L’ospedale di domani:
tra umanizzazione e contenimento della spesa. 
Il caso delle malattie cardiovascolari
Alessandro Boccanelli
Dipartimento dell’Apparato Cardiocircolatorio, Complesso Ospedaliero San Giovanni-Addolorata, Roma


L’ottima analisi di Nicolosi in questo numero del Giornale offre lo spunto per aprire un dibattito sul tema della Cardiologia che vogliamo nell’ospedale del futuro. Certamente dovremo essere propositivi, come sempre è stata la Cardiologia nell’organizzazione dell’assistenza, con modelli vincenti, ma che necessitano di essere ammodernati e ripensati. Probabilmente la flessibilità organizzativa del Dipartimento Cardiovascolare illustrata da Nicolosi contiene in sé tutte le possibilità di adattamento del concetto di garantire al paziente la continuità dell’assistenza.
Provo a riassumere di seguito i termini del possibile dibattito.
RAZIONALE PER UN DIBATTITO
Ogni sistema sanitario deve organizzarsi in modo da garantire al cittadino cure efficaci, equità e facilità di accesso, sicurezza nell’erogazione delle cure, umanità e supporto organizzativo al malato, con adeguata connessione tra aspetto sanitario e sociale. Questo deve essere ottenuto con un’organizzazione economicamente sostenibile.
L’assistenza ospedaliera, per l’elevato rapporto numerico necessario tra personale di assistenza e persone assistite e per l’impiego di tecnologie e trattamenti sempre più costosi, necessita di una programmazione rigorosa ed efficiente, tale comunque da non interferire negativamente con gli aspetti elencati sopra, che definiscono la qualità delle cure.
Poiché il costo maggiore degli ospedali è costituito dal personale, si è alla ricerca di soluzioni organizzative che mettano insieme situazioni cliniche affini per poter impiegare in modo flessibile il personale stesso, con conseguente risparmio di risorse che si ottiene nell’evitare duplicazioni di strutture che si somigliano. Questo comporta una reingegnerizzazione della struttura ospedaliera che risponda a criteri di “affinità” di problemi per poter accorpare per quanto è possibile situazioni cliniche che in qualche modo si somiglino e che condividano alcune tecnologie di cui il personale di assistenza diviene esperto e intercambiabile, indipendentemente dal tipo di organo o apparato interessato dalla malattia.
È su questo concetto di “affinità” che si gioca l’organizzazione futura dell’ospedale. L’affinità può essere per:
grado di intensità delle cure necessarie (affinità tecnologico-strumentale),
affinità per malattia di organo o apparato (affinità clinica),
affinità clinica e tecnologico-strumentale (forme di sintesi).
Il modello tecnologico-strumentale sembra essere il più “moderno”: si individua un’area di cura intensiva per l’acuto (indipendentemente dal tipo di acuzie), un’area medica e un’area chirurgica e un’area riabilitativa. A questo si affianca una seria di attività “deospedalizzanti” come i day hospital, i day surgery, i day service e gli ambulatori.
Dal punto di vista architettonico, questo è perfetto, si presta alla realizzazione di blocchi e percorsi e questo, dal punto di vista di chi programma, è attraente, anche perché si intravede la possibilità di più efficiente utilizzazione del personale e delle macchine. Qual è il limite principale di un modello di questo genere?
L’interesse del cittadino malato. Esemplifichiamo. Il cittadino viene colto da un infarto, va al Pronto Soccorso e viene ricoverato in area intensiva, gestita da una figura ancora in fieri, “l’intensivista”, generalmente di estrazione anestesiologico-rianimatoria. Dalla stessa figura verrebbe assistito qualora il cittadino avesse un coma diabetico o un ictus, con ricorso allo specialista cardiologo o internista o neurologo, in qualità di “consulente” e non di “gestore”.
Sopravvissuto alla fase acuta dell’infarto, il paziente viene inviato in “area medica”: letti comuni all’interno di un’area che condivide il personale infermieristico, non targati per specialità e di nuovo appare il cardiologo come “consulente”.
Se si decide che il paziente debba andare in riabilitazione, questa sarà un’area riabilitativa generale, coordinata da un fisiatra, che di nuovo avrà il suo “consulente” cardiologo. Qualora il paziente abbia avuto necessità di praticare una coronarografia, questa sarà stata praticata in un settore di diagnostica per immagini di cui fa parte anche l’imaging coronarico.
Nel percorso di questo paziente abbiamo realizzato alcuni risparmi: i sistemi di monitoraggio nella fase acuta sono in parte comuni con altri problemi, gli infermieri sono condivisi con altre specialità, i tecnici di radiologia sono intercambiabili e non dedicati alla sola coronarografia. Riteniamo che il cittadino paziente, in un sistema così organizzato, sia curato in modo efficace e umano?
1) Non viene valutata tanto la sua malattia, quanto la fase della sua malattia per deciderne la collocazione.
2) I gestori della sua malattia sono abituati a pensare a risolvere la parte di malattia di loro competenza, indipendentemente dal prima e dal dopo, rassicurati, per la loro fetta di gestione, da un consulente.
3) Anche qualora si identifichi un tutor del paziente, è praticamente impossibile che questa figura riesca a garantire la continuità dell’assistenza in un sistema polispecialistico e frazionato in origine non sulla base della competenza di disciplina ma sul livello di acuzie della malattia.
Il sistema pertanto non ruota intorno al problema del cittadino per risolverglielo, ma è il cittadino che ruota intorno ad un sistema il cui centro vuole essere l’efficienza.
Esaminiamo invece il percorso per affinità clinica, che è quello più tradizionale, che rispetta la specialità di organo e apparato. È il sistema che prevede un percorso del paziente all’interno della disciplina che cura la sua malattia, fornendo soluzioni differenziate secondo la fase della malattia, ma gestite dallo specialista che sa disegnare il percorso del paziente. Proviamo a fare l’esempio dell’infartuato.
Il paziente entra in unità coronarica, viene assistito da cardiologi e infermieri specializzati in questo tipo di attività, esegue una coronarografia ed eventualmente un’angioplastica in una sala contigua all’unità coronarica. Risolta la fase acuta, viene spostato nella terapia subintensiva cardiologica, dove viene aggiustata la terapia e seguita questa fase ancora delicata, si formula un programma di cura e prevenzione cardiovascolare alla dimissione, che viene seguito in riabilitazione cardiovascolare e poi in raccordo con l’organizzazione del territorio. Questo tipo di organizzazione è attuabile all’interno dello stesso ospedale o in una rete integrata di servizi interospedaliera, che configura comunque un’organizzazione in Dipartimento d’organo (intramurale, intra-extramurale, misto universitario-ospedaliero, ecc.).
L’organizzazione dipartimentale si adatta a tutte le esigenze di ordine geografico-amministrativo, purché sia fatta salva la gradualità e continuità delle cure all’interno della disciplina. Questo sistema è sicuramente favorevole al cittadino, ma può essere a rischio di inefficienza. L’inefficienza può nascere dalla “proprietarizzazione” tradizionale dei posti letto, dalla “dedizione” specialistica del personale infermieristico, dalla duplicazione di tecnologie utilizzabili in settori diversi (respiratori, angiografi, strumenti di monitoraggio, laboratorio). La passata rigidità di questo sistema portava alla strutturazione dei “padiglioni” (cardiologico, urologico, neurologico, e così via) con tipologie di ospedali ormai non più proponibili.
Ecco di nuovo che l’architettura si adatta ad una concezione della cura e che nuovi concetti di cura creano nuove architetture. Il rischio è che si creino delle architetture “ideologiche”, all’interno delle quali è poi difficile ritrovare l’aspetto di umanizzazione, ma soprattutto di efficacia in termini di risultato delle cure.
Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nel mondo occidentale, ma sono anche quelle in cui l’intervento medico ha dato le maggiori soddisfazioni in termini di aumento dell’attesa di vita e riduzione di morbilità e mortalità. Questo risultato è dovuto in parte alla prevenzione e in parte alle cure migliori erogate all’interno della Cardiologia. La Medicina cambia, evolve la tecnologia, evolve l’approccio (spesso troppo poco clinico) al malato. Io credo che siano possibili dei correttivi in senso di maggiore efficienza senza mettere a rischio i risultati ottimi fin qui raggiunti. Dobbiamo ipotizzare un modello di cura che coniughi la clinica (intesa come comprensione e gestione unitaria del malato e del suo problema) la tecnologia, il risparmio di risorse con migliore utilizzazione degli uomini e delle macchine.
Le soluzioni sono possibili e sono a portata di mano, per esempio collocando in aree limitrofe attività affini (si pensi alla rianimazione e unità coronarica, alla diagnostica cardiologica generale con quella cardiovascolare, alla cardiologia riabilitativa accanto alla fisiatria), senza che per questo si snaturi la continuità legata alla competenza specialistica, che rischia di venire mortificata da concezioni ideologiche. Sono da temere le teorie non verificate e applicate perché attraenti. Ogni sperimentazione gestionale deve considerarsi tale.
Il tema è di tale enorme importanza che giustifica un ampio dibattito fra tutti gli attori che ruotano intorno al problema dell’organizzazione sanitaria.