPLICAZIONI CLINICHE E DIVERSE TIPOLOGIE DI PAZIENTI

La transizione clinica dalla fase post-acuta alla gestione di medio e lungo periodo dei pazienti colpiti da un evento coronarico acuto rappresenta una sfida di notevole impegno per il sistema sanitario nel suo complesso. In generale, le modalità di gestione di medio e lungo periodo dovrebbero tenere conto del profilo di rischio dei singoli pazienti, sia per quanto attiene alle scelte terapeutiche, che per la definizione del contesto dei controlli e della loro frequenza durante il follow-up. Le scelte relative alla durata di alcuni trattamenti specifici, come ad esempio la DAPT, debbono inoltre tenere conto anche di diversi aspetti clinici generali, che vanno oltre l’ordinaria attenzione al profilo di rischio aterotrombotico.

In effetti, alcuni elementi clinici sono particolarmente utili nella definizione del rischio di ulteriori eventi cardiovascolari avversi a medio e lungo termine in pazienti con pregresso IM40. Come noto, infatti, caratteristiche quali l’età avanzata, le comorbilità maggiori (diabete mellito, malattia renale cronica), il pregresso ictus ischemico, l’arteriopatia periferica o carotidea ed una storia di angina pectoris, risultano associate ad un significativo incremento del rischio di eventi ischemici cardiovascolari ricorrenti6,40,41. Il risconto di queste caratteristiche deve essere coniugato con la valutazione del livello di controllo dei fattori di rischio tradizionali. Soggetti fumatori, con ipertensione arteriosa ed ipercolesterolemia non controllate dalla terapia presentano, infatti, livelli di rischio significativamente più elevati6,19,40.

La presenza di disfunzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione <40%), ovvero l’evidenza di ischemia inducibile in corso di test provocativi (test ergometrico, scintigrafia miocardica, ecocardiografia con stress farmacologico) concorrono a meglio definire il profilo individuale di rischio6,40,42.

Per i pazienti sottoposti ad angiografia coronarica esistono, in aggiunta a quanto sopra riportato, alcuni parametri semplici, come ad esempio il numero dei vasi coronarici interessati da stenosi significative, il numero e la tipologia degli stent impiantati, l’eventuale circostanza di una rivascolarizzazione incompleta, che devono essere valutati nella stima del livello di rischio individuale di recidive cliniche. Esistono poi score di rischio più complessi basati principalmente su parametri angiografici, tra cui, ad esempio, il SYNTAX score basato su 9 criteri anatomici, inclusi il numero, la localizzazione e la complessità delle lesioni coronariche, o meglio su parametri angiografici integrati con quelli clinici (Clinical SYNTAX score e SYNTAX score II, ACUITY-PCI risk score)6,40. In aggiunta, la complessità della procedura di rivascolarizzazione rappresenta un elemento aggiuntivo da considerare nella valutazione del rischio residuo e della necessità di prolungare la DAPT43.

Nella valutazione del singolo paziente è poi necessaria la verifica dell’eventuale rischio di eventi emorragici secondari al trattamento. Le complicanze emorragiche sono, infatti, un’eventualità tutt’altro che infrequente in corso di DAPT44,45. Studi osservazionali sembrano indicare che il rischio emorragico a medio-lungo termine in corso di DAPT è stimabile nell’ordine del 4-7% per anno44,46. La valutazione del rischio emorragico nel singolo paziente appare, tuttavia, difficile per due ordini di motivi: (1) genesi complessa e multifattoriale dei singoli eventi emorragici, (2) variazioni dinamiche e non sempre prevedibili del profilo iniziale di rischio emorragico.

Ad ogni modo, alcune caratteristiche cliniche si associano, tuttavia, ad un evidente incremento del rischio emorragico in corso di terapia antiaggregante o anticoagulante: età avanzata, sesso femminile, storia o evidenza di scompenso cardiaco, storia di ulcera peptica, riduzione della funzionalità renale, anemia e storia di malattia cerebrovascolare46,47. Appare evidente come alcuni fattori che incidono sul rischio di recidive ischemiche rappresentano anche fattori predisponenti ad eventi di natura emorragica. Questo paradosso è noto da tempo ed è già stato ampiamente verificato per la terapia anticoagulante orale nei pazienti con fibrillazione atriale48. La stratificazione del rischio emorragico appare, pertanto, di non semplice definizione nel singolo paziente. A tale riguardo sono di particolare interesse i dati dello studio PRECLUDE II49 basato sui dati del registro SWEDEHEART su oltre 100 000 pazienti con IM, dai quali si evince la concorrenza al rischio trombotico ed emorragico degli stessi fattori di rischio che, tuttavia, appare molto più importante rispetto all’aumento del rischio ischemico (da 5 a 9 volte) in confronto a quello emorragico (da 2 a 4 volte). Inoltre, così come risulta da recenti lavori50, il rischio emorragico in una popolazione con SCA è massimo nei primi 30 giorni e decresce nelle fasi successive in cui si registra, invece, una prevalenza del rischio ischemico su quello emorragico.

La DAPT a lungo termine, ossia il suo prolungamento oltre i 12 mesi dall’evento clinico inziale, riduce il rischio di recidive ischemiche in pazienti con pregressa SCA. Il beneficio è particolarmente significativo soprattutto nei pazienti con basso rischio emorragico, nei quali l’incidenza di eventi avversi è simile a quella registrabile in corso di terapia con solo ASA51. Pertanto, nel considerare una DAPT a lungo termine nel paziente con pregresso IM acuto è opportuno:

1. Considerare se il paziente abbia già seguito in passato la DAPT e valutare contestualmente come il paziente abbia tollerato tale trattamento. Pazienti che non hanno avuto eventi emorragici entro 12 mesi dall’avvio della DAPT hanno una bassa probabilità di andare incontro a complicanze significative in caso di prosecuzione della terapia.

2. Non considerare la DAPT in pazienti con evidente diatesi emorragica. Pazienti molto anziani, con patologia cerebrovascolare documentata, precarie condizioni emodinamiche, insufficienza renale severa, anemia persistente non dovrebbero essere avviati a questa terapia.

3. Indirizzare alla DAPT solo i pazienti con un più elevato profilo di rischio ischemico, quali pazienti diabetici, con malattia multivasale o con arteriopatia periferica, che abbiano presentato più di un evento coronarico acuto o con riduzione della funzionalità renale (velocità di filtrazione glomerulare stimata <60 ml/min/1.73 m2). In questi soggetti la DAPT a lungo termine può dare i migliori risultati clinici52.

Pertanto, giunti al termine dei 12 mesi dopo un IM, in assenza di ulteriori eventi, il paziente dovrebbe essere sottoposto ad una valutazione clinica che comprenda: (1) la stima del rischio ischemico residuo, (2) la stima del rischio emorragico.

In caso di dubbio, il rischio ischemico può essere efficacemente valutato ricorrendo ad algoritmi semplificati come il TIMI Risk Score for Secondary Prevention (TRS2°P) (Tabella 3)53. Pazienti con pregresso IM ed un punteggio ≥3 hanno una probabilità di eventi cardiovascolari avversi (morte cardiovascolare, ictus ischemico, IM) di circa il 5% per anno e dovrebbero essere considerati ad elevato rischio. In caso di dubbio rispetto al reale profilo di rischio emorragico, invece, la valutazione del rischio stesso può essere condotta ricorrendo a strumenti come lo score HAS-BLED (Tabella 4). Anche in assenza di fibrillazione atriale, infatti, questo algoritmo ha dimostrato la capacità di individuare i pazienti con minor rischio di complicanze emorragiche in corso di DAPT a lungo termine54,55.




CONCLUSIONI

Le evidenze scientifiche derivate dagli ultimi grandi studi di prevenzione secondaria hanno profondamente modificato le strategie di valutazione e trattamento del rischio residuo. Appare adesso chiaro il concetto che la distinzione manichea tra pazienti con o senza evento cardiovascolare acuto (prevenzione primaria vs secondaria) è superata da una valutazione più accurata del rischio cardiovascolare nei pazienti che hanno già subito un evento, fortemente improntata dalla storia clinica e dalle comorbilità. Dunque, i pazienti con pregresso evento non sono più assimilabili in un’unica categoria di rischio, ma il rischio di sviluppare un nuovo evento appare modulato da una serie di fattori che concorrono alla gestione della terapia di prevenzione secondaria soprattutto quando questa, come nel caso dei farmaci antipiastrinici ed anticoagulanti, sia associata ad un aumento del rischio di sanguinamento. Dunque, sarà compito del clinico la personalizzazione della terapia nel singolo paziente, guidata dalla valutazione del rapporto rischio/beneficio e dalla mutevolezza dello stesso, in relazione all’avanzare dell’età del paziente ed all’occorrenza di comorbilità che possano sostanzialmente modificare i rischi ischemico ed emorragico. In questo mutato contesto assume crescente rilevanza l’organizzazione dei sistemi sanitari che dovrebbero provvedere, attraverso articolazioni in collegamento tra le figure mediche territoriali, all’ottimizzazione delle strategie di prevenzione secondaria secondo le evidenze e le raccomandazioni delle linee guida internazionali.

RIASSUNTO

L’identificazione precoce dei pazienti con pregresso evento coronarico acuto esposti ad un elevato rischio di nuovi eventi ischemici è fondamentale per limitare il rischio residuo e contenere la spesa sanitaria. Efficaci misure di trattamento antitrombotico e di prevenzione secondaria sono tuttora disponibili per raggiungere tali obiettivi. In particolare, l’utilizzo della doppia terapia antiaggregante sia nei primi 12 mesi dopo un evento acuto che nel lungo termine si è dimostrato altamente efficace nel ridurre le complicanze aterotrombotiche nel paziente con pregresso evento coronarico. Lo snodo fondamentale nella gestione terapeutica di questi pazienti è il corretto inquadramento del rischio residuo ischemico e del potenziale rischio emorragico al fine di ottimizzare la scelta terapeutica scegliendo l’approccio ragionevolmente più adeguato, efficace e sicuro per migliorare la prognosi nel lungo termine. Obiettivo del presente articolo è riassumere le caratteristiche e la rilevanza delle strategie antitrombotiche post-sindrome coronarica acuta attualmente disponibili, focalizzando in particolare l’attenzione sull’importanza della riduzione del rischio residuo nel lungo termine.

Parole chiave. Doppia terapia antiaggregante; Prevenzione secondaria; Rischio residuo; Sindrome coronarica acuta; Sindromi coronariche croniche.

RINGRAZIAMENTI

Gli autori hanno concordato l’utilizzo di medical writers come supporto alla stesura del manoscritto. L’attività di medical writer è stata svolta dalla Dott.ssa Stefania Paolillo.

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