In questo numero

cinquantenario del gic





Ipertensione: una lunga strada di 50 anni

Il quarto degli editoriali del cinquantenario del Giornale Italiano di Cardiologia è dedicato all’ipertensione arteriosa a cura di Paolo Verdecchia, riconosciuto esperto a livello nazionale ed internazionale, e Fabio Angeli. Gli autori ripercorrono i progressi che in tema di ipertensione si sono realizzati nell’arco di 50 anni, con un contributo importante della ricerca clinica condotta in Italia. Dal nichilismo terapeutico della fine degli anni ’60 quando l’ipertensione veniva considerata effetto naturale dell’invecchiamento (per la pressione arteriosa normale valeva la regola di 100 + l’età) si è passati alla dimostrazione del beneficio prognostico del trattamento antipertensivo. In pochi campi come nell’ipertensione c’è stata la scoperta di un così elevato numero di farmaci rigorosamente testati in trial clinici. Fare diagnosi di ipertensione è però solo apparentemente semplice. Anche in tema di diagnosi numerosi sono infatti i progressi avvenuti nelle ultime decadi: dall’automisurazione pressoria domiciliare attraverso strumenti affidabili e sempre meno costosi al monitoraggio ambulatoriale nelle 24 ore. Particolarmente importante inoltre l’acquisizione relativamente recente dell’iperaldosteronismo come causa non rara di ipertensione secondaria e quella dell’ipertensione mascherata, situazione opposta rispetto alla più popolare ipertensione da camice bianco. Un ampio spazio dell’editoriale è dedicato alle linee guida europee e nord-americane con i target di trattamento e le strategie farmacologiche. Non manca un accenno alla denervazione renale che, dopo gli entusiasmi iniziali, vede oggi molto ridimensionate le sue indicazioni ed è alla ricerca di conferme sull’efficacia. In abbinamento all’editoriale di Paolo Verdecchia e Fabio Angeli un flashback di 50 anni costituito da una rassegna da parte di autori del prestigioso centro cardiologico di Bordeaux sul trattamento dell’ipertensione arteriosa pubblicato nel Giornale Italiano di Cardiologia del 1973. •

editoriale





Sport ed esercizio fisico nei pazienti con malattie cardiovascolari: a chi e come

In questo editoriale Pasquale Perrone Filardi et al. commentano le recenti (2020) linee guida ESC sulla cardiologia dello sport e l’esercizio fisico che hanno la peculiarità di essere le prime in Europa. Infatti, mentre in Italia la cardiologia dello sport presenta una lunga tradizione clinica e scientifica, tale disciplina è relativamente nuova ed emergente nel contesto europeo. Inoltre se da un lato la maggioranza della popolazione impegnata in attività sportiva è costituita da soggetti che praticano sport/attività fisica nel tempo libero a scopo ricreativo con elevata prevalenza di fattori di rischio cardiovascolare in prevenzione primaria, dall’altro lato la pratica di attività fisica è una condizione fondamentale per la prevenzione secondaria nei soggetti che abbiano avuto un evento cardiovascolare. Da queste considerazioni risulta importante avere indicazioni affinché l’attività fisica sia sicura ed adeguata alle condizioni dei soggetti. L’editoriale offre al lettore un’analisi sintetica ma accurata delle recenti linee guida ESC, sottolineandone le novità in termini concettuali e contestualizzandone l’applicazione. •

questioni aperte





Il “caso” e le “evidenze” degli inibitori di SGLT2 nella terapia dello scompenso cardiaco

La storia della Medicina ci ha abituato a convivere con l’apparente o reale casualità. Dalla scoperta degli effetti anticoagulanti di un veleno per topi, alle proprietà antibiotiche di una muffa, agli effetti dolcificanti utili per i pazienti diabetici di un derivato del carbone, agli effetti poco antidolorifici di un farmaco rivelatosi poi utile nella cura del disturbo post-traumatico da stress. Le recenti evidenze dell’efficacia degli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) nello scompenso cardiaco in pazienti non necessariamente affetti da diabete mellito di tipo 2, vengono considerate dagli autori di questa dettagliata rassegna rientrare a pieno titolo nel capitolo della “serendipity” medica. Al di là della collocazione, Giuseppe Rosano et al. riassumono in maniera esauriente e soprattutto pratica, i meccanismi d’azione, i risultati dei trial finora pubblicati ed il razionale alla base dell’uso di questa nuova classe di farmaci nello scompenso cardiaco. Non ci resta che leggere attentamente, in attesa delle prossime indicazioni delle linee guida europee e della possibilità prescrittiva estesa al cardiologo, indipendentemente dalla presenza di diabete. •

rassegne





Meccanismi d’azione renale degli inibitori di SGLT2

I farmaci in grado di aumentare l’escrezione di glucosio con le urine (gli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2, SGLT2), inizialmente visti con sospetto proprio per il loro effetto glicosurico (marker della malattia diabetica), si sono poi rivelati armi molto importanti non solo per il controllo dell’iperglicemia, ma anche per la riduzione del rischio di gravi complicanze del diabete come lo scompenso cardiaco. Più recentemente, sono stati completati vari studi (ed altri sono ancora in corso) che dimostrano che questi farmaci possono migliorare la prognosi anche nei pazienti non diabetici con scompenso cardiaco. Vari aspetti restano ancora da chiarire. La rassegna di Edoardo Gronda et al. illustra vari aspetti relativi a queste importanti problematiche in un’ottica essenzialmente cardiologica pratica. •





The “dark side” dei peptidi natriuretici

La diagnosi di scompenso cardiaco è da sempre fondata su segni e sintomi clinici peculiari. Tale diagnosi, oggi, viene elaborata valutando anche altri aspetti dello scompenso cardiaco: tra quelli più studiati vi sono senza dubbio i biomarcatori, la cui valutazione viene raccomandata dalle linee guida. Si tratta soprattutto del peptide natriuretico di tipo B (BNP) e del frammento N-terminale del proBNP (NT-proBNP) che hanno progressivamente assunto un ruolo sempre più importante tanto da costituire un valido strumento per la diagnosi precoce e la pianificazione del trattamento. In questa rassegna, Vincenzo Castiglione et al. ci illustrano i diversi aspetti dei biomarcatori, da semplici mezzi per supportare la diagnosi, a ruoli che fino ad ora non erano noti quali: stratificazione prognostica, screening e prevenzione ed eventuale guida per il trattamento. Ciascuno di questi ruoli viene minuziosamente trattato evidenziando anche gli aspetti ancora controversi. •





Acido bempedoico: nuova opzione terapeutica

L’acido bempedoico rappresenta un’opzione terapeutica innovativa, efficace e sicura per la gestione dell’ipercolesterolemia. Diversi studi clinici hanno dimostrato che l’utilizzo di acido bempedoico si associa ad una significativa riduzione dei livelli di colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità (C-LDL), sebbene i dati di outcome non siano ancora disponibili. Ad oggi, sulla base delle evidenze scientifiche attualmente disponibili, l’utilizzo dell’acido bempedoico viene suggerito come terapia additiva in quei pazienti che non riescono ad ottenere i livelli di C-LDL raccomandati nonostante una terapia statinica massimale o a causa di intolleranza alle statine. In questa rassegna Furio Colivicchi et al. riassumono in maniera esaustiva le evidenze ad oggi disponibili sull’efficacia dell’acido bempedoico, dalla riduzione dei livelli di C-LDL in diverse popolazioni di studio al miglioramento di altri parametri biologici come l’apolipoproteina B e la proteina C-reattiva ad alta sensibilità e ipotizzano prossimi scenari di utilizzo del farmaco come i pazienti diabetici, su cui, a differenza delle statine, l’acido bempedoico potrebbe esercitare un effetto favorevole sul metabolismo glucidico, o i pazienti a rischio cardiovascolare molto alto come quelli affetti da sindrome coronarica acuta o cronica e quelli con ipercolesterolemia familiare. •





The “grey zone”: anemia e anticoagulazione

L’anemia, comorbilità frequente dei pazienti che curiamo ogni giorno, rappresenta una potenziale controindicazione alla terapia anticoagulante in quanto predittrice di aumento delle emorragie maggiori. Ad oggi deve essere annoverata nella valutazione del rischio emorragico al di là dell’impiego degli score disponibili, ma occorre fare delle distinzioni rispetto all’entità dell’anemia. In questa rassegna Paolo Alboni et al. analizzano la sicurezza degli anticoagulanti orali diretti nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare ed anemia cronica. Occorre ricordare che nei trial randomizzati controllati di fase III, rispettivamente con dabigatran, rivaroxaban, apixaban ed edoxaban, i pazienti con valori di emoglobina <9-10 g/dl sono stati esclusi dall’arruolamento. In letteratura sono però stati pubblicati cinque studi osservazionali, che hanno analizzato il problema e che in sintesi dimostrano che il warfarin sembra ridurre l’incidenza di ictus nei casi di anemia lieve, ma con un modesto aumento degli eventi emorragici, mentre nei casi di anemia più severa appare inefficace oltreché non sicuro. Gli anticoagulanti orali diretti si associano ad una minore incidenza di emorragie maggiori rispetto al warfarin nei pazienti anemici, ma in caso di valori di emoglobina <10 g/dl l’incidenza di emorragie maggiori è alta. In attesa di ulteriori dati è ragionevole prescrivere la terapia anticoagulante orale nei pazienti con fibrillazione atriale ed anemia di grado lieve con stretto e attento monitoraggio. Nei pazienti con anemia severa invece la scelta della prescrizione dell’anticoagulante va valutata singolarmente in base al rischio tromboembolico, l’eziologia dell’anemia, la storia e le condizioni generali del paziente. •





Ipertensione secondaria e aldosterone

Per molti anni ritenuto una rara causa di ipertensione arteriosa, l’iperaldosteronismo è invece piuttosto frequente e spesso non diagnosticato. In particolare, un certo grado di iperaldosteronismo è riscontrabile in molti pazienti con ipertensione arteriosa resistente. L’eccesso di aldosterone non solo perpetua la presenza di elevati livelli pressori, ma riduce la potassiemia, facilita l’insorgenza di aritmie, tra cui la fibrillazione atriale, e induce sclerosi interstiziale in molti distretti, con conseguente danno d’organo. Mario Vetri et al. presentano una rassegna completa e aggiornata sull’iperaldosteronismo primitivo, chiarendo vari aspetti fisiopatologici, diagnostici e terapeutici. •

studio osservazionale





I love bypass…

I love bypass… difficile vedere qualcuno con una scritta del genere sulla maglietta! Quasi tutti i pazienti sottoposti a coronarografia temono che l’emodinamista alla fine della procedura si abbassi la mascherina e scuotendo la testa affermi che il palloncino non si può fare subito, ma occorrerà pensare ad uno o più bypass aortocoronarici per sistemare la malattia coronarica. Nonostante la gran parte degli studi abbiano dimostrato che il bypass vince a lungo temine il confronto con l’angioplastica nelle situazioni anatomicamente più complesse, i pazienti non vorrebbero doverlo affrontare perché ne temono l’invasività, i rischi procedurali e gli effetti a lungo termine. In questo numero del Giornale, Fabio Barili et al. descrivono il protocollo dello studio PRIORITY (PRedictIng long-term Outcomes afteR Isolated coronary arTery bypass surgerY) che ha proprio lo scopo di sviluppare attraverso uno studio di coorte retrospettivo e prospettico un modello per la stratificazione del rischio operatorio e dei risultati a 10 anni di distanza per i pazienti trattati con bypass isolato. Ci auguriamo tutti che i risultati di questo studio, quando saranno disponibili, ci faranno affermare con più facilità… I love bypass.

caso clinico





Un insolito caso di negata idoneità sportiva

L’idoneità sportiva rappresenta una frequente e talvolta inquietante sfida per il cardiologo. Infatti, i casi di morte improvvisa nello sportivo sono svariati e le cause non ancora note per una parte di essi. Geza Halasz et al. ci riportano un insolito caso di negata idoneità sportiva. Si tratta di un caso di prolasso valvolare mitralico: questa entità per molti anni è stata considerata una caratteristica anatomica benigna della valvola mitrale e nella maggior parte dei casi lo è. Tuttavia, esiste un tipo di prolasso che può essere definito “maligno” ed è quello che viene descritto in questo caso clinico dove vengono descritte alcune sue peculiarità. A causa del suo legame con la fibrosi miocardica e le aritmie ventricolari, il prolasso mitralico può rappresentare un motivo per vietare l’attività sportiva agonistica. •