Nuove acquisizioni sulla gravità del danno cardiaco acuto in corso di COVID-19

Camilla Alderighi1,2, Raffaele Rasoini1,2, Giuseppe Ambrosio3,4, Serafina Valente5, Gian Franco Gensini2,3

1Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze

2CESMAV (Centro Studi di Medicina Avanzata), Firenze

3IRCCS Multimedica, Sesto San Giovanni (MI)

4Cardiologia e Fisiopatologia Cardiovascolare, Ospedale S. Maria della Misericordia, Perugia

5Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, AOU Senese, Siena

Retrospective data from Chinese cohorts published in the last few days have placed a strong emphasis on the possibility that acute myocardial injury represents a critical component in the development of serious complications in patients hospitalized with COVID-19. These analyses showed that 19-27% of hospitalized patients with moderate/severe COVID-19 developed acute myocardial injury, defined as an increase in troponin levels. Fifty-sixty percent of these patients died. The highest mortality rate was detected among patients with both progressively incremental troponin levels and a history of cardiovascular disease. Some pathophysiological reasons have been hypothesized regarding the frequently observed increase in troponin levels in patients hospitalized with COVID-19, but, at the moment, these data could already suggest some clinical management implications, also with the aim of prospectively collecting research data: a troponin dosage should be considered, as a prognostic indicator, in all patients with moderate/severe COVID-19 at hospital admission, periodically during hospitalization, and in the case of clinical deterioration. In those patients with increased troponin levels, serial determinations should be carried out to define the enzymatic trajectory and therefore also the degree of clinical attention that must necessarily be closer in those who turn out to have persistently high or increasing troponin levels. In order to reduce the overdiagnosis risk of acute myocardial injury in critically ill patients, detection of increased troponin levels should always be contextualized into a multi-parametric evaluation.

Key words. Cardiovascular diseases; COVID-19; Troponin.


L’11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia, in relazione alla diffusione del virus SARS-CoV-2, identificato come responsabile della malattia COVID-19. Al 5 aprile 2020, nel mondo, sono state identificate oltre 1 200 000 persone infettate e oltre 65 000 morti.

Se prendiamo come riferimento il tasso di letalità relativo a COVID-19 – 2.3% nella più ampia casistica cinese pubblicata finora, ma molto variabile in base all’arco temporale di misurazione, al contesto e alle popolazioni esaminate1,2 –, notiamo come questo risulti inferiore a quello riscontrato durante altre epidemie da coronavirus, come SARS e MERS1. Tuttavia, a differenza di queste ultime, il livello di contagiosità di SARS-CoV-2 appare più elevato, elemento che può spiegare sia la rapida diffusione del virus che la sua pericolosità, specialmente nei confronti di alcune fasce più vulnerabili della popolazione. L’elevata contagiosità, inoltre, è responsabile del rapidissimo aumento dei casi nel breve periodo, elemento quest’ultimo che ha posto i sistemi sanitari sotto una pressione senza precedenti.

È pertanto fondamentale definire chi sono le persone a più alto rischio di sviluppare la patologia e le sue complicanze più gravi, così da concentrare su di essi, in misura ancora maggiore, gli sforzi di prevenzione, monitoraggio e cura.

Se, inizialmente, COVID-19 è stato identificato soprattutto come una patologia respiratoria con quadri di gravi polmoniti interstiziali e rischio di sindrome da distress respiratorio acuto, dati emersi negli ultimi giorni hanno posto un forte accento sulla possibilità che anche un danno miocardico costituisca una componente critica nello sviluppo delle complicanze gravi.

Risultati precoci provenienti dall’esperienza cinese hanno sottolineato come la storia personale di ipertensione arteriosa (odds ratio [OR] 2.36, intervallo di confidenza [IC] 95% 1.46-3.83) e di malattie cardiovascolari (OR 3.42, IC 95% 1.88-6.22) sia più frequente tra i soggetti con forme più gravi di malattia3.

Da una metanalisi di Lippi et al.4 sul valore predittivo della troponina in pazienti con COVID-19, è inoltre emerso che i valori di troponina I risultano significativamente aumentati in pazienti ospedalizzati con forme severe di COVID-19 rispetto ai pazienti ospedalizzati con forme più lievi. La metanalisi non include tuttavia i tre studi che seguono, pubblicati negli ultimi giorni.

In uno studio pubblicato sul British Medical Journal, Chen et al.5 hanno confrontato le caratteristiche di 113 pazienti deceduti rispetto a 161 sopravvissuti nell’ambito di una coorte retrospettiva di un singolo ospedale in Cina; è emerso che il 77% dei 113 pazienti deceduti ha sviluppato danno miocardico acuto (definito come un innalzamento della troponina I ultrasensibile [hsTnI] superiore al 99° percentile del limite superiore di riferimento o come una nuova alterazione elettrocardiografica o ecocardiografica). Coloro che sviluppavano complicanze cardiache avevano in anamnesi più comorbilità cardiovascolari rispetto a coloro che non le sviluppavano. Le concentrazioni di hsTnI sono risultate nettamente più elevate nei pazienti deceduti (40.8 pg/ml) rispetto ai pazienti sopravvissuti (3.3 pg/ml). Da sottolineare che non è stato specificato durante quale fase del decorso clinico sono stati eseguiti i dosaggi di hsTnI. I pazienti con danno miocardico acuto avevano una maggiore probabilità di morte rispetto ai pazienti senza danno miocardico acuto, e questo indipendentemente dalla presenza o meno di comorbilità cardiovascolari preesistenti.

Due studi pubblicati su JAMA Cardiology in questi giorni hanno confermato e ulteriormente precisato questi dati.

Il primo studio, di Shi et al.6, ha analizzato i dati delle cartelle cliniche di 416 pazienti afferenti ad un ospedale accademico di Wuhan, individuato dal governo cinese come uno dei centri deputati a ricevere casi moderati e gravi di malattia. In questi pazienti, l’incidenza di danno miocardico acuto, definito dal riscontro di un innalzamento della hsTnI oltre il 99° percentile del limite superiore di riferimento, è stata del 19.7%. Il dosaggio della hsTnI è stato eseguito all’ingresso in ospedale. Nell’arco dei 20 giorni di follow-up, più della metà dei pazienti con danno miocardico acuto (51.2%) è deceduta rispetto al 4.5% di quelli senza danno miocardico acuto. È stata inoltre evidenziata una relazione tra livelli di hsTnI e rischio di morte, con valori più elevati correlati ad un maggior rischio. Anche in questo caso, tra i pazienti con danno miocardico acuto, le comorbilità cardiovascolari (ipertensione arteriosa, diabete, coronaropatia) e cerebrovascolari erano più rappresentate rispetto ai pazienti senza danno miocardico acuto. Inoltre, analogamente a quanto osservato nello studio di Chen et al.5, i pazienti con danno miocardico acuto avevano un tasso di mortalità a 20 giorni nettamente più elevato, indipendentemente dall’eventuale storia di patologia cardiovascolare.

Il secondo studio, di Guo et al.7, ha analizzato i dati di 187 pazienti ammessi ad un singolo centro ospedaliero, anche questo deputato all’accoglienza e gestione dei casi più gravi di malattia nell’area di Wuhan. Il 27.8% dei pazienti ha manifestato un danno miocardico acuto, definito in questo caso da un innalzamento della troponina T (TnT), oltre il 99° percentile del limite superiore di riferimento, dosata all’ingresso, durante la degenza e al momento del deterioramento clinico. Tra questi pazienti, la mortalità a 1 mese è risultata più elevata rispetto a quella osservata in coloro che non avevano un innalzamento della TnT (59.6% vs 8.9%). Nei pazienti con TnT aumentata era osservabile anche un incremento dei livelli del frammento N-terminale del propeptide natriuretico cerebrale e di proteina C-reattiva rispetto al gruppo con TnT normale. Gli Autori hanno stratificato i pazienti deceduti sulla base dei valori di TnT e della presenza di patologia cardiovascolare: la mortalità più elevata è risultata nei pazienti con innalzamento della TnT e concomitante patologia cardiovascolare (69.4%); tuttavia, in presenza di un innalzamento della TnT, anche i pazienti senza patologia cardiovascolare nota avevano una mortalità aumentata (37.5%).

In sintesi, sulla base di questi studi possiamo osservare che circa il 19-28% dei pazienti ospedalizzati con forme moderate e gravi di COVID-19 ha sviluppato un danno miocardico acuto, evidenziato da un aumento della troponina. Tra i pazienti con danno miocardico acuto, circa il 50-60% è andato incontro a decesso. In particolare, la mortalità più elevata è stata evidenziata tra i pazienti con livelli progressivamente incrementali di troponina e storia di malattie cardiovascolari.

Tuttavia, sia nelle casistiche di Shi et al.6 e Guo et al.7, che nello studio di Chen et al.5, nel sottogruppo dei pazienti con danno miocardico acuto la mortalità è risultata nettamente aumentata (rispetto ai pazienti senza danno miocardico acuto) anche in coloro che non avevano una pregressa malattia cardiovascolare nota.

Sono state ipotizzate alcune basi fisiopatologiche riguardo al frequente innalzamento dei livelli di troponina nei pazienti ospedalizzati con COVID-195-8. La prima è legata all’instabilizzazione di placche aterosclerotiche preesistenti – meccanismo già descritto in corso di altre sindromi virali/infiammatorie9-11 –, derivante dal fenomeno della cosiddetta “tempesta citochinica”, con un quadro clinico caratteristico dell’infarto miocardico di tipo 1; altra ipotesi è basata sul marcato incremento della domanda di ossigeno da parte dei miociti, guidata da infezione e infiammazione, e da un’offerta non adeguata (es. ipossia), con conseguente ischemia che configura un quadro di infarto miocardico di tipo 2; altra ipotesi ancora riguarda la possibilità di un danno miocardico diretto con un quadro di miocardite fulminante, già documentato anche questo in altri contesti (es. MERS). Tuttavia, è da notare come, ad oggi, nell’ambito di rilievi autoptici non sia stata ancora individuata la presenza di inclusi virali nei miociti, ma infiltrati interstiziali infiammatori di cellule mononucleate12; un’ulteriore ipotesi si focalizza sulle potenziali riacutizzazioni di scompenso cardiaco innescate dall’infezione/infiammazione e dall’ipossia ed è stato ipotizzato anche lo sviluppo di cardiopatie acute da stress. Infine, stanno emergendo resoconti aneddotici che riportano osservazioni autoptiche di trombosi estese del microcircolo13.

Purtroppo le casistiche disponibili finora, costruite in situazioni di emergenza, non hanno analizzato nel dettaglio le caratteristiche dei pazienti con danno miocardico acuto: in particolare, sono carenti i dati riguardo a elettrocardiogrammi, eco-color Doppler cardiaci, angio-tomografie coronariche, coronarografie e risonanze magnetiche cardiache.

Vista l’alta incidenza di danno miocardico nei pazienti ospedalizzati e visto l’impatto prognostico di questo rilievo, è importante che nelle aree ad elevata incidenza di malattia, come l’Italia, vengano effettuati, ove appropriato e quando possibile, esami strumentali volti a una migliore definizione del danno miocardico acuto in pazienti con COVID-19, con lo scopo di delineare meglio le caratteristiche di questo gruppo ad altissimo rischio.

Finora, in letteratura, non risultano pubblicate casistiche di pazienti con COVID-19 che abbiano sviluppato, durante la malattia, sindromi coronariche acute. Sono stati tuttavia descritti alcuni casi clinici di pazienti con quadri simil-infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) ma con il rilievo di arterie coronarie prive di lesioni critiche. Tra questi, almeno 2 casi di probabile miocardite acuta in pazienti con COVID-19 sono stati pubblicati su riviste scientifiche14,15. Ma la casistica reale è sicuramente molto più estesa: negli ultimi giorni numerosi cardiologi nel mondo stanno segnalando tramite i social network pazienti positivi a SARS-CoV-2 che si presentano nei laboratori di emodinamica con quadri suggestivi di STEMI, ma che mostrano arterie coronarie senza lesioni critiche. Ad esempio, da una ricerca su Twitter, emerge che sono stati descritti con maggiore dettaglio circa 8 casi, ed è stato promosso l’hashtag #COVID_STEMI per accedere ai casi esistenti, aggiungerne altri e promuovere la discussione in merito. Questi casi hanno alcune caratteristiche comuni, in particolare un quadro elettrocardiografico con sopraslivellamento del tratto ST in molteplici derivazioni (soprattutto sopraslivellamento contemporaneo nelle derivazioni inferiori e in V3-V6), con innalzamento enzimatico e funzione sistolica ventricolare sinistra depressa. In molti casi sono segnalate complicanze gravi (pazienti in shock, sottoposti a ventilazione meccanica). È verosimile che alcuni di questi casi possano venire ricondotti a miocarditi acute in corso di COVID-19, e altri a cardiopatie acute da stress (quelli con scarso innalzamento enzimatico e rapido recupero).

Sulla base delle prime osservazioni di innalzamenti aspecifici della troponina nei pazienti con forme critiche di COVID19, nel timore del rischio di sovradiagnosi dei casi di danno miocardico acuto correlata ad un surplus di falsa positività in pazienti critici, l’American College of Cardiology ha suggerito di limitare il dosaggio della troponina, effettuandolo solo nei pazienti con sospetto clinico di infarto miocardico16.

Tuttavia, sia la metanalisi di Lippi et al.4 che gli studi di Chen5, Shi6 e Guo7 hanno messo in evidenza come l’associazione tra aumento della troponina e l’elevatissimo rischio di morte osservato nel caso di COVID-19 sembri peculiare. Questo non implica necessariamente che esista un rapporto di causalità tra danno miocardico acuto e mortalità in questi pazienti: nelle casistiche descritte, l’innalzamento della troponina potrebbe infatti rappresentare un epifenomeno, non correlato in termini causali con la progressione della malattia. È necessario tener presente come le osservazioni effettuate derivino solo da analisi retrospettive e solo su popolazione di etnia cinese, con incertezza quindi in merito sia alla presenza di una effettiva correlazione prognostica sia alla trasposizione delle osservazioni in altre popolazioni come quella occidentale. Tuttavia, al di là della necessità di una più chiara definizione del danno miocardico acuto in questa malattia, la tempistica dell’innalzamento di questo parametro nei pazienti ricoverati e la sua forte associazione con esiti sfavorevoli potrebbero fin d’ora suggerire alcune implicazioni cliniche, anche ai fini della raccolta di dati prospettici.

Sulla base dei dati disponibili, riteniamo quindi che un dosaggio della troponina (hsTnI o TnT) debba essere considerato, come indicatore prognostico, in tutti i pazienti con forme moderate e gravi di COVID-19 all’ingresso, periodicamente durante la degenza, e nel caso di deterioramento clinico. In coloro in cui il valore risulti aumentato, andrebbero effettuati dosaggi seriati per definire la traiettoria enzimatica (in riduzione oppure stabile/in aumento, considerando questo secondo caso il peggior indicatore prognostico). Il livello di attenzione dovrà essere necessariamente più elevato verso coloro che presentano livelli enzimatici persistentemente elevati o in aumento. Inoltre, particolare attenzione dovrà essere prestata a pazienti con livelli di troponina aumentati e storia di patologia cardiovascolare, che rappresentano il sottogruppo di pazienti al momento identificati come quelli a rischio più elevato.

Ovviamente, il rischio di sovradiagnosi di danno miocardico correlato all’innalzamento dei livelli di troponina in pazienti critici andrebbe sempre tenuto in considerazione. A questo proposito, l’aumento della troponina andrebbe contestualizzato nell’ambito di una valutazione di tipo multiparametrico, includente, ove possibile, anche altri esami diagnostici di supporto.

Probabilmente, comprendere le cause degli aumenti dei livelli di troponina, attraverso i dati derivati da ulteriori esami diagnostici (es. angio-tomografia coronarica effettuata contestualmente alla tomografia computerizzata del torace, laddove necessaria, in pazienti in cui si riscontra un aumento significativo dei livelli di troponina), potrebbe aiutare a indirizzare in modo più specifico anche le misure terapeutiche.

Da un punto di vista preventivo, l’insieme dei pazienti con ipertensione e storia di pregressa malattia cardiovascolare risulta particolarmente vulnerabile alle complicazioni della malattia COVID-19. Tuttavia, questa informazione derivata dalla letteratura recente risente probabilmente di un bias di selezione, in quanto è estrapolata da popolazioni di pazienti ospedalizzati con forme moderate e gravi di malattia. Inoltre, il dosaggio della troponina così come quelli dei peptidi natriuretici e della proteina C-reattiva, se possono risultare utili per indirizzare la gestione clinica ospedaliera, sono elementi a valle di qualsiasi prevenzione primaria.

Mancano, invece, informazioni provenienti da casistiche di pazienti asintomatici o con forme lievi di malattia, che rappresentano la maggioranza della popolazione affetta da COVID-19. La disponibilità di questi dati, tuttavia, sottenderebbe necessariamente strategie diagnostiche sulla popolazione che non considerino soltanto i pazienti più gravi ma anche quelli con sintomi lievi e asintomatici, magari, come è stato suggerito da più ricercatori, attraverso la valutazione di campioni random della popolazione.

RIASSUNTO

Dati retrospettivi derivati da coorti cinesi pubblicati negli ultimi giorni hanno posto un forte accento sulla possibilità che un danno miocardico acuto rappresenti una componente critica nello sviluppo di complicanze gravi in pazienti con COVID-19. Da queste analisi è emerso che il 19-27% dei pazienti ospedalizzati con forme moderate/gravi di COVID-19 ha sviluppato un danno miocardico acuto, definito come innalzamento dei valori di troponina. Il 50-60% di questi pazienti è andato incontro a decesso. Il tasso di mortalità più elevato è stato evidenziato tra pazienti con livelli progressivamente incrementali di troponina e storia di malattie cardiovascolari. Sono state ipotizzate alcune motivazioni fisiopatologiche riguardo al frequente innalzamento dei livelli di troponina osservato nei pazienti ospedalizzati con COVID-19, ma questi dati potrebbero, già da ora, suggerire alcune implicazioni cliniche, anche ai fini della raccolta prospettica di dati per la ricerca: un dosaggio della troponina dovrebbe essere considerato, come indicatore prognostico, in tutti i pazienti con COVID-19 moderata e grave all’ingresso in ospedale, periodicamente durante la degenza, e nel caso di deterioramento clinico. In coloro in cui il valore risultasse aumentato, andrebbero eseguiti dosaggi seriati per definire la traiettoria enzimatica e quindi anche il grado di attenzione clinica che dovrà essere necessariamente più elevato in coloro che presentano livelli persistentemente alti o in aumento. Al fine di ridurre il rischio di sovradiagnosi di danno miocardico acuto in pazienti critici con innalzamento dei livelli di troponina, quest’ultimo andrebbe sempre contestualizzato attraverso una valutazione multiparametrica.

Parole chiave. COVID-19; Malattie cardiovascolari; Troponina.

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