In questo numero

cinquantenario del gic




Scompenso cardiaco a 360°

Il primo degli editoriali dedicati al cinquantenario del Giornale Italiano di Cardiologia che si susseguiranno nei dodici mesi del 2021 è dedicato allo scompenso cardiaco. Luigi Tavazzi che ha vissuto da protagonista i progressi avvenuti nelle ultime decadi nella gestione dello scompenso cardiaco ci offre un’avvincente panoramica a 360° sui diversi aspetti della malattia. In particolare vengono descritti i progressi ma anche le criticità: la deludente esperienza terapeutica condotta finora nello scompenso con frazione di eiezione preservata che impone la ricerca di fenotipi distinti, possibili target di specifici approcci terapeutici; la terapia per lo scompenso con frazione di eiezione ridotta con le novità terapeutiche rappresentate dai nuovi farmaci ipoglicemizzanti insieme alle speranze per i neo-inotropi; la prevenzione della morte improvvisa aritmica mediante defibrillatore e resincronizzazione cardiaca
e la morte improvvisa non aritmica;
la terapia ablativa della fibrillazione atriale nei pazienti con scompenso cardiaco, con le incertezze su un possibile beneficio della procedura nei pazienti con scompenso e frazione di eiezione preservata. Non manca un accenno alle nuove frontiere costituite dalla genetica impegnata nella ricerca degli score poligenici di rischio, la ricerca sperimentale di laboratorio nel campo della biologia cellulare e molecolare rappresentata dagli OMICs e l’applicazione dell’intelligenza artificiale nella ricerca clinica sullo scompenso cardiaco, anche se sarà sempre il medico ad assumersi la responsabilità delle scelte. Una visione lucida e critica a 360° su passato, presente e futuro di una patologia cardiaca epidemiologicamente rilevante come lo scompenso cardiaco, ancora alla ricerca di fenotipi con specifica identità patogenetica e specifici percorsi clinico-terapeutici. •

editoriali




Il poker d’assi nel trattamento
dello scompenso cardiaco cronico

I risultati del trial EMPEROR-Reduced, presentati al Meeting virtuale della Società Europea di Cardiologia e contemporaneamente pubblicati sul New England Journal of Medicine, aggiungono ulteriori evidenze a supporto dell’impiego degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) nei pazienti con scompenso cardiaco, e ci forniscono un quarto asso per un ottimale poker terapeutico. La lettura della dettagliata revisione del trial condotta dal gruppo di Marco Metra appare di particolare interesse in quanto, oltre ad analizzare nei dettagli i risultati dell’empagliflozin nel ridurre il rischio di morte cardiovascolare o ospedalizzazioni in pazienti con scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta, li confronta con quelli recentemente ottenuti dal dapagliflozin nello studio DAPA-HF, dimostrando come questa nuova classe di farmaci, sia efficace indipendentemente dalla presenza di diabete mellito.
Il messaggio finale è che nella moderna terapia farmacologica dello scompenso cardiaco cronico il concetto spesso genericamente utilizzato del “Less is more” non vale… anzi: “More is best”! •




Finalmente verso una terapia “personalizzata” nella cardiomiopatia ipertrofica!

L’editoriale di Claudio Rapezzi sul mavacamten, proposto per il trattamento della cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva sintomatica, apre le porte per la prima volta ad un farmaco che agisce sulla fisiopatologia della malattia, orientato in maniera specifica su bersagli molecolari definiti. Il meccanismo è volto infatti a ridurre la formazione dei ponti tra actina e miosina a livello del sarcomero (vedi immagine di una celebre rassegna del 1997 pubblicata sul New England Journal of Medicine) con conseguente riduzione della contrattilità, miglioramento del profilo energetico del miocardio e diminuzione dell’ostruzione dinamica all’efflusso ventricolare sinistro.
Le principali novità di questo farmaco
(“first in class”) risiedono nel fatto che: la riduzione dell’ipercontrattilità non determinerebbe alcuna depressione rilevante della frazione di eiezione del ventricolo sinistro, ne deriverebbe un miglioramento anche dei sintomi e della qualità di vita, il beneficio si estenderebbe anche alla riduzione dei livelli plasmatici del frammento N-terminale del propeptide natriuretico cerebrale (NT-proBNP) e della troponina I ad alta sensibilità. Se il mavacamten si rivelasse in grado di ridurre la necessità di ricorrere ad alcolizzazione percutanea del setto o miectomia per il trattamento dell’ostruzione, questo costituirebbe un grande cambio di paradigma nella cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva potendo influire favorevolmente anche sulla storia naturale. •




Prevenzione secondaria
nella cardiopatia ischemica

La colchicina è un alcaloide estraibile dalle piante del genere Colchicum (soprattutto dal Colchicum autumnale) e presente nell’Androcymbium e Merendera, piante del genere Gloriosa. Utilizzata come antinfiammatorio già 1500 anni prima di Cristo, come risulta da un papiro ebreo, e con struttura chimica identificata nel 1955, la colchicina è un farmaco di ampio utilizzo nella gotta e nelle pericarditi, proprio per la sua importante azione antinfiammatoria. Aldo Maggioni ci presenta i risultati di due studi controllati e randomizzati che hanno definitivamente “sdoganato” l’impiego di questo farmaci anche in pazienti con cardiopatia ischemica in prevenzione secondaria. Sia lo studio eseguito in pazienti con recente (entro 1 mese) infarto miocardico, sia quello eseguito in pazienti con coronaropatia documentata e stabili da almeno 6 mesi, hanno dimostrato una riduzione statisticamente significativa e clinicamente evidente di un pool composito di eventi cardiovascolari maggiori nel gruppo di pazienti trattato con colchicina rispetto al gruppo trattato con placebo, ovviamente in aggiunta alle normali terapie standard nei singoli pazienti. La colchicina si è dimostrata sostanzialmente ben tollerata. Pertanto la colchicina, quale farmaco antinfiammatorio, si unisce ai farmaci antiaggreganti piastrinici, ai farmaci ipocolesterolemizzanti e ai farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina nel trattamento dei pazienti con cardiopatia ischemica. •




Il trial POPular AGE

Leonardo De Luca et al. commentano i risultati del trial POPular AGE, studio in aperto che ha randomizzato più di 1000 pazienti “all-comers” con diagnosi di sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST ed età ≥70 anni a ricevere una dose di carico di clopidogrel (300 o 600 mg) vs ticagrelor (180 mg), seguita da una dose di mantenimento per 12 mesi (clopidogrel 75 mg/die o ticagrelor 90 mg bid) in aggiunta alla terapia farmacologica standard. Lo studio ha dimostrato la superiorità del trattamento con clopidogrel in termini di sanguinamenti maggiori e/o minori e la non inferiorità in termini di beneficio clinico netto rispetto al ticagrelor. Le implicazioni cliniche di questo trial sono importanti e molteplici, e gli autori analizzano con rigore scientifico e lucidità le origini ed il ruolo dello studio nell’ambito della letteratura scientifica disponibile sull’argomento nonché motivazioni per cui i dati generati sono allo stesso tempo popolari e… pop. •

rassegne




Le montagne russe della pressione…
un rebus

Quante volte qualcuno, magari una donna, è entrato in ambulatorio e ha raccontato che la pressione è alta, ma appena si alza in piedi ha vertigini, ondeggia, cade. Se assume gli antipertensivi sono guai!
E allora è iniziata la nostra difficile battaglia con l’ipotensione ortostatica. Già è difficile pensarci, poi la soluzione terapeutica è un vero equilibrismo tra picchi e cadute della pressione arteriosa. Eppure questa condizione, spesso misconosciuta, non è da sottovalutare perché è invalidante e ha una prognosi negativa. Umberto Pensato et al., forti della lunga esperienza bolognese nella gestione dell’ipertensione, ci offrono una revisione approfondita sulle cause,
i meccanismi fisiopatologici e la gestione di questa difficile patologia. Certamente il cardiologo non può non conoscere questa sindrome, troppo spesso la deve differenziare dalla sincope o deve arrampicarsi sugli specchi per trovare un compromesso tra questa e l’ipertensione supina. •




Trattare o no la coronaropatia nel paziente sottoposto ad impianto transcatetere di valvola aortica?

In questo numero del Giornale Mateusz Orzalkiewicz e Francesco Saia sviscerano con precisione e puntualità uno degli argomenti più dibattuti e complessi della cardiologia interventistica contemporanea: dobbiamo o meno trattare la coronaropatia riscontrata “accidentalmente” nel paziente sottoposto ad impianto transcatetere di valvola aortica (TAVI)? L’argomento è sicuramente interessante e complesso, principalmente perché i pazienti sottoposti a procedura di TAVI sono sempre crescenti come numero, sono sempre più complessi e i dati disponibili sono pochi e confusi. In particolare, il grosso problema è il confronto con la chirurgia. Infatti, la nostra abitudine è trattare la coronaropatia in concomitanza con il trattamento chirurgico della valvulopatia aortica. Questo è dovuto principalmente al fatto che consideriamo l’atto chirurgico come un “one shot” nella vita del paziente e soprattutto perché lo stress operatorio potrebbe destabilizzare la coronaropatia incrementando il rischio operatorio stesso. Tutto ciò è difficilmente traslabile all’ambito della procedura di TAVI, essendo le caratteristiche dei pazienti e la procedura stessa molto diversi dall’atto chirurgico.
I colleghi esaminano con cura questi punti e un ragionevole algoritmo terapeutico in attesa di evidenze più solide. •

studi osservazionali




Terapia anticoagulante orale in caso di angioplastica coronarica: “interrupted or uninterrupted strategy”?

La gestione della terapia anticoagulante orale nei pazienti, che ne hanno indicazione, candidati ad angioplastica coronarica rimane non chiarita. Il pensiero del rischio tromboembolico in caso di interruzione, associata o meno al “bridge” con eparina a basso peso molecolare, e del rischio emorragico in caso di non sospensione affligge quotidianamente molti medici. Nel tentativo di fornire delle evidenze rispetto alle due strategie procedurali, Luca Fileti et al. hanno analizzato i dati del registro prospettico, multicentrico italiano WAR-STENT, che ha arruolato pazienti consecutivi con indicazione a warfarin prevalentemente per fibrillazione atriale, sottoposti a rivascolarizzazione coronarica percutanea. Non sono emerse differenze statisticamente significative in termini di efficacia e sicurezza tra le due strategie periprocedurali. Da sottolineare che nella maggior parte dei casi di sospensione della terapia anticoagulante non è stato prescritto “bridge” con eparina a basso peso molecolare, dato il trend di aumento delle emorragie maggiori che comporta. Gli autori concludono che per maggiore praticità e sicurezza, andrebbe preferita la prosecuzione della terapia anticoagulante orale, eccetto che nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica mediante approccio arterioso femorale, che si associa ad un aumentato rischio di complicanze emorragiche, peraltro minori e localizzate all’accesso vascolare. •




Edoxaban e chirurgia: i risultati dello studio osservazionale EMIT-AF/VTE

Ad oggi per la profilassi del rischio tromboembolico della fibrillazione atriale (FA) e per il trattamento e la prevenzione del tromboembolismo venoso (TEV) vengono raccomandati gli anticoagulanti orali diretti (DOAC) in quanto ugualmente efficaci, ma molto più maneggevoli e più sicuri del warfarin. Circa il 10% dei pazienti in terapia anticoagulante viene sottoposto annualmente a procedure chirurgiche diagnostiche o terapeutiche, eseguite prevalentemente in elezione ma anche in condizioni di urgenza/emergenza. Per un’eventuale sospensione dell’anticoagulante occorre conoscere il profilo di rischio trombotico del paziente, il rischio emorragico della procedura e la farmacocinetica dell’anticoagulante usato. Attualmente in letteratura sono disponibili alcune raccomandazioni sulla gestione dei DOAC in caso di chirurgia tratte dai dati provenienti dagli studi registrativi o da alcuni registri. Giovanni Fazio et al.
ci illustrano i dati di mondo reale provenienti dallo studio osservazionale EMIT-AF/VTE (Edoxaban Management in Diagnostic and Therapeutic Procedures), disegnato per valutare in modo prospettico il rischio emorragico e tromboembolico di pazienti in trattamento con edoxaban sottoposti a procedure chirurgiche diagnostiche o terapeutiche sia in elezione sia in urgenza. Complessivamente il numero totale di eventi emorragici e tromboembolici nei pazienti trattati con edoxaban è stato basso. Questo risultato è particolarmente significativo anche per il fatto che nella coorte europea dei pazienti arruolati, gli italiani sono risultati più anziani e affetti da più comorbilità. •

caso clinico




Il ruolo intramontabile
dell’esame obiettivo

Forse in questa era di rapido e massiccio sviluppo della tecnologia a supporto del clinico, questi a volte dimentica che gli indizi per una corretta diagnosi spesso si trovano in un “banale” esame obiettivo. Ne è dimostrazione il caso clinico che Gaia Spaziani et al. ci propongono in questo numero: una diagnosi di coartazione aortica (CoA) associata a bicuspidia aortica (VAB) in un giovane di 17 anni, “sfuggita” al suo pediatra ed anche ai pur numerosi controlli di screening eseguiti negli anni nell’infanzia/adolescenza per idoneità medico-sportiva. Eppure, la descrizione dell’esame obiettivo del ragazzo (differenza pressoria fra i due arti superiori e fra quelli superiori e quelli inferiori, soffio in sede paravertebrale) delinea chiaramente i segni clinici patognomonici della patologia; a tal proposito gli autori sottolineano dunque l’importanza di una corretta formazione dei pediatri di base e dei medici dello sport. Il caso clinico viene seguito fino alla complicanza (non infrequente in presenza di entrambe le anomalie congenite, CoA e VAB) della dilatazione dell’aorta ascendente che richiede correzione chirurgica. Sono ben descritte le tappe diagnostiche (esame obiettivo, ecocardiografia, test da sforzo, tomografia computerizzata, risonanza magnetica) necessarie ad una definizione completa del problema, e ricordati i parametri di riferimento (linee guida europee sulla patologia aortica) per un corretto percorso di indicazione alla correzione (chirurgica o percutanea) del difetto anatomo-funzionale e per un corretto follow-up post-procedurale. •