Inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina in pazienti con preservata funzione ventricolare: dall'EUROPA al PREAMI
Gli studi clinici con inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) hanno seguito un preciso trend: i primi arruolano pazienti con severa compromissione ventricolare e gli ACE-inibitori sono somministrati dopo parecchi mesi dall’evento acuto, i successivi utilizzano gli ACE-inibitori dopo 2 settimane e/o 24 ore dall’evento acuto in pazienti selezionati con disfunzione ventricolare o non selezionati affatto. Il trend quindi è quello di anticipare quanto più possibile l’inizio della terapia e di allargare la quota di pazienti da trattare. Recentemente questo trend è superato da una serie di studi in cui gli ACE-inibitori, sulla base di incoraggianti ed inaspettati dati dei precedenti trial, sono utilizzati non più per trattare lo scompenso cardiaco o per ridurne la progressione dopo l’infarto miocardico, bensì per prevenirlo. Tra questi, lo studio EUROPA è quello che ha maggiormente esteso le nostre conoscenze relativamente all’utilizzo degli ACE-inibitori nella cardiopatia ischemica. Dimostra infatti che il perindopril (8 mg/die per 4 anni) apporta benefici clinici consistenti in tutti i pazienti coronaropatici indipendentemente dall’entità del rischio. Si allarga così la fascia dei pazienti che possono beneficiare dell’uso degli ACE-inibitori, coinvolgendo l’universo dei coronaropatici. Rimane però una zona ancora oscura: quella dei pazienti sopravvissuti ad un infarto, con preservata frazione di eiezione ma con età > 65 anni. Questa popolazione è stata oggetto di studio nel PREAMI, un trial recentemente concluso che dimostra come il perindopril (8 mg/die per 1 anno) riduca significativamente l’endpoint principale costituito da morte, ospedalizzazione per scompenso miocardico e rimodellamento ventricolare. L’effetto del perindopril è prevalentemente di prevenzione del rimodellamento, in quanto la mortalità non è modificata da 1 anno di trattamento, in accordo con i dati dell’EUROPA che indicano come in pazienti non scompensati, siano necessari almeno 2 anni di trattamento per incidere significativamente sulla mortalità.