Rivascolarizzazione coronarica: quale, a chi, come e quando?
Negli ultimi decenni le sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST hanno vissuto un progressivo miglioramento della prognosi dovuto ad una chiara comprensione della loro fisiopatologia e alla conseguente, netta evoluzione del trattamento assistenziale e della terapia farmacologica. Di pari passo anche l’approccio invasivo è cambiato, passando lentamente da un atteggiamento fatalistico, fortemente conservativo ad una timida strategia invasiva ritardata. Solo da poco la disponibilità di trattamenti antitrombotici molto efficaci e la notevole evoluzione tecnica delle procedure di rivascolarizzazione ha aperto la strada ad un efficace approccio invasivo precoce. Infatti, sfruttando al meglio questi miglioramenti, diversi studi randomizzati hanno dimostrato che la rivascolarizzazione precoce (entro 48 ore dall’esordio dei sintomi) riduce gli eventi a breve e lungo termine nei pazienti con sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST a rischio medio-alto. Purtroppo nel mondo reale questa strategia è raramente un’opzione, mentre sono più spesso le risorse, e non il rischio, che condizionano la scelta terapeutica. Per evitare questi paradossi è necessario che le diverse cardiologie italiane adottino modelli organizzativi in rete tali da consentire il rapido accesso alla rivascolarizzazione a tutti i pazienti con un profilo di rischio medio-alto, anche quando vengono ricoverati in un ospedale periferico. In questo modo si possono evitare le note disparità di trattamento ed interrompere il circolo vizioso che tende a privilegiare i pazienti a basso rischio rispetto a quelli ad alto rischio, come gli anziani, le donne ed i diabetici.