La terapia di associazione nell’ipertensione arteriosa: come personalizzare la cura

Alessandra Bacca1,2, Stefano Taddei1,2

1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi, Pisa

2Centro di Riferimento Regionale per la Diagnosi e Cura dell’Ipertensione Arteriosa, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa

Combination therapy is necessary in approximately 70% of hypertensive patients to achieve adequate blood pressure control. Furthermore, fixed combinations have a documented clinical utility as they increase therapeutic adherence. The most effective combinations of antihypertensive drugs are those made with drugs that have a complementary effect on the blood pressure regulation systems. In other words, it is rational to combine drugs that block the renin-angiotensin system or the sympathetic nervous system with drugs that activate these systems. Therefore, with regard to antihypertensive efficacy, both the fixed combination ACE-inhibitor/calcium channel blocker and the fixed combination AT1 antagonist/calcium channel blocker are rational as they have an additive effect on blood pressure reduction and improve the tolerability of the individual molecules. However, the choice of a combination therapy should not be limited only to evaluating the efficacy on blood pressure levels, but a more important target is certainly the ability to reduce cardiovascular events. As regards calcium channel blockers, the molecule with the best evidence of clinical efficacy in randomized controlled studies is certainly amlodipine (VALUE, CAMELOT, PREVENT, CAPARES, ASCOT and ACCOMPLISH studies). Also as regards ACE-inhibitors, the use of ramipril is supported by a significant series of clinical studies (HOPE, micro-HOPE and AIRE). In accordance with their efficacy, both molecules are the most used in daily clinical practice. It is however necessary to underline that, among AT1 antagonists, the best scientific literature certainly supports the efficacy of candesartan (SCOPE, TROPHY, AMAZE, CALM and DIRECT studies) which should therefore be the reference molecule in clinical use. Therefore, the combinations of ramipril/amlodipine and candesartan/amlodipine represent a therapeutic opportunity of primary importance as they combine the ACE-inhibitor, AT1 antagonist and the calcium channel blocker with the best documentation of efficacy in randomized controlled trials.

In conclusion, the support of the scientific literature indicates that the rational use of these combinations can certainly represent an optimal choice for the treatment of arterial hypertension according to the best criteria of therapeutic appropriateness.

Key words. ACE-inhibitors; Amlodipine; Angiotensin receptor blockers; Calcium channel blockers; Candesartan; Cardiovascular risk; Essential hypertension; Ramipril.

INTRODUZIONE

Dovendo affrontare il tema della terapia dell’ipertensione arteriosa, è impossibile non pensare a che cosa si possa aggiungere di nuovo ed interessante su di un argomento per il quale la sensazione diffusa è che ormai ci sia ben poco da aggiungere a quanto già divulgato dall’enorme numero di pubblicazioni che è disponibile sull’argomento. Eppure, se analizziamo bene il problema, è necessario sottolineare alcuni punti precisi:

– le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morbilità e mortalità nei paesi industrializzati, e pertanto la nostra capacità di prevenire questo problema è ancora limitata;

– l’ipertensione arteriosa, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, rappresenta la prima causa di morte al mondo1;

– non più del 40% della popolazione ha la pressione arteriosa ben controllata (<140-90 mmHg).

Pertanto nella pratica clinica quotidiana siamo ancora lontani dal ridurre in modo decisivo l’impatto di questo fattore di rischio sulla salute globale dei nostri pazienti.

VALORI TARGET DEL TRATTAMENTO ANTIPERTENSIVO

Gli studi epidemiologici dimostrano che i valori di pressione arteriosa hanno una relazione lineare con gli eventi cardiovascolari. È importante notare che la relazione rimane la stessa sia per valori di pressione arteriosa sopra e sotto 140-90 mmHg, la cosiddetta soglia di normalità, come chiaramente dimostrato dai dati dello studio di Framingham.

Tuttavia, quali siano i valori di pressione che debbano essere raggiunti con la terapia antipertensiva è tuttora un argomento aperto alla discussione scientifica. È fuor di discussione che i valori pressori debbano essere ridotti al di sotto della soglia di 140-90 mmHg, ma ormai tutte le linee guida concordano nell’indicare obiettivi più ambiziosi (<130-80 mmHg) in pazienti con elevato rischio cardiovascolare2,3.

PERCHÉ È DIFFICILE NORMALIZZARE LA PRESSIONE ARTERIOSA?

Tra i fattori che indubbiamente concorrono a determinare lo scarso controllo dei valori pressori nella popolazione generale, due aspetti determinanti sono essenzialmente il non corretto uso della terapia di associazione e la scarsa aderenza al trattamento farmacologico.

Terapia di associazione

La terapia di associazione è sicuramente rivolta a tutti quei pazienti nei quali non si riesce a ottenere la normalizzazione dei valori pressori con la monoterapia, anche se le linee guida 2023 della Società Europea dell’Ipertensione (ESH) e 2024 della Società Europea di Cardiologia (ESC) la propongono già come scelta iniziale2,3. Nel paziente con ipertensione di grado I-II (lieve-moderata), l’associazione razionale di due principi terapeutici migliora in modo significativo la risposta ipotensivante in quanto circa il 75-80% dei pazienti risponde ad un’associazione di due differenti agenti farmacologici4. Infatti l’associazione di due farmaci antipertensivi, se eseguita in modo razionale, porta ad un effetto di potenziamento ottenendo un’efficacia antipertensiva decisamente superiore alla somma dell’efficacia dei singoli composti, in quanto, in tal modo, è possibile bloccare alcuni meccanismi riflessi omeostatici e minimizzare gli effetti collaterali. A questo proposito alcuni studi clinici hanno dimostrato che gli effetti avversi sono meno frequenti con basse dosi di due differenti farmaci rispetto agli alti dosaggi di un singolo composto. Questo dato è di estrema importanza in quanto il 30-40% dei pazienti sospende la terapia a causa di effetti collaterali, e questo non accade se si utilizzano associazioni di farmaci differenti4.

Nel trattamento invece di pazienti con ipertensione severa (grado III), soprattutto se con evidenza di danno d’organo, la scelta di una terapia di associazione è obbligatoria, in quanto è richiesto un abbassamento importante dei valori pressori nonché la regressione del danno d’organo.

Pertanto la terapia di combinazione rappresenta una delle più importanti soluzioni al problema dello scarso controllo della pressione arteriosa nei pazienti con ipertensione arteriosa, in quanto con questa scelta terapeutica si può ottenere una maggiore efficacia e una migliore tollerabilità. Tuttavia, la terapia di combinazione non può essere eseguita associando in modo acritico le varie classi di farmaci antipertensivi. Mentre alcune associazioni sono vantaggiose, altre sono del tutto inutili e alcune persino pericolose. È quindi importante che il medico conosca i principi farmacologici che sono alla base di un’associazione razionale dei farmaci in modo da poter utilizzare questo importante strumento per una migliore efficacia nel controllo dei valori pressori.

CRITERI PER UNA BUONA ASSOCIAZIONE DI FARMACI ANTIPERTENSIVI

Quali sono i criteri farmacologici per poter fare una buona associazione di farmaci antipertensivi? Innanzitutto l’associazione deve essere costituita da farmaci con lo stesso profilo farmacocinetico in termini soprattutto di durata d’azione5.

Un parametro estremamente importante da considerare è che bisogna associare farmaci che hanno meccanismi d’azione diversi, ma complementari (ad es. un farmaco che attiva il sistema renina-angiotensina [SRA] con un farmaco che lo inibisce; un vasodilatatore che determina un’attivazione riflessa del sistema nervoso simpatico [SNS] con un farmaco che modula in senso negativo l’attività del SNS) (Figura 1).




È quindi intuitivo che non bisogna mai associare due farmaci della stessa classe (ad es. due inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina [ACE] o due beta-bloccanti) o della stessa sottoclasse (ad es. due calcio-antagonisti diidropiridinici o due diuretici tiazidici). È infine necessario fare molta attenzione a non associare farmaci con effetto d’azione opposto (tipico errore è l’associazione di un α1-antagonista con un simpatico-modulatore α-agonista quale la clonidina), in quanto i due farmaci annullano reciprocamente il proprio effetto.

Se i due farmaci da associare hanno un meccanismo d’azione diverso, ma complementare, l’efficacia antipertensiva dell’associazione risulta superiore all’efficacia antipertensiva di ogni singolo farmaco presente nell’associazione, con un effetto additivo o di potenziamento.

Infine l’associazione, oltre ad aumentare l’efficacia antipertensiva, deve ridurre gli effetti umorali indesiderati (ad es. l’associazione dell’ACE-inibitore o dell’AT1-antagonista riduce l’ipopotassiemia e l’iperuricemia causate dal diuretico tiazidico) e perfino gli effetti collaterali (ad es. gli ACE-inibitori e gli AT1-antagonisti riducono l’edema premalleolare dei calcio-antagonisti, mentre i calcio-antagonisti riducono la tosse da ACE-inibitori)5.

QUALI SONO I PIÙ COMUNI ERRORI CLINICI NELLA TERAPIA DI ASSOCIAZIONE?

Alcune associazioni vengono eseguite con farmaci che hanno meccanismo d’azione senza effetto ipotensivo additivo (Tabella 1).




Un tipico esempio è l’associazione di un beta-bloccante con un ACE-inibitore (e probabilmente anche con un AT1-antagonista). Questa associazione non è razionale in quanto entrambi i farmaci bloccano il SRA. Nello studio ALLHAT6, che prevedeva un confronto tra un diuretico (clortalidone), un calcio-antagonista diidropiridinico (amlodipina) e un ACE-inibitore (lisinopril), la prima combinazione consentita dal disegno sperimentale era l’associazione con un beta-bloccante. Ebbene, mentre le associazioni diuretico/beta-bloccante o calcio-antagonista diidropiridinico/beta-bloccante hanno un effetto additivo in termini di riduzione dei valori pressori, la combinazione ACE-inibitore/beta-bloccante non ha alcun effetto additivo. Pertanto il braccio di pazienti trattati con l’ACE-inibitore è risultato avere valori pressori significativamente più elevati rispetto agli altri pazienti, proprio per la minore efficacia della terapia di combinazione.

Un’altra associazione inutile è quella tra un calcio-antagonista e il diuretico (Tabella 1). I calcio-antagonisti hanno essi stessi un effetto natriuretico e pertanto non è logico associarli ai diuretici, come dimostrato da numerosi studi clinici. Il tentativo poi di ridurre l’eventuale edema perimalleolare tipico dei calcio-antagonisti diidropiridinici con il diuretico è una manovra terapeutica non corretta in quanto l’edema perimalleolare dei calcio-antagonisti non è dovuto a ritenzione idrica, ma all’aumento della pressione capillare dovuta alla vasodilatazione arteriolare senza modificazioni del tono venoso. Se infatti, come già descritto, associamo al calcio-antagonista un bloccante del SRA, che determina anche dilatazione venosa, è possibile osservare una riduzione dell’edema premalleolare.

In ogni caso queste associazioni non sono pericolose per il paziente, tanto che, in quei casi particolari dove è richiesta la triplice o quadruplice terapia antipertensiva (ipertensione maligna, pazienti ipertesi con nefropatia e proteinuria), è possibile utilizzare insieme questi farmaci in quanto il singolo componente va ad interagire con gli altri componenti dell’associazione.

Altre associazioni invece non devono essere fatte in quanto non efficaci e talora pericolose per il paziente (Tabella 1). Abbiamo già accennato come non debbano essere associati un α1-antagonista e la clonidina in quanto il loro effetto si annulla reciprocamente. Altre associazioni sono invece potenzialmente pericolose. In particolare non devono essere mai associati i beta-bloccanti con la clonidina. Infatti l’aumento parossistico dei valori pressori che si osserva 18-36 h dalla sospensione della clonidina (denominato “effetto rebound”), che sebbene raramente può essere osservato anche con la terapia transdermica, può essere peggiorato dalla simultanea somministrazione di un beta-bloccante. Infatti questi farmaci, bloccando i recettori β-adrenergici vascolari, che inducono vasodilatazione, lasciano i recettori α-adrenergici vasocostrittori esposti all’aumento delle catecolamine plasmatiche indotto dall’ipertono simpatico conseguente alla sospensione della clonidina. Inoltre i beta-bloccanti non devono essere associati ai calcio-antagonisti non diidropiridinici in quanto questi farmaci sommerebbero i rispettivi effetti cronotropi, dromotropi e inotropi negativi.

In conclusione, la terapia di combinazione rappresenta un elemento fondamentale per un corretto trattamento farmacologico del paziente iperteso. Infatti l’associazione razionale di due molecole può determinare non solo una maggior efficacia terapeutica, ma anche migliorare la tollerabilità del trattamento, riducendo sia gli effetti collaterali che le eventuali modificazioni sul profilo elettrolitico e metabolico.

È PREFERIBILE UTILIZZARE UNA COMBINAZIONE FISSA O UNA COMBINAZIONE ESTEMPORANEA?

Le linee guida indicano chiaramente di utilizzare, quando possibile, le combinazioni fisse2,3. È infatti ampiamente dimostrato che, riducendo il numero di compresse quotidiane, si facilita l’aderenza allo schema terapeutico e la persistenza in terapia nel lunghissimo periodo, che rappresentano un elemento fondamentale ai fini dell’ottenimento del beneficio clinico7. Numerosi studi e metanalisi, infatti, indicano come la compliance del paziente nei confronti di una qualsiasi terapia sia inversamente proporzionale al numero di compresse assunte nel corso della giornata e si riduca in modo drammatico quando il paziente è costretto ad assumere più di una compressa al giorno7. Tali studi, d’altra parte, dimostrano anche che una maggior aderenza allo schema terapeutico si traduce non solo nel miglior controllo dei valori pressori, bensì anche in un minore numero di ricoveri ospedalieri e visite ambulatoriali, ed in una consistente riduzione della spesa sanitaria.

Infine, l’evidenza decisiva nell’indicazione all’utilizzo delle combinazioni fisse deriva da uno studio eseguito analizzando le prescrizioni dei farmaci nella regione Lombardia8. I risultati di questo studio infatti dimostrano che chi inizia il trattamento con una combinazione fissa di farmaci antipertensivi ha una miglior prognosi rispetto a chi assume una monoterapia (Figura 2)8.




PERCHÉ È RAZIONALE ASSOCIARE UN INIBITORE DEL SISTEMA RENINA-ANGIOTENSINA E UN CALCIO-ANTAGONISTA?

L’associazione di queste due classi di farmaci è tra quelle sicuramente da preferire nella pratica clinica quotidiana per molte ragioni.

Dal punto di vista della farmacodinamica, questa associazione è razionale in quanto mentre il calcio-antagonista causa un’attivazione riflessa del SRA, l’ACE-inibitore o l’AT1-antagonista bloccano l’attività del SRA. Quindi il meccanismo d’azione dei due farmaci è sinergico e questa è la base per un’associazione razionale.

Inoltre entrambe queste classi di farmaci sono risultate essere efficaci sia sul danno d’organo causato dall’ipertensione che sugli eventi clinici cardiovascolari. A questo proposito lo studio COPE ha dimostrato l’efficacia proprio della combinazione AT1-antagonista/calcio-antagonista sugli eventi cardiovascolari9. Inoltre possono essere sicuramente sottolineati i risultati degli studi ASCOT-BPLA10 e ACCOMPLISH11 che hanno dimostrato come l’associazione ACE-inibitore/calcio-antagonista sia superiore rispettivamente all’associazione beta-bloccante/diuretico o ACE-inibitore/diuretico.

Un altro dato importante è che, come già precedentemente commentato, la presenza del bloccante del SRA riduce l’incidenza del più importante effetto collaterale del calcio-antagonista e cioè l’edema premalleolare.

Pertanto, considerando l’ottimale tollerabilità di ACE-inibitori e AT1-antagonisti e riducendo significativamente l’unico effetto collaterale importante dei calcio-antagonisti, è ovvio che questa associazione possa essere considerata di prima scelta nella terapia dell’ipertensione arteriosa. E a questo riguardo le linee guida ESH 20232 ed ESC 20243 indicano chiaramente che l’associazione bloccanti del SRA/calcio-antagonista sia tra quelle da preferire nel trattamento del paziente iperteso (Figura 3).




Ovviamente nella pratica clinica è doveroso porsi il quesito se tutte le possibili combinazioni tra queste classi di farmaci siano equivalenti. Non essendoci studi di confronto fra le varie molecole o combinazione di molecole, la scelta dovrebbe essere determinata selezionando molecole che abbiano una documentata efficacia sugli eventi cardiovascolari sulla base di studi clinici di intervento.

QUALE CALCIO-ANTAGONISTA SCEGLIERE?

Ebbene, la risposta a questa domanda è ovvia e deriva dall’analisi della letteratura scientifica, in parte già esposta nei paragrafi precedenti.

Le varie dimostrazioni delle caratteristiche favorevoli dei calcio-antagonisti sia sul danno d’organo che sugli eventi clinici derivano in gran parte dagli studi VALUE12, CAMELOT13, PREVENT14, CAPARES15, ASCOT10, ACCOMPLISH11 nei quali la molecola di scelta è sempre stata l’amlodipina. Oltre poi a questa serie veramente importante di evidenze scientifiche non deve essere trascurata l’esperienza clinica delle migliaia di pazienti trattati con efficacia e soddisfazioni nella pratica clinica quotidiana.

Pertanto è ovvio concludere che certamente l’amlodipina è il calcio-antagonista di prima scelta. Se appena introdotto nella pratica clinica questo farmaco si faceva apprezzare per l’evidente effetto antipertensivo, l’accumularsi delle evidenze scientifiche ne hanno dimostrato un’efficacia che va ben oltre la semplice riduzione della pressione arteriosa. Forse proprio un maggior utilizzo di questo farmaco nella pratica clinica quotidiana, sia come farmaco di prima scelta che come terapia di associazione, potrebbe essere una delle armi a disposizione sia per migliorare il controllo dei valori pressori nella popolazione generale, che per ottenere una riduzione della patologia cardiovascolare.

La dimostrazione che l’amlodipina è il calcio-antagonista di prima scelta sta nel fatto che la maggior parte delle combinazioni fisse tra ACE-inibitori o AT1-antagonisti siano state realizzate proprio con questo farmaco.

Pertanto, per la scelta di una terapia appropriata diventa cruciale identificare l’ACE-inibitore o l’AT1-antagonista con una solida letteratura di efficacia sugli eventi clinici.

QUALE ACE-INIBITORE SCEGLIERE?

Nella pratica clinica c’è ampia disponibilità di scelta per quanto riguarda la classe degli ACE-inibitori. Tuttavia, è fuor di discussione che il ramipril sia la molecola di riferimento per tutta la classe. Questo farmaco, infatti, è alla base della dimostrazione di efficacia degli ACE-inibitori in numerose condizioni cliniche quali l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, il post-infarto del miocardio e l’insufficienza renale. Dal punto di vista meccanicistico il ramipril, oltre al classico effetto di blocco del sistema renina-angiotensina-aldosterone, determina anche un miglioramento della disfunzione endoteliale andando a ripristinare la biodisponibilità di ossido nitrico (NO)16. Questa molecola, prodotta da un endotelio intatto, rappresenta il principale meccanismo di protezione vascolare dallo sviluppo di aterosclerosi17. Il NO, infatti, oltre a determinare vasodilatazione, ha proprietà antiaggreganti piastriniche, inibisce la proliferazione e migrazione delle fibrocellule muscolari lisce, l’adesione dei monociti e l’espressione di molecole di adesione17. I fattori di rischio cardiovascolare producono stress ossidativo e le molecole reattive dell’ossigeno vanno a distruggere il NO. Pertanto, un endotelio disfunzionante non solo perde la capacità di proteggere la parete vascolare, ma diventa esso stesso promotore di aterosclerosi17.

Il ramipril, quindi, che è in grado di ripristinare la biodisponibilità di NO, può assicurare una protezione cardiovascolare superiore rispetto al semplice controllo dei valori pressori16. E questo è dimostrato da tutta una serie importante di trial clinici. È inutile ricordare come lo studio HOPE18 ha modificato il trattamento nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare, dimostrando che il ramipril può ridurre la mortalità cardiovascolare e la mortalità totale, l’ictus e l’infarto non fatale, con un’efficacia almeno in parte non determinata dalla riduzione dei valori pressori. È da sottolineare che trial simili, quali il PEACE19 e il TRANSCEND20, non hanno confermato la stessa efficacia rispettivamente per l’ACE-inibitore trandolapril e per l’AT1-antagonista telmisartan. L’efficacia del ramipril sugli eventi cardiovascolari è stata poi confermata nei pazienti diabetici dal MICRO-HOPE21 e nei pazienti con post-infarto e insufficienza cardiaca nello studio AIRE22.

È possibile quindi indicare il ramipril quale scelta ideale in una terapia di combinazione con un calcio-antagonista.

QUALE AT1-ANTAGONISTA SCEGLIERE?

Indubbiamente, tra i vari AT1-antagonisti disponibili nella pratica clinica quotidiana, il candesartan ha una delle migliori evidenze di efficacia. Questa molecola ha una prolungata durata d’azione con un profilo farmacocinetico molto simile a quello dell’amlodipina (Figura 4)23.




La sua efficacia antipertensiva è elevata e in linea con i principali farmaci delle varie classi. In uno studio di confronto, l’effetto antipertensivo del candesartan è risultato sovrapponibile a quello dell’amlodipina. Infine, è necessario sottolineare come in tutti gli studi clinici di efficacia la tollerabilità del farmaco è risultata simile a quella del placebo24.

Per quanto riguarda il danno d’organo, il candesartan si è dimostrato efficace nel ridurre l’ipertrofia ventricolare sinistra e nell’assicurare la nefroprotezione sia in pazienti con nefropatia diabetica che non diabetica (studi CALM e DIRECT)25,26. Va inoltre evidenziato che, come già indicato per il ramipril, anche il candesartan è in grado di ripristinare la biodisponibilità di NO in pazienti con ipertensione essenziale27.

Infine, il farmaco ha dimostrato la sua efficacia sugli eventi cardiovascolari in numerosi studi di intervento sia nell’ipertensione arteriosa (SCOPE, TROPHY, AMAZE)28-30, nei pazienti ad elevato rischio cardiovascolare (ACCESS)31 e nei pazienti con scompenso cardiaco (CHARM)32,33.

È importante sottolineare che tra i vari AT1-antagonisti, il candesartan ha la migliore letteratura in termini di efficacia negli studi clinici controllati (Figura 5).




Tuttavia, è doveroso stigmatizzare che questo dato fondamentale non sembra essere preso in considerazione dalla classe medica. Se analizziamo i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco34, risulta che l’ACE-inibitore più utilizzato è il ramipril, mentre il calcio-antagonista più utilizzato è l’amlodipina e queste scelte sono perfettamente coerenti con la letteratura scientifica.

Per quanto riguarda invece gli AT1-antagonisti, il farmaco più utilizzato è l’olmesartan, il quale ha una letteratura scientifica su studi clinici controllati inferiore ad altri AT1-antagonisti. Di fatto, il farmaco è stato valutato nello studio ROADMAP, nel quale si voleva valutare l’efficacia della molecola sulla comparsa di microalbuminuria in pazienti diabetici35. I risultati dimostrano un’efficacia del farmaco nel rallentare la progressione verso la microalbuminuria, peraltro in linea con tutti gli altri AT1-antagonisti, ma anche un preoccupante aumento significativo di mortalità cardiovascolare in pazienti con pregressa cardiopatia ischemica. Ovviamente questo unico dato non è sufficiente per arrivare a conclusioni certe sull’efficacia dell’olmesartan, ma sicuramente pone dei dubbi come AT1-antagonista di prima scelta.

Pertanto, se analizziamo le caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche del candesartan insieme alla sua efficacia sui valori di pressione arteriosa, sul danno d’organo e, elemento più importante, sugli eventi cardiovascolari in pazienti con differenti caratteristiche, è possibile concludere che questo farmaco possa essere associato in modo ottimale con l’amlodipina.

EFFICACIA DI RAMIPRIL/AMLODIPINA IN COMBINAZIONE FISSA

Per quanto riguarda le varie combinazioni fisse presenti in commercio, in realtà la letteratura disponibile sulla loro efficacia, anche solo su obiettivi intermedi come la pressione arteriosa, è alquanto limitata. Vediamo invece la letteratura che supporta l’utilizzo della combinazione fissa ramipril/amlodipina nei pazienti ipertesi.

Lo studio ATAR ha confrontato l’efficacia della combinazione fissa ramipril/amlodipina nei confronti dell’amlodipina in monoterapia in pazienti con ipertensione di grado 1 e 236. Lo studio, di tipo multicentrico, ha arruolato 131 pazienti trattati con la combinazione dei due farmaci mentre 134 pazienti sono stati trattati con la monoterapia. Il follow-up è stato di 18 settimane. I risultati ottenuti con il monitoraggio della pressione arteriosa nelle 24 h dimostrano che i pazienti del gruppo della terapia di associazione hanno presentato una riduzione della pressione sistolica di 20.7 mmHg, mentre nel gruppo della monoterapia la riduzione è stata di 15.8 mmHg; la pressione diastolica si è ridotta rispettivamente di 11.7 e 8.6 mmHg. È da sottolineare una minore incidenza di effetti collaterali e soprattutto di edema perimalleolare, riscontrato nel 18.7% dei pazienti trattati con la sola amlodipina e ridotto al 7.6% nei pazienti trattati con l’associazione.

Un ulteriore studio ha valutato l’efficacia dell’associazione ramipril/amlodipina in 100 pazienti con ipertensione arteriosa di grado 2-3 e rischio cardiovascolare elevato37. Dopo 12 settimane di trattamento con la combinazione fissa la pressione arteriosa sistolica era diminuita del 22.2% e la diastolica del 18.5%. I risultati di questo studio quindi consentono di proporre la combinazione fissa ramipril/amlodipina come terapia farmacologica iniziale in pazienti con ipertensione arteriosa moderata e grave ed elevato rischio cardiovascolare.

L’efficacia della terapia di associazione ramipril/amlodipina è stata poi valutata nello studio RAMONA, una sperimentazione multicentrica che ha arruolato 9169 pazienti con ipertensione arteriosa di grado 1-2 (lieve e moderata) e mancato raggiungimento del target pressorio dopo quasi 10 anni di terapia antipertensiva38. La terapia di associazione ramipril/amlodipina è stata prescritta nei dosaggi 5/5, 5/10, 10/5 e 10/10 mg con possibilità di titolazione da parte del medico. L’obiettivo primario era la valutazione dell’efficacia antipertensiva della terapia di associazione fissa ramipril/amlodipina dopo 4 mesi di trattamento, mentre l’obiettivo secondario era rappresentato dall’effetto di tale terapia sui parametri metabolici e sull’aderenza al trattamento. I risultati hanno dimostrato una riduzione di 26.4 mmHg per la pressione sistolica e di 11.8 mmHg per la pressione diastolica mentre il target pressorio è stato raggiunto nel 52.4% dei pazienti. Interessanti sono poi i dati metabolici, in quanto la combinazione ha determinato una riduzione significativa dei livelli di colesterolo totale e colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità e della glicemia a digiuno (p<0.05 per tutti i parametri). Tuttavia è necessario sottolineare una limitazione dello studio che è rappresentata dal fatto che solo il 31% dei pazienti hanno assunto la dose ottimale di ramipril e cioè 10 mg/die.

Interessanti sono poi i risultati ottenuti in vari sottogruppi di pazienti arruolati nello studio RAMONA, come ad esempio quelli ottenuti in un sottogruppo di pazienti con insufficienza renale cronica, nei quali la combinazione ramipril/amlodipina ha determinato un aumento significativo del filtrato glomerulare, confermando quindi un effetto nefroprotettivo. Inoltre è stato valutato anche un sottogruppo di 1276 pazienti diabetici, sempre arruolati nello studio RAMONA39. In questi pazienti la pressione arteriosa è diminuita da 157.5/91.3 ± 9.6/7.6 mmHg a 130.9/79.6 ± 7.4/5.8 mmHg. Inoltre, al termine del follow-up si è osservata una riduzione significativa dei valori di glicemia a digiuno, da 7.2 ± 1.88 mmol/l a 6.7 ± 1.38 mmol/l (p<0.0001) e il livello di emoglobina glicata è diminuito del 4.6% (p<0.0001).

Infine, un’analisi eseguita in Germania ha valutato l’aderenza in 71 463 pazienti che assumono ramipril e amlodipina in combinazione fissa (n=10 938) o estemporanea (n=60 525)40. I risultati dimostrano chiaramente come la combinazione fissa migliora in modo significativo l’aderenza e la persistenza alla terapia antipertensiva (Figura 6).




EFFICACIA DI CANDESARTAN/AMLODIPINA IN COMBINAZIONE FISSA

Anche per quanto riguarda la combinazione candesartan/amlodipina abbiamo numerose evidenze di efficacia.

Uno studio ha valutato questa associazione in 425 pazienti con valori pressori sistolici <200 mmHg e valori pressori diastolici tra 95 e 115 mmHg. Questi pazienti sono stati randomizzati a ricevere uno di questi otto trattamenti: candesartan (8 o 16 mg), amlodipina (5 o 10 mg), candesartan/amlodipina (8 mg/5 mg, 8 mg/10 mg, 16 mg/5 mg, o 16 mg/10 mg) per 8 settimane. La terapia di combinazione si è rivelata più efficace rispetto ai singoli componenti (candesartan/amlodipina 16/10: -18.6 mmHg; candesartan 16: -11.8 mmHg; amlodipina 10: -14.7 mmHg). Tutti i trattamenti sono stati ben tollerati41. Ma a parte l’efficacia antipertensiva, di particolare rilevanza è lo studio HIJ-CREATE che ha valutato l’efficacia della combinazione candesartan/amlodipina sugli eventi cardiovascolari maggiori in pazienti con ipertensione e cardiopatia ischemica42. Lo studio HIJ-CREATE ha confrontato, con un disegno sperimentale multicentrico, prospettico, randomizzato e controllato, l’efficacia di candesartan/amlodipina vs amlodipina in monoterapia in 2049 pazienti. Il periodo di follow-up medio è stato di 4.3 anni. La terapia di combinazione ha ridotto gli eventi cardiovascolari maggiori rispetto alla monoterapia del 39% (p=0.015). Il risultato più significativo è la riduzione di ospedalizzazione per angina instabile del 52% (p=0.007). In conclusione, questo studio dimostra in modo convincente che la combinazione di candesartan/amlodipina riduce l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, un dato che non è disponibile per le combinazioni disponibili di amlodipina con altri AT1-antagonisti.

CONCLUSIONI

La terapia dell’ipertensione arteriosa è tuttora un problema non risolto nella pratica clinica quotidiana, in quanto questo fattore di rischio continua a rappresentare la prima causa di decessi al mondo. Uno degli ostacoli maggiori all’efficacia del trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa è rappresentato dalla bassa aderenza alla terapia. In accordo con quanto espresso dalle linee guida, l’utilizzo delle associazioni fisse nella terapia dell’ipertensione arteriosa deve essere raccomandato per migliorare l’aderenza allo schema terapeutico. È ormai dimostrato che una miglior aderenza alla terapia si traduce in un miglior controllo dei valori pressori e quindi in una maggiore efficacia nella prevenzione degli eventi cardiovascolari.

Tra le varie nuove combinazioni fisse che sono ora disponibili nella pratica clinica quotidiana, le evidenze della letteratura scientifica indicano chiaramente come le associazioni ramipril/amlodipina e candesartan/amlodipina abbiano sicuramente le caratteristiche di efficacia e tollerabilità da farla considerare tra le migliori opzioni disponibili per il trattamento del paziente iperteso.

RIASSUNTO

La terapia di combinazione è necessaria in circa il 70% dei pazienti ipertesi per ottenere un adeguato controllo dei valori pressori. Inoltre, le combinazioni fisse hanno una documentata utilità clinica in quanto aumentano l’aderenza terapeutica. Le combinazioni più efficaci di farmaci antipertensivi sono quelle realizzate con farmaci che hanno un effetto complementare sui sistemi di regolazione dei valori pressori. In altre parole, è razionale associare farmaci che bloccano il sistema renina-angiotensina o il sistema nervoso simpatico con farmaci che attivano questi sistemi. Pertanto, per quanto riguarda l’efficacia antipertensiva, sia l’associazione fissa ACE-inibitore/calcio-antagonista che l’associazione fissa AT1-antagonista/calcio-antagonista sono razionali in quanto hanno un effetto additivo sulla riduzione di pressione arteriosa e migliorano la tollerabilità delle singole molecole. Tuttavia, la scelta di una terapia di combinazione non deve essere limitata solo a valutare l’efficacia sui livelli di pressione arteriosa, bensì un target più importante è senz’altro la capacità di ridurre gli eventi cardiovascolari. Per quanto riguarda i calcio-antagonisti, sicuramente la molecola con la miglior evidenza di efficacia clinica in studi clinici controllati è l’amlodipina (studi VALUE, CAMELOT, PREVENT, CAPARES, ASCOT e ACCOMPLISH). Anche per quanto riguarda gli ACE-inibitori l’utilizzo del ramipril è supportato da una serie importante di studi clinici (HOPE, micro-HOPE e AIRE). In accordo con la loro efficacia, entrambe le molecole sono le più utilizzate nella pratica clinica quotidiana. È invece necessario sottolineare che, tra gli AT1-antagonisti, la miglior letteratura scientifica è senz’altro a supporto dell’efficacia del candesartan (studi SCOPE, TROPHY, AMAZE, CALM e DIRECT) che quindi dovrebbe essere la molecola di riferimento nell’utilizzo clinico. Pertanto, è evidente come le combinazioni di ramipril/amlodipina e di candesartan/amlodipina rappresentino un’opportunità terapeutica di prima importanza in quanto uniscono l’ACE-inibitore, l’AT1-antagonista e il calcio-antagonista con la migliore documentazione di efficacia in studi clinici controllati.

In conclusione, il supporto della letteratura scientifica indica infatti come l’utilizzo razionale di queste combinazioni possa rappresentare sicuramente una scelta ottimale per la terapia dell’ipertensione arteriosa secondo i migliori criteri dell’appropriatezza terapeutica.

Parole chiave. ACE-inibitori; Amlodipina; AT1-antagonisti; Calcio-antagonisti; Candesartan; Ipertensione essenziale; Ramipril; Rischio cardiovascolare.

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