Ipertensione resistente: integrazione
tra farmacoterapia e denervazione renale

Giovanna Gallo

Cardiologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Sapienza Università di Roma,
Azienda Ospedaliera Universitaria Sant’Andrea, Roma

The achievement of adequate blood pressure (BP) control and the management of resistant hypertension still represent two burning “unmet needs” in the field of cardiovascular diseases, thus originating a continuous search for more efficacious pharmacological and non-pharmacological strategies including radiofrequency and ultrasound renal denervation (RDN). The most recent guidelines recommend a combination therapy of two or more antihypertensive agents, preferably in a single-pill formulation, as first-line strategy to achieve an effective and early BP control also improving adherence to prescribed treatments. In the last few years several sham-controlled trials have confirmed both the BP-lowering efficacy and safety of RDN in a broad range of patients with hypertension, showing a significant reduction of office and ambulatory BP levels without a relevant increase of procedure-related adverse events such as renal artery stenosis and worsening renal function. These results have been recently confirmed by the analyses of 3-year follow-up data. According to these findings, RDN may represent a useful tool in addition to pharmacological treatment with more compelling indications for patients with resistant hypertension, those who are non-adherent or intolerant to multiple antihypertensive drugs or express a preference to undergo RDN. Further studies are necessary to explore the efficacy of RDN on prevention of hypertension-mediated organ damage and reduction of major cardiovascular events.

Key words. Hypertension; Pharmacological treatment; Renal denervation; Resistant hypertension.

L’ipertensione arteriosa rappresenta il principale fattore di rischio cardiovascolare modificabile, con più di 150 milioni di individui affetti in Europa1. Nonostante negli ultimi decenni sia stato compiuto un grande sforzo per implementare il controllo dei valori pressori, più del 40% dei soggetti ipertesi ancora non riesce a raggiungere in maniera efficace e persistente gli obiettivi terapeutici. Un’analisi cross-sectional della National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) ha recentemente mostrato come nel più recente intervallo temporale esaminato (2017-2018) la percentuale di pazienti a target si sia addirittura ridotta rispetto ai bienni precedenti, ammontando ad un deludente 43.7%2.

Le linee guida europee pubblicate nel 2018 raccomandano il raggiungimento degli obiettivi terapeutici entro 3 mesi dall’inizio del trattamento antipertensivo, combinando strategie farmacologiche e non1. Le modifiche dello stile di vita consistono nella riduzione dell’apporto di sale (<2 g di sodio al giorno) e alcol (<100 g a settimana), nella perdita di peso, nell’interruzione dell’abitudine tabagica e nell’esecuzione di attività fisica aerobica regolare.

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, sin dalle prime fasi è fortemente raccomandato come prima scelta l’impiego di terapie di combinazione di due classi farmacologiche, possibilmente in singola pillola1,3. Questo tipo di strategia consente non solo di migliorare l’efficacia del trattamento, sfruttando il sinergismo farmacologico e fisiopatologico delle molecole utilizzate, ma anche di implementare il profilo di tollerabilità, grazie all’uso di dosaggi più bassi e quindi alla riduzione degli effetti avversi dose-dipendenti, e l’aderenza terapeutica. Nei pazienti che non riescono ad ottenere i target pressori raccomandati con una duplice terapia è raccomandata l’aggiunta di un terzo farmaco, privilegiando sempre le formulazioni in singola pillola1,3.

Le combinazioni raccomandate nella maggior parte dei soggetti con ipertensione non complicata consistono nell’associazione di un inibitore del sistema renina-angiotensina (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina/antagonisti recettoriali dell’angiotensina) con un calcioantagonista e/o un diuretico tiazidico o simil-tiazidico1,3.

Si definisce ipertensione resistente la persistenza di valori pressori clinici non controllati (≥140/90 mmHg) nonostante l’impiego di tre farmaci, incluso un diuretico, al massimo dosaggio tollerato. La diagnosi di tale condizione deve essere confermata dall’esecuzione di misurazioni “out-of-office” (ambulatoriali e a domicilio) della pressione arteriosa e dopo aver escluso forme pseudoresistenti e secondarie di ipertensione arteriosa quali in particolare iperaldosteronismo, forme nefrovascolari e insufficienza renale cronica1.

Le forme pseudoresistenti possono essere attribuibili a diverse cause, fra cui la mancata aderenza alla terapia prescritta (parziale nel 13-46% dei casi e completa in una percentuale fra il 2% e il 35%), l’ipertensione da camice bianco (elevata pressione arteriosa clinica con normali valori ambulatoriali o a domicilio), l’inadeguatezza delle tecniche di misurazione della pressione arteriosa (impiego di un bracciale troppo piccolo rispetto alla circonferenza del braccio), la presenza di marcate calcificazioni a livello dell’arteria brachiale (soprattutto negli anziani), obesità, sindrome delle apnee ostruttive del sonno1.

Nel caso in cui la diagnosi di ipertensione resistente sia confermata, è raccomandata l’aggiunta alla terapia in corso di un antagonista del recettore dei mineralocorticoidi, in particolare dello spironolattone al dosaggio di 25-50 mg/die. Nel caso in cui lo spironolattone sia non tollerato o controindicato, la scelta può ricadere su un diuretico diverso quali eplerenone (50-100 mg/die), amiloride (10-20 mg/die) o in alternativa su un diuretico dell’ansa, oppure sul beta-bloccante bisoprololo (5-10 mg/die) o sull’alfa-bloccante doxazosina (4-8 mg/die), sulla base dei risultati ottenuti nello studio PATHWAY-24.

Negli ultimi 20 anni diversi studi hanno analizzato l’efficacia e la sicurezza di strategie terapeutiche basate sull’impiego di dispositivi, in particolar modo della denervazione delle arterie renali mediante radiofrequenza o ultrasuoni, come strumento complementare o alternativo alla terapia farmacologica in pazienti con ipertensione non controllata.

Nelle fasi iniziali della “saga” sulla denervazione renale, i promettenti risultati in termini di significativa riduzione dei valori di pressione arteriosa con ablazione a radiofrequenza hanno generato grande entusiasmo e aspettative5. Tuttavia, la pubblicazione dello studio Symplicity HTN-3 ha declassato la denervazione renale a procedura scoraggiata da linee guida e consensus internazionali, in quanto il trial ha infatti fallito nel dimostrare l’efficacia della denervazione con catetere a radiofrequenza a singolo elettrodo rispetto alla procedura sham6. Diversi limiti metodologici sono stati messi in evidenza, tra cui la mancata valutazione dell’aderenza alla terapia farmacologica prescritta prima della procedura interventistica, l’inadeguata selezione dei pazienti, le frequenti modifiche nelle strategie terapeutiche, l’inesperienza degli operatori nell’eseguire la procedura e l’impiego di un catetere monopolare di prima generazione poco performante, in grado di eseguire un’ablazione circonferenziale completa solo in un numero limitato di pazienti5.

Negli anni successivi sono stati condotti trial “sham-controlled” condotti con dispositivi di seconda generazione con cateteri ad ultrasuoni o multipolari a radiofrequenza che hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza della denervazione renale.

Lo studio Spyral HTN-OFF MED Pilot ha arruolato 80 pazienti con ipertensione arteriosa clinica e ambulatoriale delle 24 h non controllata dopo sospensione della terapia antipertensiva nelle 4 settimane precedenti e durante lo svolgimento del trial. La denervazione renale si è dimostrata efficace nel ridurre in maniera significativa i valori di pressione arteriosa sistolica delle 24 h a 3 mesi rispetto alla procedura sham (-5.5 vs -0.5 mmHg, p=0.0414)7.

Nel trial Spyral HTN-ON MED, condotto su 80 pazienti con ipertensione arteriosa clinica e ambulatoriale delle 24 h non controllata in terapia fino a tre farmaci antipertensivi, si è dimostrata una riduzione dei valori di pressione arteriosa sistolica delle 24 h di 9 mmHg nel gruppo assegnato alla procedura di denervazione renale rispetto ai 1.6 mmHg nel gruppo sham (p=0.006)8.

Nello studio Radiance-HTN SOLO, condotto su 146 pazienti con pressione arteriosa diurna non controllata, nel gruppo assegnato a denervazione renale è stata ottenuta una riduzione di 8.5 mmHg rispetto ai 2.2 mmHg nel gruppo sham (p=0.0001)9.

Nel trial Radiance-HTN TRIO, che ha arruolato 136 pazienti con pressione arteriosa clinica e ambulatoriale diurna non controllata nonostante terapia con tre farmaci antipertensivi, è stata dimostrata una riduzione di 8 mmHg nei valori di pressione arteriosa sistolica diurna nei pazienti trattati con denervazione renale rispetto a 3 mmHg nel gruppo che riceveva procedura sham (p=0.022)10.

Una metanalisi che ha incluso 1368 pazienti (di cui 782 randomizzati a denervazione renale e 586 al gruppo di controllo) per una durata media del follow-up di 4.5 mesi ha confermato i benefici della denervazione renale rispetto al controllo, mostrando una riduzione significativa dei valori di pressione sistolica (differenza 3.61 mmHg, p<0.0001) e diastolica (differenza 1.85 mmHg, p<0.0001) ambulatoriale delle 24 h, di pressione sistolica diurna (differenza 4.34 mmHg, p<0.0001), di pressione arteriosa clinica sistolica (differenza 5.86 mmHg, p<0.0001) e diastolica (differenza 3.63 mmHg, p<0.0001)11. I risultati erano indipendenti dall’assunzione concomitante di una terapia farmacologica, suggerendo un’efficacia della denervazione renale nel corso delle 24 h, dalla farmacocinetica, dagli schemi terapeutici e dall’aderenza alla terapia.

Nonostante 8-12 settimane si siano dimostrate sufficienti per dimostrare i benefici della denervazione renale, negli anni ci si è interrogati sull’efficacia a lungo termine della procedura5. Sebbene sia stata ipotizzata una possibile re-innervazione da parte del sistema simpatico, verosimilmente la nuova innervazione non sarebbe dotata di una funzionalità sovrapponibile a quella pre-procedurale12.

Possibili motivi di preoccupazione a lungo termine sono inoltre rappresentati dai potenziali effetti avversi della procedura, tra cui in particolare lo sviluppo di stenosi delle arterie renali e conseguente peggioramento della funzionalità renale. Tuttavia, in un’ampia metanalisi di 50 studi che ha incluso 5769 pazienti è stato evidenziato come l’incidenza annua di stenting delle arterie renali sia stata dello 0.2%, percentuale sovrapponibile a quella riportata nella popolazione generale di soggetti ipertesi, e come tale complicanza si sia manifestata entro il primo anno dalla procedura nel 79% dei casi13. Nel Global Symplicity Registry e in una metanalisi di 2381 pazienti non è stato inoltre descritta una riduzione tempo-dipendente della funzione renale14. Va comunque sottolineato che in tutti gli studi “sham-controlled” sono stati esclusi i pazienti con un filtrato glomerulare <40 ml/min/1.73 m2, non potendo pertanto stabilire la sicurezza della denervazione renale in un contesto clinico di insufficienza renale severa o terminale5.

È stata inoltre posta l’attenzione sulle potenziali sfide introdotte da studi condotti con una durata maggiore del follow-up, tra cui il crossover dei pazienti dal gruppo di controllo a quello trattato con denervazione renale, i cambiamenti dei valori pressori correlati all’età, al peso corporeo e a modifiche nello stile di vita, l’aggiunta di nuovi farmaci antipertensivi per migliorare il controllo dei valori pressori, eventuali modifiche dinamiche nell’aderenza alla terapia, lo sviluppo di patologie concomitanti, la presenza di bias nella valutazione degli eventi5.

Recentemente sono stati pubblicati i risultati a 3 anni degli studi SPYRAL HTN-ON MED e RADIANCE-HTN SOLO15,16.

Nell’analisi del trial SPYRAL HTN-ON MED15 a 36 mesi la riduzione dei valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica ambulatoriale delle 24 h, di pressione sistolica diurna e notturna è stata significativamente superiore nel gruppo trattato con denervazione renale rispetto al controllo (differenza di 10 mmHg, 5.9 mmHg, 11 mmHg e 11.8 mmHg, rispettivamente). Non sono state riscontrate differenza fra i due gruppi negli endpoint di sicurezza a lungo termine, valutata come outcome composito di mortalità per tutte le cause, infarto miocardico, ictus ischemico, ospedalizzazioni per emergenze ipertensive, sviluppo di insufficienza renale. Non sono state riportate complicanze correlate alla procedura.

Anche nello studio RADIANCE-HTN SOLO16 è stata dimostrata una riduzione a 36 mesi dei valori di pressione arteriosa clinica (-18/11 mmHg) in seguito alla procedura di denervazione renale, con un concomitante miglioramento del controllo pressorio rispetto al momento dello screening (da 29.4% a 45.1%) indipendentemente dal numero di farmaci prescritti. Non sono stati registrati eventi avversi correlati alla procedura, confermandone il buon profilo di sicurezza e tollerabilità. Va sottolineato come i pazienti arruolati non avessero storia di diabete e precedenti eventi cardiovascolari o cerebrovascolari, con un rischio cardiovascolare stimato basso. Inoltre, sono stati esclusi individui di età >75 anni con l’obiettivo di minimizzare l’eventuale effetto confondente dell’ipertensione arteriosa sistolica e di un’aumentata rigidità vascolare, impedendo tuttavia di estendere i risultati ottenuti ad un contesto di pazienti anziani.

In aggiunta, bisogna sottolineare come in entrambi gli studi, sebbene la procedura di denervazione renale sia associata ad una sostenuta riduzione dei valori di pressione arteriosa, non siano stati raggiunti i target raccomandati dalle linee guida internazionali17. Va inoltre evidenziato come sia i medici che i pazienti siano stati informati sul gruppo di assegnazione dopo 6 mesi dalla randomizzazione e come sia stato consentito il crossover tra i gruppi dopo 12 mesi, con una possibile influenza sulla frequenza del follow-up, la prescrizione dei farmaci e l’aderenza alla terapia17.

Nonostante questi studi abbiano fornito dei risultati incoraggianti sull’efficacia e la sicurezza a lungo termine della denervazione renale, alcune questioni rimangono non risolte, tra cui i potenziali benefici in termini di prevenzione o riduzione del danno d’organo mediato dall’ipertensione5.

Inoltre, al momento non sono stati condotti studi in specifiche popolazioni a rischio cardiovascolare elevato o molto elevato, tra cui i pazienti con precedenti eventi cardiovascolari quali infarto miocardico e ictus o con diversi fattori di rischio concomitanti. In questi pazienti è infatti di fondamentale importanza il raggiungimento di un adeguato controllo della pressione arteriosa, reso più complicato da una potenziale riduzione dell’aderenza al trattamento, dovuta alla complessità degli schemi terapeutici necessari per il trattamento delle differenti patologie associate.

Sulla base delle evidenze attualmente disponibili la denervazione renale dovrebbe essere proposta principalmente a pazienti affetti da ipertensione resistente o difficile da controllare, in particolare in caso di ridotta tolleranza o mancata aderenza alla terapia farmacologica5. La decisione dovrebbe essere condivisa con il paziente, tenendo conto delle preferenze e degli specifici obiettivi terapeutici e valutando attentamente il rapporto fra i potenziali effetti avversi di una procedura invasiva, seppur limitati, e i benefici attesi in termini di riduzione sia dei valori pressori che del rischio cardiovascolare globale.

RIASSUNTO

Nonostante la disponibilità di diverse strategie farmacologiche e non farmacologiche nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, spesso i target terapeutici raccomandati non vengono raggiunti. Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, le linee guida raccomandano l’impiego di terapie di combinazione di due o più farmaci, preferibilmente in singola pillola. Negli ultimi anni diversi studi clinici hanno confermato l’efficacia della procedura di denervazione renale nel ridurre i valori di pressione arteriosa clinica e ambulatoriale con un buon profilo di sicurezza. Sulla base di queste evidenze, la denervazione renale potrà rappresentare un utile strumento in aggiunta alla terapia farmacologica in pazienti con ipertensione resistente, non aderenti o intolleranti a terapie farmacologiche complesse o che esprimono la preferenza di sottoporsi a questa procedura. Studi successivi saranno necessari per valutare i benefici della denervazione renale anche nel prevenire il danno d’organo e nel ridurre gli eventi cardiovascolari maggiori.

Parole chiave. Denervazione renale; Ipertensione arteriosa; Ipertensione resistente; Terapia farmacologica.

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