In ricordo di Peter Sleight, un geniale amico di tutti noi.
Molti l’hanno conosciuto, alcuni meglio
e gli hanno voluto molto bene




Il Professor Peter Sleight ci ha lasciato all’età di 91 anni qualche giorno or sono. Inevitabilmente, pensando a Peter Sleight, il primo ricordo va alla più grande avventura scientifica condotta in area clinica nel nostro Paese e, per quei tempi, anche in Inghilterra e nel mondo. Parliamo dell’inizio degli anni ’80, l’alba della stagione dei grandi trial in Medicina, l’inizio della metodologia scientifica applicata alla ricerca medica: il trial GISSI (poi divenuto GISSI-1) e l’ISIS (International Study of Infarct Survival)-2. Il GISSI e l’ISIS-2 cercavano una risposta alla stessa domanda: l’occlusione trombotica di un vaso coronarico è responsabile dell’infarto miocardico acuto ed è possibile ricanalizzare la coronaria ostruita con un trattamento fattibile in qualsiasi contesto clinico e non solo in ospedali ad elevato livello tecnologico? E per trovare una risposta a questa domanda, i due trial usavano lo stesso strumento, un farmaco: la streptochinasi per via endovenosa (l’ISIS-2 testava anche l’aspirina in un disegno fattoriale). L’avventura veniva condotta indipendentemente, anzi competitivamente, nel contesto della più totale simpatia e amicizia reciproca. Gli inglesi, guidati da Peter Sleight e dall’Università di Oxford, avevano già alle spalle il primato di avere condotto il primo grande trial internazionale della storia della ricerca clinica, l’ISIS-1 (17 187 pazienti arruolati in 417 ospedali, alcuni di questi in Lombardia), che avevano portato a termine con successo dimostrando l’utilità clinica del betablocco nel post-infarto, e soprattutto una maturità scientifica, una capacità organizzativa, un carisma culturale e un coraggio personale unici. Quindi erano fortissimi, il network internazionale ormai era fatto e sono partiti con l’ISIS-2. Noi eravamo al buio. Senza storia scientifica clinica alle spalle, una storia politica recente non invidiabile, e una storia radicata di profonda frammentazione nazionale (che dura tuttora). Come pensare a mettere insieme un Paese così per un obiettivo clinico difficile da intendere, che aveva a che fare con un meccanismo complesso come la cascata coagulativa, da studiare in pazienti critici con infarto miocardico acuto? Eppure, qualcuno dei centri italiani che avevano partecipato all’ISIS-1 aveva capito cosa stava succedendo nella medicina europea. Sorprendentemente, e in larga parte inconsapevolmente, i cardiologi italiani erano pronti a “coagularsi” in uno sforzo di lavoro aggiuntivo quotidiano, non compensato, per diventare “ricercatori”. E gli uomini guida c’erano. Parliamo di uomini perché in situazioni di questo tipo questo conta di più, gli uomini capaci di compattare coorti di professionisti non solo per le buone ragioni che portano ma perché dispongono della stima e della fiducia delle persone che vogliono coinvolgere. Gli uomini sono noti: Fausto Rovelli e la rete ospedaliera ANMCO guidata principalmente da Antonio Lotto e Giorgio Feruglio; Silvio Garattini e Gianni Tognoni con l’Istituto Mario Negri forte della propria competenza metodologica. Tutto qui. Neanche un soldo per nessuno per lavorare 3 anni, poi i risultati e la gioia di tutti nel constatare il successo della ricerca, confermato un anno dopo dai risultati sovrapponibili dell’ISIS-2 (sì, sembra incredibile, ma siamo arrivati un anno prima!) e soprattutto dal verificare l’impatto della scoperta nella pratica clinica (per fare un esempio l’avvio qualche tempo dopo dell’angioplastica nell’infarto miocardico acuto), positivamente amplificato dalla consistenza dei due studi.

Per finire la storia, 20 anni dopo si decise di scrivere un articolo che mettesse in evidenza la dinamica scientifica intellettuale e operativa generata in Italia dal GISSI, con numerosi studi randomizzati e osservazionali successivi in varie aree della cardiologia. Sembrò logico inviare l’articolo allo European Heart Journal. L’Editor lo rifiutò, senza neppure attivare dei revisori. Ripresi dalla botta, decidemmo di sottometterlo all’American Heart Journal, allora diretto da Robert Califf (per inciso divenuto poi Commissioner della Food and Drug Administration, incarico molto importante per la salute pubblica statunitense e mondiale, dal quale è stato prontamente rimosso dall’Amministrazione Trump) Passò un po’ di tempo (mesi), poi l’articolo venne pubblicato1 con quattro editoriali (fatto inedito), rispettivamente di Eugene Braunwald, Paul Armstrong (a nome del Gruppo VIGOUR), Salim Yusuf e… Peter Sleight. Peter titolò: “We could all learn from the Italian cardiologists”2 cogliendo in pieno il senso dell’articolo che esplicitamente privilegiava l’aspetto comunitario dello studio, sopravvissuto al tempo. Altrettanto fece Salim Yusuf, che lo sottolineò anche nel titolo del suo editoriale3.

Forse stiamo approfittando troppo della pazienza del lettore, ma questi cenni al passato riguardano la nascita della ricerca clinica sulla quale è fondata la medicina basata sull’evidenza. E Peter Sleight può esserne ritenuto il fondatore. Il successo quasi magico per rapidità ed efficacia di implementazione del trial inglese in corso – RECOVERY – che testa farmaci anti-COVID-19 non viene dal nulla, al contrario è stato promosso e gestito dall’Università di Oxford, precisamente dal gruppo iniziato e sviluppato da Peter Sleight.

Abbiamo molti ricordi personali di Peter. Uno viene da Pavia. Riguarda una persona anziana che marcia con casco in bicicletta per i viali del Policlinico e della città (con una signora al fianco anch’essa in assetto da viaggio) durante i mesi estivi. Erano Peter e sua moglie in stage estivo in Italia con sosta prolungata a Pavia ospitati in un collegio universitario per studiare gli effetti della musica sul sistema neurovegetativo. Questo è un aspetto dell’uomo Peter Sleight che vorremmo sottolineare: il forte, puro desiderio di conoscere, che lo portava a dedicare lo stesso tempo, impegno ed entusiasmo a ricavare gioia dall’organizzazione di un trial internazionale o dal lavoro in uno scantinato con quattro attrezzi scalcinati per studiare la fisiopatologia della risposta autonomica alla musica o da una iniziativa, innovativa, ma che nulla aveva a che fare con la medicina.

E poi l’aspetto disinvolto, cameratesco del suo carattere. Da Pavia, spesso di sera, Peter Sleight e moglie venivano a cena a Milano, qualche volta in nostra compagnia, per poi tornare a tarda ora a Pavia, sempre in bicicletta, con il casco in testa e tanta contagiosa allegria. Ed in una di questa sere ricordiamo la gioia, quasi fanciullesca, di condividere una delle prime iniziative di Slow Food a Milano, in cui gli fu donata una chiocciolina d’oro, simbolo dell’iniziativa, che porterà all’occhiello della giacca per molti anni.

La cardiologia italiana deve molto a Peter Sleight, e noi non lo dimenticheremo certamente.

Luigi Tavazzi1, Gianni Tognoni2, Aldo P. Maggioni3

1Maria Cecilia Hospital, GVM Care & Research, Cotignola (RA)

2Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

3Centro Studi ANMCO, Firenze

BIBLIOGRAFIA

1. Tavazzi L, Maggioni AP, Tognoni G. Participation versus education: the GISSI story and beyond. Am Heart J 2004;148:222-9.

2. Sleight P. We could all learn from the Italian cardiologists. Am Heart J 2004;148:188-9.

3. Yusuf S. Transforming the scientific, health care, and sociopolitical culture of an entire country through clinical research: the story of GISSI. Am Heart J 2004;148:193-5.