Frequenza cardiaca e rischio cardiovascolare
La frequenza cardiaca è la risultante della modulazione esercitata dal sistema nervoso autonomo sull’attività intrinseca del pacemaker sinusale. Variazioni di frequenza cardiaca, mediate generalmente dall’azione reciproca di vago e simpatico, rappresentano la risposta finale di una serie di circuiti nervosi volti a garantire la stabilità e/o gli adattamenti dei sistemi circolatorio e cardiorespiratorio. Un incremento dell’attività simpatica non adeguatamente controbilanciato dall’attività vagale sottende la presenza di tachicardia a riposo e influenza negativamente aspetti metabolici, emodinamici ed elettrofisiologici della funzione cardiaca favorendo lo sviluppo di ipertensione arteriosa e lesioni aterosclerotiche e contribuendo all’insorgenza di eventi cardiovascolari.
Evidenze epidemiologiche, nella popolazione generale, dimostrano un aumento del rischio di morte totale e coronarica in relazione all’aumentare della frequenza cardiaca a riposo, indipendentemente dai tradizionali fattori di rischio coronarico, inclusa l’ipertensione arteriosa. Il ruolo negativo della tachicardia in pazienti cardiopatici trova una conferma incontrovertibile nella relazione lineare tra guadagno in termini di sopravvivenza e riduzione di frequenza cardiaca offerta dall’insieme degli studi sui betabloccanti.
La mancanza di valori normali di riferimento definiti dopo correzione per il valore individuale di frequenza cardiaca intrinseca limita l’uso della semplice determinazione del valore di frequenza cardiaca a riposo come indicatore di rischio in soggetti in assenza di cardiopatia nota. Sebbene alcuni studi suggeriscano un valore incrementale della variabilità della frequenza cardiaca come predittore di rischio mancano evidenze definitive.