In questo numero





processo ai grandi trial

EMPHASIS-HF: bloccare l’aldosterone
fa bene, anche nello scompenso lieve
La terapia dello scompenso cardiaco si basa
in larga parte sull’inibizione di “massimi sistemi”, primo tra tutti il sistema renina-angiotensina-aldosterone. Da tempo abbiamo archiviato, in modo fastoso, il caso degli ACE-inibitori, dei sartani e anche dei betabloccanti, il cui impiego è ormai indiscutibile dalla disfunzione ventricolare sinistra asintomatica fino alla IV classe NYHA. Per quanto riguarda i bloccanti recettoriali dell’aldosterone, il RALES e l’EPHESUS ne avevano dimostrato l’utilità nelle fasi più conclamate dell’insufficienza cardiaca, ma restava aperto il quesito riguardo al loro impiego nello scompenso più lieve. Oggi, come afferma
Alessandro Boccanelli nella sua “arringa”, questa classe di farmaci completa il suo cursus honorum. Nello studio oggetto del Processo, l’EMPHASIS-HF, si dimostra infatti una significativa riduzione del rischio di morte e di ospedalizzazione, in oltre 2000 pazienti con disfunzione ventricolare sinistra oligosintomatica trattati con eplerenone versus placebo. L’efficacia del trattamento è stata tale da portare ad una interruzione anticipata del trial, come già accaduto per il RALES. Tuttavia, tale risultato non era affatto scontato, per almeno due motivi: il primo era l’oggettiva difficoltà di dimostrare un beneficio aggiuntivo sulla terapia standard ottimizzata, in una popolazione del genere; e il secondo riguardava i rischi potenziali di un’iperkaliemia iatrogena. A fronte dei convincenti argomenti pro-inibizione precoce dell’aldosterone nello scompensato, propugnata da Boccanelli, scrivere “contro” non è semplice – sono le parole del nostro secondo esperto, Piergiuseppe Agostoni. Tuttavia, nessun trial è perfetto. E anche per l’EMPHASIS-HF, come puntualmente ci viene ricordato, esistono limitazioni e aspetti discutibili. La giuria si ritira. •





rassegne

Prognosi del cardiopatico anemico:
una pallida prospettiva
Vari gradi di anemia sono di frequente riscontro nel cardiopatico e si associano ad una prognosi gravosa indipendentemente dalla cardiopatia di base. In molti pazienti, i valori di emoglobina sono cronicamente ridotti e riflettono un maggior grado di compromissione tout-court. In questi casi, l’aumento del rischio sembra legato, più che all’anemia, al corollario che invariabilmente l’accompagna: età avanzata, basso peso corporeo, ridotta funzione renale, comorbilità. In una minoranza – è il caso di pazienti con sindromi coronariche acute, ma anche di quelli in trattamento cronico con warfarin e antiaggreganti – l’anemia si sviluppa come diretta complicanza delle strategie terapeutiche impiegate. La complessità dei fattori coinvolti in questa relazione pericolosa tra anemia e severità della cardiopatia, si estrinseca in un nodo gordiano, in un indissolubile rapporto uovo-gallina. A prova di ciò, il trattamento dell’anemia nel cardiopatico ha mostrato finora un impatto prognostico controverso o nullo (vedi fattori stimolanti l’eritropoiesi) se non addirittura negativo (vedi terapia trasfusionale). Una sfida per il futuro è quella di identificare i pazienti in cui l’anemia rappresenta un indicatore di prognosi veramente indipendente – non un epifenomeno – e che possono beneficiare di una tempestiva correzione dei valori di emoglobina durante il ricovero ospedaliero e nel lungo termine. L’altra sfida è quella di capire quali sono i farmaci e le strategie migliori per ottenere una normalizzazione dell’emoglobina. Sono in corso studi che affrontano in modo specifico questi snodi decisionali e dai quali speriamo di avere nuove risposte. Nel frattempo, in questo mini-focus dedicato all’anemia, condividiamo le conoscenze e i dubbi che ci vengono presentati in due rassegne esaurienti e stimolanti: quella di Giovanna Santilli et al., dedicata ai pazienti con scompenso cardiaco, e quella di Maddalena Lettino e Vincenzo Toschi, dedicata alle sindromi coronariche acute. •





Pochi, benedetti e subito: i criteri di minima per la valutazione ecocardiografica
della funzione ventricolare sinistra
Le cose dovrebbero essere rese più semplici possibile, diceva Einstein, ma nemmeno un po’ più semplici. Qual è il livello accettabile di semplificazione nella diagnostica strumentale cardiologica? In campo ecocardiografico, sono stati scritti volumi, e si potrebbe dire che è stato versato sangue, sul problema dell’appropriatezza e degli standard di refertazione. Di fatto, però, l’impressione è quella di essere intrappolati in un universo dicotomico, dove da una parte ci sono gli enti regolatori, leibnitziani e giustamente vincolati dai più alti standard scientifici e di qualità;
e dall’altro ci sono gli operatori della sonda, coloro che fanno i conti col mondo reale, con il poco tempo e i molti pazienti che aspettano fuori dall’ambulatorio, con le norme spesso draconiane che dettano la tempistica e la remunerazione degli esami ecocardiografici. Come possiamo conciliare i due mondi, particolarmente per quel che riguarda una condizione cronica impegnativa come lo scompenso cardiaco? In questo numero
Cesare de Gregorio e Antonio Vittorio Panno provano a dare una risposta, a nome del Gruppo di Studio Nazionale di Ecocardiografia dell’ANCE. E lo fanno in modo molto pragmatico, partendo da considerazioni sulla periodicità appropriata per i controlli, fino ad arrivare a una proposta operativa che separi i parametri strumentali realmente utili per la gestione clinica dello scompensato, da quelli utili per una caratterizzazione più fine, ma improponibili nel mondo reale perché privi di valore clinico aggiuntivo o eccessivamente time-consuming. Si tratta di un testo che ha il pregio della concretezza e che, se farà storcere il naso a qualche purista, raccoglierà verosimilmente il consenso di molti cardiologi impegnati sul territorio. È lecito, e auspicabile, aspettarsi un dibattito a seguire: Einstein lo chiede. •





I FANS aumentano il rischio di ictus
nell’anziano?
Il mondo occidentale invecchia, e in mezzo ai pochi, fortunati Dorian Gray, aumentano coloro che collezionano patologie degenerative legate all’età. Le patologie muscolo-scheletriche rappresentano gli “acciacchi” per antonomasia, e non è una sorpresa che uso (o l’abuso) abituale di antinfiammatori sia per molti anziani più una necessità che una mania. Non molti anni fa,
la ben nota vicenda che ha portato al ritiro dal commercio del rofecoxib ha aperto gli occhi della comunità cardiologica (e dei civilisti americani) sui potenziali rischi cardiovascolari associati all’uso cronico dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS).
In realtà, tale associazione è a tutt’oggi assai controversa, basata su studi eterogenei per tipologia di pazienti considerati, tipo di farmaco, endpoint e, soprattutto, risultati. Inoltre, non sembra esserci una relazione tra grado di COX-2-selettività delle molecole e rischio cardiovascolare, compreso quello per ictus. Se si aggiunge che gli studi finora disponibili hanno raramente preso in considerazione pazienti di età >75 anni, e cioè il gruppo con il maggior consumo di FANS ... si deve concludere che la risposta alla domanda è “nì”. Nella loro rassegna,
Arduino Mangoni e Kathleen Knights affrontano la questione in tutta la sua complessità e individuano le aree di potenziale sviluppo della ricerca. In attesa di ulteriori evidenze, il consiglio degli autori, attuale ma con un cuore antico, è di usare i FANS nell’anziano solo se veramente necessario, e con la massima moderazione. •





informal
mente
Le mille vite della manovra di Valsalva.
È un bel saggio di medicina “intelligente”, questo excursus di Mario Pacileo et al. sulla manovra introdotta da Valsalva nella pratica medica nel sedicesimo secolo, oggi universalmente nota, i cui impieghi spaziano dalla pratica subacquea alla cardiologia. Dopo una doverosa contestualizzazione storica,
gli autori rivisitano in modo sintetico ma esaustivo le informazioni ottenibili da una semplice espirazione a glottide chiusa, sia attraverso lo stetoscopio che all’ecocardiogramma. Probabilmente una piacevole scoperta per i più giovani. •






studi osservazionali

STEMI nella rete: i risultati della
rilevazione IMA WEB
Video meliora, proboque ... diceva Ovidio.
Vi è ormai universale consenso che l’angioplastica primaria rappresenti il trattamento migliore per l’infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), e la cardiologia italiana ha avuto un ruolo di primo piano nella conquista di questa certezza. Resta tuttavia ancora molto da fare per garantire un accesso tempestivo alle cure, uniformare le strategie riperfusive ed ottimizzare i risultati clinici sul territorio nazionale. Il concetto di rete per lo STEMI nasce proprio dalla necessità di superare difficoltà logistiche e diversità di comportamento nei momenti che contano. La Federazione Italiana di Cardiologia, assieme alle altre società coinvolte nella gestione acuta dell’infarto (prima fra tutte il GISE), ha attivamente promosso molte iniziative in questa direzione. Possiamo dichiararci soddisfatti? Purtroppo non ancora. Come ci mostrano
Antonio Marzocchi et al., lo stato di attuazione della RETE IMA, tratteggiato da un recente rilevamento web, evidenzia un’organizzazione geograficamente disomogenea e globalmente non soddisfacente rispetto agli obiettivi. Pur essendo l’angioplastica il metodo più utilizzato a livello nazionale, l’Italia ha in Europa una posizione da mezza classifica per quanto riguarda il numero di procedure per milione di abitanti, e in solo il 35% delle provincie è attiva una rete operativa per l’infarto: un quadro inaccettabile per un paese da sempre all’avanguardia nel campo della cardiopatia ischemica. Fortunatamente, la situazione è in dinamico divenire, il dibattito è acceso e, come ci illustrano gli autori, le possibili soluzioni non mancano. •





Un modello gestionale per il dolore
toracico in Pronto Soccorso
Gli algoritmi decisionali non possono sostituire l’acume clinico, l’esperienza e l’accuratezza del medico: tuttavia, rappresentano uno strumento prezioso per ottimizzare i tempi e, soprattutto, limitare il margine di errore, in un contesto caratterizzato da un sovraffollamento cronico, un contatto solo occasionale col paziente e una elevata conflittualità medico-legale. Di fatto, la fiorente letteratura sul dolore toracico in Pronto Soccorso ha contribuito in modo determinante a garantire una integrazione intelligente e costo-efficace delle opzioni diagnostiche (score di rischio, ECG, troponine, ergometria e test di imaging), nonché ad uniformare la qualità degli interventi tra i diversi centri. Un testo di assoluto riferimento sulla gestione del dolore toracico in Italia è rappresentato dal documento di consenso ANMCO-SIMEU, pubblicato su questo Giornale nel 2009. Tuttavia, documenti come questo, per quanto autorevoli, necessitano di una validazione sul campo nel duro “mondo reale” dei dipartimenti di emergenza-urgenza. Particolarmente opportuno ci sembra quindi il lavoro di Nicola Avigni et al., presentato in questo numero. Gli autori hanno fatto loro le indicazioni ANMCO-SIMEU, adattandole alla specifica realtà ospedaliera della provincia di Ferrara e ne riportano in modo critico l’accuratezza e la fattibilità, con ottimi risultati, senza nasconderne i problemi concreti: uno per tutti la imperfetta riproducibilità dei questionari per il chest pain score in Pronto Soccorso. •





controversie
in medicina cardiovascolare

Eventi avversi dei defibrillatori
impiantabili: un “costo clinico”
troppo alto per la profilassi primaria
della morte improvvisa?
Sono passati oltre dieci anni dall’introduzione clinica su larga scala del defibrillatore impiantabile (ICD) in prevenzione primaria.
In questo periodo, sono state raccolte ampie evidenze che ne dimostrano l’efficacia nel prevenire la morte cardiaca improvvisa.
Allo stesso tempo, è ormai chiaro che anche i dispositivi più avanzati non sono scevri da complicanze cliniche ed eventi avversi spesso gravi, con effetto cumulativo nel tempo.
Se da una parte nuovi studi propongono l’opportunità di estendere l’indicazione a categorie di pazienti sempre meno “gravi”, per permettere a molti di beneficiare dei vantaggi dell’ICD, dall’altra sorgono inquietanti quesiti riguardo ai rischi di effetti avversi inaccettabili, accanimento terapeutico, compromissione della qualità della vita e sostenibilità economica. Il paziente viene spesso informato in modo sbilanciato sui benefici e sugli svantaggi del defibrillatore
(a favore dei primi), senza un’adeguata considerazione per i rischi a cui viene esposto. E tale scotomizzazione riflette in genere una visione incompleta del problema proprio da parte del medico. Abbiamo pertanto voluto confrontare due autorevoli opinioni sul reale impatto clinico degli eventi avversi legati al defibrillatore, e sul peso che questo aspetto deve rivestire al momento di condividere una decisione con il paziente. Con vivacità, intelligenza e grande esperienza “vissuta”,
Marcello Disertori, Pietro Francia e Riccardo Cappato danno vita e sapore ad una controversia estremamente attuale, sulla base di interrogativi che appartengono oggi al cardiologo clinico quanto e più che all’elettrofisiologo in senso stretto.





casi clinici

Chi la cura la vince:
quando la cardiomiopatia è reversibile
Chiudono il numero due pregevoli studi, che hanno in comune il contenuto clinico estremamente pratico, la discussione di meccanismi fisiopatologici ancora poco conosciuti, ed un lieto fine della patologia cardiologica in questione. Nel primo, di Enrico Rita et al., vengono descritti due pazienti con disfunzione ventricolare sinistra indotta da una frequentissima extrasistolia ventricolare monomorfa originante dal tratto di efflusso del ventricolo destro: un’aritmia ritenuta generalmente benigna, ma che talvolta può determinare una vera e propria cardiomiopatia. Quest’ultima, come illustrato dai casi presentati, è fortunatamente reversibile dopo l’abolizione dell’aritmia mediante ablazione transcatetere del focus extrasistolico. Il secondo lavoro, di Ferdinando Maria Massari et al., descrive una sindrome tako-tsubo del tutto tipica in un paziente del tutto atipico: giovane, uomo, ed affetto da una forma di sclerosi laterale amiotrofica rapidamente progressiva, che sviluppa il classico ballooning apicale in corso di insufficienza respiratoria acuta. Il caso ci ricorda l’importanza di arrivare precocemente ad una diagnosi in quanto la restituito ad integrum è la regola, a condizione di fornire un’adeguata terapia di supporto durante la fase acuta della cardiomiopatia. •