Duplice terapia antiaggregante di breve durata:
come, quando e perché

Valentina Ditali1, Chiara Carrozzi1, Sergio Leonardi1,2

1Università degli Studi, Pavia

2Unità di Terapia Intensiva Cardiologica, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia

Dual antiplatelet therapy (DAPT) is a cornerstone of antithrombotic treatment in patients undergoing percutaneous coronary intervention. The optimal duration of DAPT, i.e. the minimal period needed to ensure the best safety and efficacy, to prevent ischemic complications, including stent thrombosis, has been extensively explored in multiple randomized controlled trials over the last years. Accumulating evidence is supporting a clinical approach where there is a prevailing role of the risk of bleeding: in patients at high bleeding risk (HBR) it is generally advisable to reduce the duration of DAPT irrespective of their risk of thrombosis. In addition, among HBR patients, (i) new recommendations prefer direct oral anticoagulants (DOAC) over vitamin K antagonists in DOAC-eligible patients with atrial fibrillation and coronary artery disease; (ii) measures to minimize bleedings while on DAPT should be pursued, including de-escalation of P2Y12 receptor inhibitor therapy; and (iii) new studies are testing reversal strategies for short DAPT regimens, with early discontinuation of aspirin. In the present review, we discuss the rationale and decision-making considerations to reduce safely DAPT duration in HBR patients.

Key words. Antiplatelet agents; De-escalation; Dual antiplatelet therapy; High bleeding risk; High ischemic risk; Percutaneous coronary intervention.

CENNI STORICI DI DOPPIA ANTIAGGREGAZIONE NEI PAZIENTI SOTTOPOSTI A RIVASCOLARIZZAZIONE MIOCARDICA PERCUTANEA

La rivascolarizzazione miocardica percutanea ha assunto un ruolo fondamentale nel successo del trattamento della coronaropatia acuta e cronica1, grazie soprattutto alla doppia antiaggregazione piastrinica che si è affermata nella prevenzione delle complicanze trombotiche quali la trombosi intra-stent2-5.

Il trattamento antiaggregante prevedeva inizialmente l’uso di un singolo farmaco, l’aspirina (ASA), che inattiva in modo irreversibile la ciclossigenasi 1, presente nelle piastrine, con conseguente inibizione della sintesi di trombossano 2, un attivatore dell’aggregazione piastrinica6. Successivamente è stata introdotta una seconda classe di farmaci, le tienopiridine, il cui metabolita attivo agisce come antagonista irreversibile del recettore piastrinico dell’adenosina difosfato (ADP)3. La prima ad essere studiata è stata la ticlopidina, efficace nella riduzione del rischio di trombosi intra-stent in associazione all’ASA rispetto alla sola ASA o all’associazione ASA e warfarin2-5, ma gravata da effetti avversi importanti, tra cui neutropenia fatale7,8.

Il clopidogrel, tienopiridina di seconda generazione, ha mostrato un profilo di sicurezza migliore. La duplice antiaggregazione con ASA e clopidogrel è stata testata in un ampio trial multicentrico, lo studio CURE9, condotto su 12 562 pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA) senza sopraslivellamento del tratto ST (SCA-NSTE) dimostrando a 30 giorni e a un follow-up di 12 mesi, una riduzione del 20% del rischio dell’endpoint primario composito di infarto miocardico non fatale, ictus o morte da causa cardiovascolare (hazard ratio [HR] 0.8, intervallo di confidenza [IC] 95% 0.72-0.90; p<0.001) rispetto alla sola ASA come pure delle componenti dell’endpoint (l’infarto miocardico è risultato ridotto del 23% [HR 0.77, IC 95% 0.67-0.89; p<0.001], la mortalità cardiovascolare del 7% [HR 0.93, IC 95% 0.79-1.08; p<0.001] e l’ictus del 14% [HR 0.86, IC 95% 0.63-1.18; p<0.001]). Alcuni pazienti tuttavia permangono a elevato rischio di eventi trombotici nonostante l’associazione con clopidogrel a causa di una resistenza farmacologica ed un’insufficiente inibizione dell’aggregazione. Tale variabilità di risposta clinica al clopidogrel ha eziologia multifattoriale: polimorfismi genetici (per enzimi e recettori), fattori clinici e cellulari (Figura 1)7,10.

Il clopidogrel, assunto oralmente come tutte le tienopiridine, viene rapidamente assorbito dalla mucosa intestinale come pro-farmaco, successivamente attivato da un complesso di isoenzimi epatici (citocromo P450) mediante due reazioni sequenziali. La prima reazione comporta la formazione di 2-oxo-clopidogrel, a sua volta convertito in metabolita attivo tiolico rilasciato in circolo. Tra i polimorfismi studiati, quello più comune è il CYP2C19*2, variante allelica che porta a una riduzione del processo di biotrasformazione11.




Sono stati per questo sviluppati inibitori orali più potenti e con risposta meno variabile che sono stati associati a una riduzione degli eventi ischemici nei pazienti con SCA se paragonati al clopidogrel: prasugrel e ticagrelor12. Il prasugrel è una tienopiridina di terza generazione, la cui efficacia clinica, in pazienti con SCA ad alto rischio sottoposti a procedura coronarica percutanea (PCI) (SCA-NSTE con esordio dei sintomi ≤72 h e TIMI risk score ≥3 e infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST [STEMI] con esordio dei sintomi tra 12 h e 14 giorni sottoposti a coronarografia ed indicazione a rivascolarizzazione percutanea; STEMI ≤12 h dall’esordio dei sintomi da sottoporre a PCI primaria), rispetto al clopidogrel, entrambi in associazione ad ASA, è stata dimostrata nello studio clinico randomizzato, in doppio cieco, TRITON-TIMI 38. L’endpoint primario (morte da causa cardiovascolare, infarto miocardico o ictus non fatale) si osservava nel 12.1% nel gruppo clopidogrel vs 9.9% nel gruppo prasugrel (HR prasugrel vs clopidogrel: 0.81, IC 95% 0.73-0.90; p<0.001) con aumento però sia dei sanguinamenti minacciosi per la vita (prasugrel vs clopidogrel: 1.4% vs 0.9%; p=0.01) che di emorragie fatali (0.4% vs 0.1%; p=0.002)13.

Il ticagrelor, primo membro di una nuova classe di bloccanti del recettore piastrinico dell’ADP, le ciclo-pentil-triazolo-pirimidine, è un inibitore diretto reversibile del recettore P2Y12 che agisce come metabolita attivo. Efficacia e sicurezza dell’uso del ticagrelor associato ad ASA rispetto allo “standard of care” sono state validate dal trial clinico PLATO, randomizzato, in doppio cieco, in pazienti con SCA (SCA-NSTE e STEMI) arruolati entro 24 h dall’insorgenza dei sintomi e indirizzati a qualsiasi strategia terapeutica (invasiva o conservativa). L’endpoint primario combinato (morte da causa cardiovascolare, infarto miocardico ed ictus) a 12 mesi si verificava nel 9.8% dei pazienti trattati con ticagrelor rispetto all’11.7% del braccio clopidogrel (HR 0.84, IC 95% 0.77-0.92; p<0.001), ma con un aumento dei sanguinamenti maggiori non correlati a bypass aortocoronarico (2.8% vs 2.2% secondo la classificazione TIMI; 4.5% vs 3.8% secondo la classificazione PLATO) senza una differenza statisticamente significativa in termini di emorragie fatali totali (0.3% in entrambi i gruppi)14.

Il prasugrel e, con meno restrizioni, il ticagrelor hanno pertanto una forte indicazione (classe di raccomandazione IA) nel paziente con SCA sottoposto a PCI rispetto al clopidogrel nelle linee guida europee ed americane15.

DAPT TRIAL E DAPT SCORE: IL PRIMO TENTATIVO DI COMBINARE RISCHIO TROMBOTICO ED EMORRAGICO NEL DECIDERE LA DURATA DELLA DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE

Le evidenze indicate confermano che la duplice terapia antiaggregante (DAPT) mitiga il rischio ischemico a breve e lungo termine, seppur esponga a un rischio di sanguinamento direttamente proporzionale alla sua durata.

Nel 2017 due aggiornamenti, rispettivamente dalle linee guida europee ed americane, hanno fornito raccomandazioni sulla durata della DAPT nel paziente sottoposto a PCI ed impianto di stent medicato (DES): 12 mesi nella SCA, 6 mesi nella sindrome coronarica cronica. Tuttavia, viene chiaramente indicato che la durata ottimale della DAPT deve essere individualizzata in base al rischio ischemico/trombotico ed emorragico (Figura 2)15-17 suggerendo (classe di raccomandazione IIbA) l’uso di score espliciti di quantificazione combinata del rischio ischemico ed emorragico per scegliere la durata della DAPT.




Il primo score sviluppato per questo è stato il DAPT score (Figura 3)16, derivato dallo studio DAPT come strumento di stratificazione del rischio ischemico ed emorragico per identificare i soggetti che avrebbero potuto trarre beneficio di una prosecuzione della DAPT (ASA + tienopiridina) oltre 12 mesi. Complessivamente, 9961 soggetti sottoposti a PCI con impianto di DES (>60% dei casi stent di seconda generazione a rilascio di zotarolimus o everolimus, nei restanti stent di prima generazione a rilascio sirolimus o paclitaxel) in assenza di eventi avversi dopo 12 mesi di DAPT, sono stati randomizzati a sospensione della tienopiridina (sola ASA) o mantenimento della DAPT per ulteriori 18 mesi (ASA e clopidogrel nel 64% dei casi; ASA e prasugrel nei rimanenti). A 30 mesi dalla PCI, nei pazienti con DAPT prolungata si è osservata una riduzione della trombosi intra-stent (0.4% vs 1.4; HR 0.29, IC 95% 0.17-0.48; p<0.001) e degli eventi avversi cardio- e cerebrovascolari maggiori (infarto, ictus e morte da causa cardiaca: 4.3% vs 5.9%; HR 0.71, IC 95% 0.59-0.85; p<0.001) con aumento del rischio delle complicanze emorragiche di grado moderato, ma in assenza di differenze per i sanguinamenti maggiori o fatali, secondo la classificazione GUSTO (Global Use of Strategies to Open Occluded Arteries)18.

Lo score DAPT, il primo formulato per quantificare in modo combinato il rischio ischemico ed emorragico, considera 9 variabili predittive (età, scompenso cardiaco/disfunzione ventricolare sinistra, bypass con graft venoso, infarto miocardico alla presentazione, pregresso infarto miocardico o PCI, diabete, diametro stent <3 mm, tabagismo e DES a rilascio di paclitaxel), per un range di punteggio tra -2 e +10. Uno score ≥2 definisce il paziente a rischio ischemico/trombotico prevalente che può beneficiare di una DAPT prolungata (dopo 12 mesi di DAPT in assenza di ulteriori eventi ischemici o emorragici) a parità di un modesto incremento del rischio di sanguinamento18. Un punteggio <2 definisce invece i pazienti in cui prevale il rischio emorragico DAPT-relato rispetto a quello ischemico. Un limite importante del DAPT score è la bassa calibrazione, ovvero non è stato validato in altri dataset e l’unico studio che ha perseguito tale obiettivo ha mostrato uno scarso potere predittivo.




PRECISE-DAPT SCORE: STRATIFICAZIONE PRECOCE DEL RISCHIO TROMBOTICO ED EMORRAGICO NEL DECIDERE LA DURATA DELLA DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE

Il PRECISE-DAPT, al contrario, si focalizza nella predizione delle complicanze emorragiche precoci post-dimissione ospedaliera nel paziente sottoposto a PCI, ed è stato formulato per decidere la durata della DAPT al momento della dimissione per l’evento indice. In base a 5 predittori (età, clearance della creatinina, emoglobina, conta leucocitaria basale e pregressa emorragia spontanea) vengono distinte quattro fasce di rischio: 1) molto basso (fino ad un punteggio di 15 che corrisponde a un rischio di sanguinamento maggiore o minore dello 0.9%); 2) basso (fino a 17); 3) moderato (fino a 24); 4) alto (per un punteggio ≥25 con rischio di sanguinamento dell’1.8%). Esso è stato validato in 8595 pazienti sottoposti a PCI del trial PLATO e in 6172 partecipanti al registro BernPCI. Come si evince dalla Figura 4, una durata maggiore della DAPT ha significativamente aumentato i sanguinamenti in pazienti ad alto rischio (punteggio ≥25; p=0.005), ma non in quelli con profili di rischio più basso, in assenza di un vantaggio ischemico significativo (p=0.48)19.

Questo score fornisce indicazioni utili sull’opportunità di ridurre la durata della DAPT: i pazienti con un punteggio ≥25 potrebbero essere sottoposti al trattamento per soli 3-6 mesi.

I punteggi di rischio, come il PRECISE-DAPT, non sono, però, un sostituto della valutazione critica che deve considerare altri fattori individuali (non inclusi) come coagulopatie o epatopatia (da cui la necessità di identificare parametri clinici di alto rischio emorragico (HBR) come proposto dall’Academic Research Consortium). Bisogna inoltre sottolineare che la definizione del rischio, soprattutto emorragico, è dinamica e va rivalutata periodicamente19.




DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE: SCELTA DELL’INIBITORE DEL RECETTORE P2Y12 IN ACUTO

In pazienti con SCA prasugrel e ticagrelor (in assenza di controindicazioni quali pregressa emorragia intracranica o sanguinamento in atto e, per prasugrel, anche pregresso attacco ischemico transitorio o ictus ischemico, età ≥75 anni o peso <60 kg) sono la prima scelta (classe di raccomandazione IA) rispetto al clopidogrel.

Per quanto riguarda il pre-trattamento farmacologico, ovvero l’utilità o meno della somministrazione del secondo antiaggregante (in dose da carico, 600 mg per clopidogrel, 60 mg per prasugrel e 180 mg per ticagrelor) prima dell’eventuale PCI, secondo le linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) in caso di SCA-NSTE si può considerare ticagrelor o clopidogrel (quando il ticagrelor non è un’opzione) prima dell’angiografia (classe di raccomandazione IIa) mentre il prasugrel, sulla base dello studio ACCOAST20, non è raccomandato (classe di raccomandazione III) se l’anatomia coronarica non è ancora conosciuta. Per gli STEMI, invece, il trattamento con inibitori del recettore P2Y12 al momento della diagnosi è sempre raccomandato13.

Il cangrelor è un altro inibitore potente, selettivo e reversibile del recettore piastrinico P2Y12, somministrato per via endovenosa, utile nei pazienti in cui non è possibile o desiderabile l’uso di antiaggreganti orali, ad esempio in presenza di nausea o vomito, somministrazione di morfina, alterazione della perfusione gastrointestinale o shock8.

ALTO RISCHIO EMORRAGICO: COME DEFINIRLO, QUANTIFICARLO E SOPRATTUTTO RIDURLO

Eterogeneità fenotipica dei sanguinamenti e stima del rischio emorragico

La descrizione della popolazione HBR candidata a PCI è il primo passo nella definizione della durata ottimale della terapia antiaggregante. Sono stati proposti diversi score espliciti di sanguinamento per decidere la durata ottimale della DAPT, tra cui il PRECISE-DAPT e il DAPT (raccomandati nelle linee guida ESC), che considerano diverse caratteristiche individuate come criteri di “rischio emorragico” (Tabella 1)21.




Un recente documento di consenso redatto dal gruppo Academic Research Consortium ha cercato di fare chiarezza nella complessa definizione del paziente HBR. In questo documento, HBR è definito come un rischio ≥4% a 1 anno di sanguinamento maggiore di tipo 3 o 5 secondo la classificazione del Bleeding Academic Research Consortium (BARC) o un rischio di emorragia intracranica ≥1% a 1 anno. I fattori di rischio maggiori soddisfano da soli questo livello di rischio, quelli minori sono in grado di conferire un rischio di emorragia BARC 3 o 5 <4% a 1 anno. Venti criteri clinici sono riconosciuti come criteri maggiori e minori nel documento ARC-HBR e i pazienti che abbiano almeno un criterio maggiore o almeno due minori sono ad alto rischio emorragico (Tabella 2)21.

Tra i criteri maggiori figurano diversi fattori clinici non inclusi in molti score di rischio: diatesi emorragica, neoplasia attiva, trombocitopenia, cirrosi epatica, insufficienza renale cronica e terapia anticoagulante orale (TAO). Allo stesso modo diversamente rappresentati i sanguinamenti: con maggiore specificità per i sanguinamenti intracranici spontanei e un generico riferimento a sanguinamenti spontanei in atto che richiedano intervento medico. Oltre a questi fattori si aggiungono altre variabili con evidenza incerta, tra cui la fragilità, l’etnia, lo scenario clinico acuto, la mancata aderenza alla DAPT.




Primum non nocere: evoluzione clinica verso approcci di enfatizzazione del rischio emorragico

L’importanza della stima del rischio emorragico ha implicazioni importanti sulla scelta della durata della DAPT. Una recente analisi del PRECISE-DAPT dataset ha diviso 14 963 soggetti rispettivamente in HBR (PRECISE-DAPT ≥25) e non-HBR (PRECISE-DAPT <25) e in elevato rischio ischemico/trombotico (caratteristiche di PCI complessa) o meno. Nei pazienti HBR (PRECISE DAPT ≥25), indipendentemente dalla complessità della PCI (e quindi del rischio ischemico), il prolungamento della DAPT era associato ad un aumento dei sanguinamenti senza benefici in termini di riduzione degli eventi ischemici e della mortalità22, un’osservazione che indica come la definizione del rischio emorragico sia prioritaria su quella del rischio ischemico/trombotico e vada quindi fatta prioritariamente. Va rilevato però come non siano stati presi in considerazione pazienti in TAO, una categoria peculiare di HBR, e quindi potenziale candidata a DAPT di breve durata.

Categorie peculiari di alto rischio emorragico: il paziente in terapia antiaggregante e anticoagulante orale

Il 6-8% dei pazienti sottoposti a PCI ha un’indicazione a TAO a lungo termine (es. per fibrillazione atriale) che, come prevedibile, aumenta il rischio emorragico. In questo contesto le linee guida ESC 2019 sulla malattia coronarica stabile raccomandano l’uso del clopidogrel con ASA (classe di raccomandazione IC) in associazione, nei pazienti eleggibili, agli anticoagulanti orali diretti (DOAC: apixaban 5 mg bid; dabigatran 150 mg bid; edoxaban 60 mg/die; rivaroxaban 20 mg/die) come prima scelta (classe di raccomandazione IA) rispetto agli antagonisti della vitamina K (AVK).

Se prevale il rischio ischemico: (a) nella malattia coronarica stabile (nei casi con pregressa trombosi intra-stent o inadeguata terapia antiaggregante; stenting dell’ultima arteria coronaria rimasta pervia; malattia multivasale specialmente in diabetici; insufficienza renale cronica; almeno tre lesioni sottoposte a trattamento, trattamento di una biforcazione con due stent; lunghezza totale dello stent >60 mm; riapertura di un’occlusione coronarica cronica) è raccomandata la triplice terapia per almeno 1 mese (classe di raccomandazione IIa) indipendentemente dal tipo di stent; (b) nei casi con presentazione acuta (SCA) o in caso di particolare complessità anatomica/procedurale è raccomandata la triplice terapia antitrombotica fino a 6 mesi. Successivamente è indicata una duplice terapia con un singolo antiaggregante (ASA o clopidogrel) + TAO per altri 6 mesi. Dopo 12 mesi complessivi, le evidenze attuali raccomandano la prosecuzione della sola TAO (classe di raccomandazione IIa). A supporto di questa indicazione vi è lo studio AFIRE in cui rivaroxaban 15 mg/die (10 mg/die se clearance della creatinina 15-49 ml/min) in monoterapia si è rivelato non inferiore alla duplice terapia antitrombotica (tasso di incidenza annua di ictus, embolismo sistemico, infarto miocardico, angina instabile richiedente PCI e morte per tutte le cause 4.14% vs 5.75%; HR 0.72, IC 95% 0.55-0.95; p<0.001 per non inferiorità) in pazienti con fibrillazione atriale e malattia coronarica stabile che non necessitino di PCI o a distanza di oltre 1 anno dalla PCI o dal bypass aortocoronarico. Tale trial è stato inoltre interrotto precocemente per l’aumento del tasso di mortalità per tutte le cause nei pazienti in duplice terapia (3.37% vs 1.85%; HR 0.55, IC 95% 0.38-0.81)23.

Nei pazienti in cui prevale il rischio emorragico (profilo sfavorevole: prognosi scadente, neoplasia in atto, scarsa aderenza alla terapia, malattia renale cronica in fase terminale, decadimento cognitivo severo, pregresso sanguinamento maggiore/ictus emorragico, età avanzata, abuso di alcool, anemia, sanguinamento clinicamente significativo in DAPT) è indicata: (a) la triplice terapia antitrombotica per 1 mese (classe di raccomandazione IIa); (b) a seguire (o direttamente) DOAC + clopidogrel (controindicati prasugrel e ticagrelor in triplice regime) fino a 12 mesi (classe di raccomandazione IIa). In questo caso è possibile considerare (classe di raccomandazione IIa) l’assunzione di dosi ridotte di rivaroxaban (15 mg) o dabigatran (110 mg bid) (Figura 5)16. Diversi studi attualmente in corso si propongono di definire meglio la strategia ottimale in questi pazienti (es. MASTER-DAPT, NCT03023020).




I DOAC, anticoagulanti orali non vitamina K-dipendenti, differiscono in modo importante dai dicumarolici. Quattro agenti sono attualmente approvati per uso clinico: dabigatran (inibitore diretto della trombina), apixaban, edoxaban e rivaroxaban (inibitori diretti del fattore Xa). Questi sono oramai da preferire in virtù del profilo di rischio/beneficio vantaggioso rispetto agli AVK osservato in tutti gli studi, la minore interazione farmacologica e la garanzia di una migliore stabilità dell’anticoagulazione.

Negli ultimi anni sono stati condotti e conclusi studi clinici randomizzati che hanno confrontato i DOAC, spesso in presenza di regimi terapeutici che non prevedevano l’uso di ASA (duplice terapia antitrombotica) rispetto alla triplice terapia con AVK. Il primo è stato il piccolo studio WOEST (What is the Optimal antiplatElet and anticoagulant therapy in patients with oral anticoagulation and coronary StenTing) (n = 573), in aperto, che ha mostrato a 12 mesi di follow-up come la sospensione dell’ASA (AVK + clopidogrel) rispetto alla triplice con AVK si associasse a una riduzione di emorragie clinicamente significative (triplice terapia vs duplice terapia: 44.9% vs 19.5%; HR 0.36, IC 95% 0.26-0.50; p<0.0001) in assenza di incremento di eventi cardiovascolari maggiori (HR 0.6, IC 95% 0.38-0.94; p<0.025)24.

In seguito sono stati testati i DOAC. Nel 2016 lo studio clinico randomizzato PIONEER AF-PCI (n = 2100) ha confrontato tre diverse strategie di trattamento in pazienti con fibrillazione atriale sottoposti a PCI: (1) la combinazione rivaroxaban 15 mg e inibitore del recettore piastrinico P2Y12 (clopidogrel 75 mg/die o ticagrelor 90 mg bid o prasugrel 10 mg/die); (2) rivaroxaban 2.5 mg bid, ASA 75-100 mg/die + inibitore piastrinico P2Y12; (3) AVK (international normalized ratio [INR] 2.0-3.0), ASA 75-100 mg/die + inibitore piastrinico P2Y12. È stata osservata una riduzione significativa a 12 mesi dell’incidenza di sanguinamenti clinicamente significativi nei due gruppi che assumevano rivaroxaban rispetto al gruppo in terapia con AVK + DAPT (16.8% nel gruppo 1, 18% nel gruppo 2, 26.7% nel gruppo 3 [controllo]; gruppo 1 vs gruppo 3: HR 0.59, IC 95% 0.47-0.76; p<0.001; gruppo 2 vs gruppo 3: HR 0.63, IC 95% 0.50-0.80; p<0.001)]25. Allo stesso modo un altro trial con disegno simile, il RE-DUAL PCI, nel 2017 ha mostrato una minor incidenza di sanguinamenti maggiori e clinicamente rilevanti nei bracci di studio con associazione dabigatran 150 mg bid o 110 mg bid + inibitore P2Y12 rispetto alla triplice terapia con AVK26.

Nel 2019 è stato pubblicato il trial clinico AUGUSTUS, studio che ha randomizzato pazienti (n = 4614) con fibrillazione atriale e recente SCA o PCI a due gruppi di confronto diversi con disegno fattoriale 2 x 2: (fattore 1, in aperto), randomizzazione 1:1, ad assumere apixaban a dose standard (5 mg bid o 2.5 mg bid in presenza di almeno due dei seguenti criteri: età ≥80 anni; peso <60 kg; creatinina ≥1.5 mg/dl) o AVK; (fattore 2, in cieco) randomizzazione 1:1 ad ASA o placebo. In tutti i pazienti era prevista la concomitante assunzione di un inibitore del recettore piastrinico P2Y12. Nel primo confronto è stata documentata una riduzione di sanguinamenti maggiori e non maggiori ma clinicamente rilevanti secondo la classificazione dell’International Society on Thrombosis and Haemostasis (ISTH) per apixaban rispetto ad AVK (HR 0.69, IC 95% 0.58-0.81; p<0.001 per non inferiorità e superiorità). Inoltre è stata evidenziata una significativa riduzione delle ospedalizzazioni per tutte le cause (HR 0.83, IC 95% 0.74-0.93) ed una riduzione del 50% del rischio di ictus nei pazienti randomizzati ad apixaban rispetto a quelli in AVK (HR 0.5, IC 95% 0.26-0.97), senza differenze significative sugli altri endpoint ischemici27.

Nel secondo fattore, nel braccio ASA veniva osservato un aumento del rischio dell’endpoint primario di sanguinamenti (maggiori e non maggiori ma clinicamente rilevanti ISTH; HR 1.89, IC 95% 1.59-2.24; p<0.001) a 6 mesi ma un aumento numerico delle complicanze trombotiche, tra cui la trombosi di stent, con la maggior parte dei casi (24/30 casi, 80%) nel primi 30 giorni, che suggerisce 1 mese come possibile durata ottimale della DAPT in questa categoria di pazienti28.

Lo studio ENTRUST-AF PCI in 1506 pazienti con fibrillazione atriale candidati a PCI ha dimostrato l’endpoint di non inferiorità del trattamento con edoxaban + inibitore P2Y12 rispetto al regime di triplice terapia con AVK, in termini di sanguinamenti maggiori o non maggiori clinicamente rilevanti ISTH in un periodo di 12 mesi (incidenza 17%, annualizzato 20.7% vs 20.1%, annualizzato 25.6%; HR 0.83, IC 95% 0.65-1.05; p=0.0010 per non inferiorità). In termini di endpoint di superiorità ha fallito senza raggiungere la significatività statistica (p=0.1154). Si è verificato, infatti, un inaspettato aumento dell’incidenza di sanguinamenti nel braccio edoxaban + inibitore P2Y12 rispetto ad AVK + DAPT nei primi 14 giorni, con una inversione del trend dopo i primi 14 giorni (beneficio della duplice terapia antitrombotica con edoxaban a lungo termine). Da notare che un numero considerevole di pazienti randomizzati ad AVK + DAPT aveva valori sub-terapeutici di INR (<2) nelle prime 2 settimane post-procedura. Questo potrebbe spiegare in parte questa osservazione e richiede una riflessione sul timing dell’inizio della terapia con DOAC dopo PCI, in particolare nelle prima settimana dall’evento indice29.

Una metanalisi che ha incluso i 4 trial randomizzati controllati con DOAC (n = 10 234) che hanno confrontato la duplice con la triplice terapia antitrombotica, evidenzia il maggiore profilo di sicurezza in termini di riduzione di sanguinamenti maggiori o clinicamente rilevanti ISTH della duplice terapia antitrombotica (rischio relativo [RR] 0.66, IC 95% 0.56-0.78; p<0.0001) in assenza tuttavia di significative differenze in termini di eventi ischemici maggiori (morte per tutte le cause, morte da causa cardiaca, ictus). Tale beneficio è tuttavia controbilanciato da un aumento del rischio di trombosi intra-stent associato all’utilizzo della duplice terapia antitrombotica (RR 1.59, IC 95% 1.01-2.50; p=0.04)30 (Tabella 3).




In conclusione, (a) nei pazienti eleggibili (es. in assenza di insufficienza renale severa, stenosi mitralica moderato-severa o portatori di protesi valvolare meccanica) i DOAC andrebbero sempre preferiti rispetto agli AVK, principalmente sulla base dei risultati dello studio AUGUSTUS; (b) la durata della DAPT andrebbe scelta sulla base del rischio prevalente (trombotico vs emorragico) con una durata di almeno 1 mese nella maggior parte dei pazienti sottoposti a PCI; e (c) per tutti i pazienti dovrebbero essere adottate delle misure di minimizzazione dei sanguinamenti.

Misure per minimizzare il rischio di sanguinamento durante duplice terapia antiaggregante

Oltre a quantificare il rischio emorragico, è essenziale definire quali siano i modi per ridurlo. Le linee guide europee, principalmente sulla base dello studio clinico MATRIX raccomandano (classe di raccomandazione I) l’uso sistematico dell’accesso transradiale, rispetto a quello transfemorale, per la coronarografia ed eventuale PCI, in quanto quest’ultimo risulta associato a un minor rischio di emorragia maggiore (BARC 3 e 5) nonché a un’incidenza inferiore di necessità di riparazione chirurgica di complicanze vascolari o di emotrasfusione31,32.

La somministrazione di basse dosi di ASA (≤100 mg), rispetto a dosi più elevate, ha dimostrato una riduzione delle emorragie totali e maggiori, per cui il dosaggio standard approvato (classe di raccomandazione IA) per minimizzare i sanguinamenti ma assicurare comunque un’adeguata protezione dagli eventi ischemici è tra 75-100 mg/die16.

Tra le complicanze emorragiche serie più comuni in corso di DAPT vi sono poi le emorragie gastrointestinali, per cui è raccomandato (classe di raccomandazione IB) l’uso di inibitori di pompa protonica, privilegiando pantoprazolo e rabeprazolo che, rispetto a omeprazolo e esomeprazolo, mostrano una inferiore interazione farmacologica con gli antiaggreganti33. In questo contesto è orientata anche la scelta di passare da un antiaggregante più potente (prasugrel o ticagrelor) ad uno meno potente, quale il clopidogrel, nell’ottica di quella che prende il nome di “de-escalation”.

TERAPIA DI “DE-ESCALATION”

Una strategia alternativa alla DAPT di breve durata nel paziente HBR è la “de-escalation”, ovvero il passaggio, in seguito al trattamento con un farmaco inibitore del recettore P2Y12 potente nella fase acuta, ad una terapia di mantenimento con clopidogrel associato ad ASA34. Questo termine implica pertanto una riduzione dell’intensità dell’antagonismo del recettore piastrinico dell’ADP da considerare quando prevalga clinicamente il rischio emorragico14,16.

Il razionale di questa strategia risiede nel fatto che dopo una SCA il rischio emorragico è meno tempo-dipendente di quello trombotico. In particolare, il rischio di trombosi dello stent si riduce rapidamente dopo il primo mese13,14. Inoltre, nella pratica clinica si stima una prevalenza di utilizzo della “de-escalation”, seppur in assenza di chiare evidenze scientifiche riguardo a tale scelta terapeutica, che arriva fino al 28%35, per ragioni diverse (socio-economiche o che riguardano un aumentato rischio emorragico o effettivi eventi avversi emorragici).

Sulla base di queste considerazioni nel 2017 il trial TOPIC (n = 646) in pazienti con SCA trattati mediante PCI ed in DAPT con ticagrelor o prasugrel liberi da eventi cardiovascolari maggiori nel primo mese, ha provato che la “de-escalation” dopo 1 mese comporta una riduzione relativa dell’endpoint primario composito (mortalità, ictus, necessità di rivascolarizzazione urgente e sanguinamenti clinicamente rilevanti) del 52% rispetto al gruppo di controllo (26.3 vs 13.4%; HR 0.48, IC 95% 0.34–0.68; p<0.01), differenza dovuta ad una riduzione del rischio di eventi emorragici in assenza di significative disparità di incidenza di eventi ischemici tra i due gruppi36. Sempre nel 2017 il trial TROPICAL-ACS ha valutato la “de-escalation” in un gruppo (n = 2610) con infarto miocardico trattato mediante PCI e randomizzato, alla dimissione, a DAPT con prasugrel per 12 mesi o a DAPT con prasugrel per 1 settimana seguito da clopidogrel per 1 settimana, per poi eseguire prove di funzionalità piastrinica per decidere se proseguire con clopidogrel (60% dei casi nel gruppo di studio) o ripristinare il prasugrel (40% dei casi nel gruppo di studio), dimostrando che la “de-escalation” guidata dalla valutazione dei singoli pazienti con prove di funzionalità piastrinica è non inferiore all’approccio standard in termini di beneficio clinico netto (endpoint primario di morte da causa cardiaca, infarto, ictus o emorragia BARC di grado ≥2 a 12 mesi: 7% vs 9%; p=0.0004 per non inferiorità), senza un aumento del rischio ischemico (3% vs 3%; p=0.0115 per non inferiorità)37.

Per questo motivo la terapia di “de-escalation” è considerata nelle attuali linee guida (classe di raccomandazione IIbB)16. Fattori limitanti comuni a questi trial sono: l’esclusione dei pazienti a maggior rischio ischemico, il fatto che non siano stati potenziati per poter riscontrare un’eventuale differenza di eventi aterotrombotici e soprattutto che non siano stati specificatamente inclusi pazienti HBR. Sebbene esuli dal contesto della “de-escalation”, un’alternativa per personalizzare la DAPT è quella guidata dalla genotipizzazione, basandosi sulla presenza di “non-responder” al clopidogrel12. Nel 2019 il trial POPular genetics ha osservato come 12 mesi di DAPT con clopidogrel dopo uno STEMI in pazienti non portatori della mutazione del gene CYP2C19 risulti non inferiore all’approccio standard con una riduzione del rischio emorragico38.

RACCOMANDAZIONI SULLA DURATA DELLA DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE

Secondo le nuove linee guida ESC, la durata della DAPT nei pazienti con coronaropatia stabile sottoposti a PCI dovrebbe essere compresa fra 1 e 6 mesi a seconda del rischio emorragico (PRECISE-DAPT ≥25), ma si può prendere in considerazione una DAPT più lunga nei pazienti il cui rischio ischemico sia molto superiore al rischio di sanguinamento. Al contrario nei pazienti con SCA la durata della DAPT dovrebbe essere di 12 mesi, indipendentemente dalla strategia di rivascolarizzazione (terapia medica, PCI o bypass aortocoronarico). È possibile ridurla a 6 mesi nei pazienti con un rischio di emorragico elevato, prevalente su quello ischemico. Invece, si può prendere in considerazione una terapia di durata superiore all’anno nei pazienti con pregresso infarto miocardico che hanno tollerato la DAPT senza complicanze emorragiche (es. DAPT score ≥2) (Figura 6)16.




NUOVE EVIDENZE SULLA DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE DI BREVE DURATA

Verso una monoterapia con inibitore del recettore P2Y12 e una sospensione precoce dell’aspirina?

Mentre per anni la ricerca si è concentrata sulla riduzione della durata di trattamento con il bloccante recettoriale dell’ADP ed una continuazione indefinita dell’ASA, recentemente due studi randomizzati controllati hanno testato una DAPT di breve durata “inversa” nella popolazione di pazienti sottoposti a PCI in assenza di fibrillazione atriale: sospensione precoce dell’ASA e continuazione con l’inibitore P2Y12 in monoterapia39. È noto infatti l’incremento del rischio emorragico associato all’ASA (emorragie gastrointestinali ed intracraniche)40,41. L’avvento di nuovi antiaggreganti orali più potenti e con effetto prevedibile ha quindi reso possibile questa opportunità.

Trial clinici di confronto aspirina versus inibitori del recettore P2Y12

Lo studio CAPRIE, pubblicato nel 1996, che ha arruolato 19 185 pazienti con storia di recente ictus, infarto o arteriopatia periferica, è stato il primo grande studio che ha confrontato clopidogrel vs ASA, dimostrando la superiorità del primo nel ridurre il rischio relativo di ictus ischemico, infarto o morte per cause cardiovascolari. È stato inoltre osservato un tasso inferiore di sanguinamenti gastrointestinali42.

Studi recenti hanno saggiato l’ipotesi che la sospensione precoce dell’ASA possa essere utile anche in pazienti senza una indicazione alla TAO.

Nel GLOBAL LEADERS pazienti sottoposti a PCI (sia SCA che con coronaropatia stabile) sono stati randomizzati a DAPT (ASA + ticagrelor) per 1 mese e a seguire solo ticagrelor per ulteriori 23 mesi. Il braccio di controllo ha ricevuto terapia standard costituita da 12 mesi di DAPT (ASA + ticagrelor in SCA, ASA + clopidogrel in sindrome coronarica cronica) e a seguire 12 mesi di sola ASA. A 24 mesi la monoterapia nel braccio sperimentale non si è dimostrata superiore al controllo in termini di riduzione dell’endpoint primario combinato di mortalità per tutte le cause o infarto miocardico di tipo Q non fatale (RR 0.87, IC 95% 0.75-1.01; p=0.07)43.

Un successivo sottostudio del GLOBAL LEADERS, il GLASSY, utilizzando procedure di aggiudicazione sistematica degli eventi clinici in 7585 soggetti, ha verificato la non inferiorità e la sicurezza del trattamento sperimentale rispetto al gruppo di controllo. In termini di endpoint primario di non inferiorità la DAPT con ticagrelor per 1 mese seguita da monoterapia non ha esposto a un maggior rischio di mortalità per tutte le cause, infarto miocardico e ictus non fatale e necessità di rivascolarizzazione urgente, in assenza tuttavia di significativa superiorità (sperimentale vs controllo 7.1% vs 8.4%; p<0.001 per non inferiorità; p=0.0465 per superiorità) senza differenze tra i due gruppi in analisi per emorragie (BARC 3 e 5: 2.5% vs 2.5%; p=0.99)44.

In seguito, lo studio clinico in doppio cieco TWILIGHT ha confrontato la monoterapia con ticagrelor 90 mg bid vs DAPT (ASA + ticagrelor) in pazienti a rischio ischemico moderato senza alto rischio emorragico dopo 3 mesi di DAPT post-PCI. La monoterapia con ticagrelor dopo 3 mesi di DAPT rispetto allo standard (ulteriori 12 mesi di DAPT) ha ridotto significativamente i sanguinamenti di tipo 2, 3 e 5 secondo la classificazione BARC (4% vs 7.1%; p<0.001), raggiungendo al contempo l’endpoint secondario di non inferiorità in termini incidenza di eventi ischemici45.

Nuovi studi, tra cui l’ASET (Acetyl-Salicylic Elimination Trial) stanno valutando la fattibilità e la sicurezza di un regime senza ASA somministrando già in prima giornata post-procedura il solo prasugrel46.

RIASSUNTO

La duplice terapia antiaggregante (DAPT) costituisce il cardine della terapia antitrombotica dopo rivascolarizzazione miocardica percutanea. La durata ottimale della DAPT, cioè il periodo minimo per prevenire in modo sicuro complicanze trombotiche, tra cui la trombosi intra-stent ,è stata oggetto negli ultimi anni di intensa ricerca clinica. Le evidenze attuali hanno consentito un’evoluzione dell’approccio clinico che privilegia nella strategia decisionale il ruolo del rischio emorragico: in pazienti ad alto rischio emorragico (HBR) è generalmente preferibile minimizzare la durata della DAPT, indipendentemente dal rischio trombotico. Inoltre nei pazienti HBR, (a) devono essere sistematicamente preferiti gli anticoagulanti orali diretti rispetto al warfarin nei pazienti eleggibili con fibrillazione atriale e cardiopatia ischemica; (b) devono essere sistematicamente adottate misure per minimizzare i sanguinamenti, tra cui la “de-escalation” degli inibitori del recettore P2Y12; e (c) sono ancora in fase di valutazione nuove strategie di DAPT breve, tra cui la sospensione precoce dell’aspirina. Nella presente rassegna viene discusso il razionale e le considerazioni principali utili a guidare nella scelta di una DAPT di breve durata nel paziente HBR.

Parole chiave. Agenti antiaggreganti; De-escalation; Duplice terapia antiaggregante; Elevato rischio emorragico; Elevato rischio ischemico; Procedura coronarica percutanea.

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