Documento ANMCO/GICR-IACPR/GISE
L’organizzazione dell’assistenza nella fase post-acuta
delle sindromi coronariche
Commissione ANMCO/GICR-IACPR/GISE
Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO)
Società Italiana di Cardiologia Riabilitativa e Preventiva (GICR-IACPR)
Società Italiana di Cardiologia Invasiva (GISE)

Cesare Greco, Francesco M. Bovenzi, Sergio Berti, Maurizio Abrignani, Francesco Bedogni,
Roberto Ceravolo, Furio Colivicchi, Leonardo De Luca, Pompilio Faggiano, Francesco Fattirolli,
Giuseppe Favretto, Pantaleo Giannuzzi, Gian Francesco Mureddu, Giuseppe Musumeci, Zoran Olivari,
Carmine Riccio, Roberta Rossini, Pier Luigi Temporelli

con l’endorsement di:
ARCA (Associazioni Regionali Cardiologi Ambulatoriali)
ANCE (Cardiologia Italiana del Territorio)
SIMG (Società Italiana di Medicina Generale)
realizzato con il contributo scientifico di:
Fulvia Seccareccia e Stefano Rosato
Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Post-discharge management of patients with acute coronary syndrome (ACS) requires a comprehensive outpatient network and specific competence regarding risk factor control, optimal pharmacological therapy and adequate follow-up strategies. This combination should allow a significant outcome improvement with reduced rates of fatal and nonfatal events and hospital readmissions.
On October 25-26, 2013, a consensus conference on clinical management after ACS was held in Naples, Italy, under the auspices of two Italian scientific societies, the Italian Association for Cardiac Prevention and Rehabilitation (GICR-IACPR) and the Italian Association of Hospital Cardiologists (ANMCO).
The present document constitutes a joint proposal for the management and follow-up of patients discharged alive after ACS. The paper is divided into four sections: in Section 1 on “Epidemiology and prognostic stratification”, the clinical and instrumental variables for the identification of patients at higher risk of adverse events (death, heart failure or reinfarction) in the months following an ACS are described on the basis of currently available data; in Section 2 on “Post-discharge care management”, different pathways for follow-up and treatment are proposed, according to the baseline clinical presentation: a cardiac rehabilitation inpatient program is suggested for high-risk patients, an intensive secondary prevention outpatient program for those at high thrombotic risk, and a clinical follow-up for low-risk profile patients. Sections 3 and 4 on “Drug therapy targets” and “Strategies to improve adherence and promote lifestyle changes” emphasize the need for structured programs of pharmacological implementation and long-term maintenance of recommended therapy and healthy lifestyle.
Key words. Acute coronary syndrome; Cardiac rehabilitation; Post-discharge care; Secondary prevention.


1. Epidemiologia e stratificazione prognostica 4S
1.1 Il paziente ad alto rischio clinico: scompenso cardiaco e/o disfunzione ventricolare sinistra 5S
1.2 Il paziente a rischio trombotico elevato 6S
2. I percorsi assistenziali 7S
2.1 Percorso assistenziale dei pazienti a rischio clinico elevato
per scompenso cardiaco e/o disfunzione ventricolare sinistra 9S
2.2 Percorso assistenziale dei pazienti ad elevato rischio
trombotico 9S
2.3 Percorso assistenziale dei pazienti a rischio più basso 10S
3. Obiettivi della terapia farmacologica dopo sindrome
coronarica acuta 10S
3.1 Il controllo della frequenza cardiaca 10S
3.2 La prevenzione del rimodellamento ventricolare sinistro 11S
3.2.1 Inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone 11S
3.2.1.1 ACE-inibitori: evidenza dell’efficacia
(riduzione della mortalità e degli endpoint
primari) nel post-infarto 11S
3.2.1.2 ACE-inibitori: effetti sulla prevenzione del rimodellamento post-infartuale 12S
3.2.1.3 Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II:
evidenza dell’efficacia (riduzione della
mortalità e degli endpoint primari)
nel post-infarto 12S
3.2.1.4 Antialdosteronici: evidenza dell’efficacia
(riduzione della mortalità e degli endpoint
primari) nel post-infarto 12S
3.2.2 Le indicazioni delle linee guida 12S
3.2.3 Tempi di somministrazione 12S
3.2.4 Dosaggi raccomandati 12S
3.2.5 Target pressori 13S
3.3 Trattamento antischemico 13S
3.3.1 Nitrati 13S
3.3.2 Ranolazina 13S
3.4 Antiaggregazione piastrinica 14S
3.5 Stabilizzazione della placca/controllo dell’assetto lipidico 15S
3.5.1 I target metabolici 15S
3.5.2 Acidi grassi polinsaturi 16S
4. Promozione dell’aderenza alla terapia farmacologica
e prevenzione secondaria non farmacologica 16S
4.1 Fumo 17S
4.2 Attività fisica 18S
4.3 Alimentazione 19S
4.4 Aderenza alla terapia 20S
Riassunto 21S
Bibliografia 22S
ABBREVIAZIONI
ACE enzima di conversione dell’angiotensina
AIFA Agenzia Italiana del Farmaco
ARB bloccanti recettoriali dell’angiotensina II
BNP peptide natriuretico cerebrale
CR Cardiologia Riabilitativa
EMA European Medicines Agency
FC frequenza cardiaca
FE frazione di eiezione ventricolare sinistra
IC intervallo di confidenza
IMA infarto miocardico acuto
NSTEMI infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento
del tratto ST
PA pressione arteriosa
PTCA angioplastica coronarica
SC scompenso cardiaco
SCA sindrome coronarica acuta
SDO scheda di dimissione ospedaliera
STEMI infarto miocardico acuto con sopraslivellamento
del tratto ST
1. EPIDEMIOLOGIA E STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA
Negli ultimi anni si sono verificate significative modificazioni dell’epidemiologia clinica dell’infarto miocardico, che hanno interessato sia la fase acuta che quella post-acuta. A fronte della progressiva riduzione della mortalità intraospedaliera, l’andamento della mortalità post-ospedaliera è risultato sorprendentemente stabile o addirittura in incremento in diversi studi europei e nordamericani. Un’analisi di tutti i casi di primo infarto miocardico acuto (IMA) ricoverati in Danimarca dal 1995 al 2006, ad esempio, ha documentato una progressiva riduzione delle mortalità a 30 giorni ed una sostanziale stabilità di quella intercorsa tra il 31° giorno ed il primo anno, fenomeno per cui le due curve di mortalità si sono incrociate proprio negli ultimi anni 1. Uno studio su di una popolazione del New Jersey ha documentato più analiticamente che nel periodo dal 1986 al 2007 la mortalità intraospedaliera si è andata riducendo costantemente, mentre quella dalla dimissione al primo mese e al primo anno andava invece progressivamente aumentando2.
Alcuni ricercatori, a partire dall’osservazione che nelle popolazioni studiate la mortalità intraospedaliera andava riducendosi mentre invece cresceva l’incidenza dello scompenso sia durante il ricovero che dopo la dimissione, hanno ipotizzato che i trattamenti più moderni nella fase acuta possano salvare pazienti prima destinati a prognosi negativa a breve termine per l’estensione della zona infartuale, finendo però così per incrementare la popolazione di sopravvissuti a rischio di scompenso cardiaco (SC) 3. Un’analisi sulla popolazione del Framingham Heart Study, basata su rigorosi criteri diagnostici per lo SC, ha apparentemente confermato questa tendenza4, mentre altri studi condotti con criteri diversi di definizione dello SC hanno dimostrato una tendenza alla riduzione nel tempo della sua incidenza nella fase post-infartuale5,6.
Non vi è dubbio però che, indipendentemente dal suo trend temporale, la comparsa dello SC rappresenti nel post-IMA il predittore più importante di mortalità a distanza; è documentato infatti che la stragrande maggioranza di pazienti che muoiono dopo la dimissione, e precisamente una percentuale compresa tra l’84% e il 92%, ha presentato segni di SC nel periodo intercorso tra l’esordio infartuale e il follow-up7. Il significato prognostico negativo a distanza dello SC è marcato sia quando esso si manifesta durante la degenza sia quando compare dopo la dimissione, in tutte le forme di presentazione delle sindromi coronariche acute (SCA) ed anche in casistiche raccolte in tempi molto recenti8, tanto da portare gli stessi autori dei maggiori trial ad invocare la necessità di modifiche migliorative del processo di cura in questo sottogruppo di pazienti9.
Elementi di ulteriore chiarimento su questi fenomeni epidemiologici possono essere portati da dati elaborati a partire dalle schede di dimissione ospedaliera (SDO) italiane dall’Istituto Superiore di Sanità nell’ambito del Progetto Mattoni. Va premesso che questa metodica porta a valutare unicamente la mortalità intraospedaliera nel ricovero indice o in ricoveri successivi (riospedalizzazioni fatali) ma non quella extraospedaliera. Un’indicazione sull’entità di quest’ultima proviene dalla letteratura recente e la vede pari all’1.2% a 30 giorni e al 3% ad 1 anno 10.
In Italia nel 2012 sono stati ricoverati negli ospedali 103 662 pazienti con IMA e 41 780 pazienti con diagnosi di angina instabile.
L’analisi dei dati da SDO, su di un campione di più di un milione di infarti miocardici, conferma l’andamento epidemiologico desumibile dalla letteratura citata: dal 2001 al 2011 infatti la mortalità intraospedaliera dell’IMA si è progressivamente ridotta dall’11.3% al 9.0% nell’intero gruppo degli infartuati, mentre nel contempo le nuove ospedalizzazioni fatali dalla dimissione a 60 giorni aumentavano dello 0.13% e quelle dalla dimissione ad 1 anno dello 0.53%. Questo andamento era più evidente nei pazienti che presentavano SC nel ricovero indice, nei quali la mortalità intraospedaliera si riduceva dal 26.5% al 23.2%, mentre le riospedalizzazioni fatali aumentavano dello 0.26% a 60 a giorni e dello 0.90% ad 1 anno, con una mortalità tra la dimissione ed il primo anno che nel 2011 era pari al 10%. L’incidenza dello SC durante il ricovero indice rimaneva inoltre sostanzialmente costante nel tempo (22.3% nel 2001 e 22.6% nel 2011).
Il Panel ritiene ragionevole ipotizzare che l’assenza di un miglioramento nel tempo della prognosi post-ospedaliera dell’IMA sia almeno in parte attribuibile all’inadeguatezza e alla scarsa applicazione di appropriati percorsi assistenziali cardiologici dopo la dimissione.

È interessante notare che, negli stessi dati italiani da SDO, tra i pazienti con IMA, di età <70 anni, senza SC durante il ricovero, trattati con angioplastica coronarica (PTCA) entro 48h dall’ingresso, la mortalità dalla dimissione ad 1 anno era inferiore all’1%, dato che testimonia l’esistenza di sottogruppi a prognosi fortemente differenziata, discriminabili in base a semplici caratteristiche cliniche.
I dati da SDO già citati consentono anche una valutazione del numero di procedure di rivascolarizzazione eseguite nel mondo reale. La percentuale di pazienti con IMA trattati con PTCA dal 2001 al 2011 è passata dal 16.8% al 51.5%, mentre la percentuale di trattati con PTCA entro 48h dal ricovero è aumentata nello stesso periodo dal 9.2% al 39.6%. Nei casi di angina instabile la percentuale di trattati con PTCA nel 2011 era del 41.7%. La percentuale di pazienti con IMA sottoposti a rivascolarizzazione chirurgica entro 60 giorni, sia pure in riduzione nel tempo, era nel 2011 pari al 5.1% (n=5241). Negli studi di outcome condotti nell’ambito del Progetto Mattoni sul bypass aortocoronarico in Italia, la percentuale di rivascolarizzazioni chirurgiche isolate eseguite entro 30 giorni da una SCA era del 24% 11 ed arrivava al 28% includendo i rivascolarizzati entro 90 giorni dall’esordio12. Si può quindi valutare che il gruppo dei rivascolarizzati chirurgicamente entro breve tempo da una SCA assommi ad almeno 7000 pazienti all’anno, dato che sottolinea come il loro particolare percorso di cure vada attentamente considerato anche nell’ambito di questo documento.
Negli stessi studi sull’importanza prognostica dello SC post-infartuale si riconosce che il secondo elemento più rilevante nel determinare la prognosi è rappresentato dalle recidive ischemiche13. Dal punto di vista epidemiologico l’incidenza del reinfarto ad 1 anno è valutabile tra il 6% e il 10% con la cautela derivante dalla scarsezza e dall’eterogeneità metodologica degli studi pubblicati. Il reinfarto spontaneo è gravato da un rischio di morte maggiore del primo IMA e nei sopravvissuti la mortalità a distanza è significativamente più alta che nei pazienti senza recidive infartuali, con un hazard ratio fino a 4.5. Poiché d’altra parte è ben nota l’esistenza di predittori clinici ed angiografici di reinfarto, il rischio trombotico va valutato attentamente in ogni paziente dopo una SCA 14-17.
In considerazione della rilevante differenziazione prognostica dei diversi sottogruppi di pazienti dopo un IMA e della possibilità di una stratificazione prognostica a partire dai parametri clinici a disposizione, i pazienti dimessi dopo una SCA dovrebbero essere indirizzati a percorsi assistenziali adeguati al livello di rischio individuale e quindi appropriati. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario stabilire una chiara gerarchia tra le variabili con valore prognostico riconosciuto dopo una SCA. È inoltre necessario, per un utilizzo ottimale delle informazioni disponibili, che una volta identificate le variabili con maggior peso prognostico queste siano registrate in una check-list pre-dimissione (Tabella 1), strumento già dimostratosi efficace per migliorare la performance delle strutture cardiologiche nel campo della prevenzione secondaria 18.




Il Panel, sulla base dei dati epidemiologici, ritiene che i fondamenti della stratificazione prognostica dopo una SCA siano rappresentati dall’identificazione della disfunzione ventricolare sinistra, dello SC e dei suoi predittori e, in secondo luogo, dalla valutazione del rischio di recidive ischemiche, altrimenti detto rischio trombotico.
1.1 Il paziente ad alto rischio clinico: scompenso cardiaco e/o disfunzione ventricolare sinistra
L’IMA, soprattutto se transmurale ed esteso ad una quota rilevante del muscolo cardiaco, può produrre gravi alterazioni della meccanica ventricolare sia nelle zone interessate dalla necrosi sia in quelle remote. Vi è estesa documentazione del forte significato prognostico della frazione di eiezione ventricolare sinistra (FE), a partire dagli studi di epoca trombolitica19 fino a quelli in epoca di riperfusione meccanica20. Nei registri più recenti la percentuale di pazienti con FE ridotta sotto il 40% è valutabile intorno al 20% degli infartuati21.
Il rimodellamento ventricolare post-infartuale può essere influenzato da diversi fattori indipendenti, tra i quali sicuramente: dimensioni dell’infarto, cicatrizzazione infartuale, stress di parete e profilo emodinamico, pervietà del vaso responsabile della necrosi, ischemia miocardica residua ed interventi terapeutici. Anche in epoca di PTCA primaria, pur in presenza di pervietà del vaso di necrosi documentata angiograficamente, il rimodellamento ventricolare si osserva a 6 mesi in circa il 30% dei pazienti, con impatto prognostico sfavorevole anche in pazienti rivascolarizzati efficacemente: a 5 anni la mortalità e l’incidenza di eventi maggiori è stata del 15% e 18% a fronte del 5% e 10% nei pazienti senza rimodellamento ventricolare (p=0.005 e p=0.025) 22.
Inoltre il rimodellamento ventricolare, oltre che nei pazienti con disfunzione sistolica e già dilatati nella fase precoce del post-IMA23,24, può verificarsi anche a carico di un ventricolo sinistro non particolarmente dilatato e con FE non particolarmente depressa se è presente un’estesa asinergia parietale (valutabile in termini di indice di cinesi parietale)”22,25,26.
La correlazione diretta tra rimodellamento e peggioramento della prognosi nei pazienti dopo IMA è nota da tempo. In particolare, i sottoprogetti ecocardiografici di importanti trial farmacologici, quali SAVE, GISSI-3, HEART e VALIANT24,26-28, hanno chiaramente dimostrato una diretta correlazione sfavorevole tra rimodellamento ventricolare e prognosi in pazienti con IMA, anche dopo trattamento riperfusivo efficace e terapia medica ottimale. Ciò induce da un lato a non disconoscere la possibilità di rimodellamento ventricolare anche nel paziente efficacemente trattato con PTCA e quindi a non ridurre l’intervento farmacologico mirato (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina [ACE]), e dall’altro a garantire nel follow-up una valutazione ecocardiografica seriata ai pazienti identificabili come a rischio di rimodellamento ventricolare. Esistono infatti altre variabili predittive di rimodellamento ventricolare: in particolare il riempimento diastolico restrittivo con tempo di decelerazione <130 ms in fase acuta di infarto identifica una popolazione candidata a sfavorevole rimodellamento a 6 mesi dall’episodio infartuale. Questi dati sono stati in seguito confermati dal sottoprogetto GISSI-3 Echo, che ha inoltre dimostrato come la reversibilità nel tempo di un profilo diastolico restrittivo si associ in genere a più contenuto rimodellamento ventricolare rispetto ai pazienti che mantengono nel tempo un profilo restrittivo, ed identifica pazienti con prognosi migliore nel follow-up a 4 anni29. Inoltre, un’altra condizione sfavorevole che impatta su rimodellamento, SC e mortalità è il grado di insufficienza mitralica30.

Il Panel ritiene che i pazienti con FE <40% ed i pazienti con FE tra 40% e 45% ma con associato un predittore di rimodellamento (uno tra insufficienza mitralica >1, riempimento diastolico restrittivo, alto score di asinergia e ventricolo non dilatato) rappresentino un sottogruppo a rischio elevato.

È ben nota l’importanza prognostica dello SC che si sviluppa durante l’ospedalizzazione per IMA. Nel registro NRMI-2 (periodo 1994-1998, età media 67 anni), il 19.1% dei pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) avevano SC durante il ricovero indice e questo si associava ad un odds ratio di 1.68 (intervallo di confidenza [IC] 95% 1.62-1.75) per mortalità intraospedaliera31.Dagli studi BLITZ-1 e 2 sappiamo che una classe Killip >1 in corso di IMA condiziona un aumento della mortalità a 30 giorni di 5 volte per STEMI e 4 volte per non-STEMI (NSTEMI)32. Studi recenti riportano che l’insorgenza di SC durante l’evento indice si associa ad un hazard ratio di 3.2 (IC 95% 2.7-3.7) per mortalità ad 1 anno. Indipendentemente dal tipo di presentazione elettrocardiografica, i pazienti che sviluppano SC durante il ricovero indice sono più anziani, più spesso di sesso femminile, con elevata incidenza di comorbilità e con degenza più lunga rispetto ai pazienti senza SC33.
Dati più recenti dimostrano come anche episodi di SC transitorio verificatisi durante la fase acuta abbiano un impatto sfavorevole in termini prognostici; in un’ampia popolazione di infartuati del Regno Unito il 60% dei pazienti che avevano avuto SC transitorio durante l’evento indice sviluppavano nuovamente SC nel follow-up13. È da sottolineare come nello studio citato lo SC fosse definito dall’uso durante la degenza di diuretici dell’ansa per segni di congestione polmonare o dispnea. Anche lo SC transitorio in pazienti con funzione sistolica alla dimissione non significativamente compromessa è emerso come predittore di morte improvvisa nel follow-up a 3 anni34. Questo insieme di dati sottolinea l’importanza di arrivare alla diagnosi di SC con un’attenta valutazione nella fase intraospedaliera di tutti gli elementi che possano portare a formularla. Il problema della sottostima della diagnosi di SC dopo una SCA è reale se si pensa che nel BLITZ-4 si è fatto uso di diuretici durante il ricovero nel 30% dei pazienti mentre la diagnosi di SC è stata formulata nel 10% dei pazienti35.
Anche lo SC che si sviluppa dopo IMA si associa ad una prognosi sfavorevole: in una coorte di 11 479 pazienti anziani ospedalizzati per IMA tra il 1994 e il 2000, a 5 anni il 71% aveva sviluppato SC, di cui il 64% entro il primo anno; la nuova insorgenza di SC aumentava notevolmente il rischio di mortalità (64.8 vs 30.2% nei pazienti senza SC, p<0.001)3. In epoca più recente e in una popolazione più giovane (età media 62 anni) l’incidenza di SC a 1 anno dalla dimissione era più contenuta (12.2%), ma lo sviluppo di SC era associato ad un hazard ratio di 4.6 (IC 95% 3.9-5.4) per mortalità entro 1 anno7.
La letteratura propone indicatori clinici, quali la stasi polmonare e la dispnea, indicatori strumentali, quali i segni di congestione polmonare radiologica, o ancora la disfunzione ventricolare sinistra ecocardiografica o scintigrafica. La classe Killip per molti anni ha mantenuto il suo ruolo fondamentale nella stratificazione prognostica36, ma purtroppo non viene sistematicamente riportata nella lettera di dimissione. Negli ultimi anni i biomarcatori, su tutti il peptide natriuretico cerebrale (BNP), si sono rivelati validi stratificatori prognostici anche in ambito di PTCA primaria37.

Il Panel ritiene che un corretto approccio per formulare la diagnosi di SC, o per identificare i pazienti che sono a rischio di SC, debba prevedere l’uso di tutti gli indicatori. A questo scopo è necessario inserire nella cartella clinica una check-list che comprenda: classe Killip max, FE ecocardiografica, predittori di rimodellamento, uso di diuretici dell’ansa per dispnea o stasi polmonare di origine non secondaria ed infine variazione dei livelli di BNP. Questi parametri dovranno essere registrati durante la degenza ed inseriti nella lettera di dimissione per orientare il percorso assistenziale successivo. I pazienti con SC così identificati dovranno essere avviati ad un percorso protetto dopo la dimissione.
1.2 Il paziente a rischio trombotico elevato
La presentazione clinica iniziale ed il quadro elettrocardiografico sono fortemente predittivi di eventi ischemici ricorrenti a breve e medio termine nelle SCA.
I pazienti con normale ECG alla presentazione hanno una prognosi migliore dei pazienti nei quali siano state rilevate onde T negative e, in caso di sottoslivellamento del tratto ST, la prognosi è ancora più infausta in funzione della gravità e dell’estensione delle alterazioni elettrocardiografiche38,39. A ciò va aggiunto che il monitoraggio del tratto ST è in grado di fornire informazioni prognostiche aggiuntive rispetto a quelle desumibili dall’ECG a riposo40,41.
La troponina T e I sono i biomarker preferenziali per predire l’outcome a breve termine (30 giorni) relativo ad IMA e mortalità42, ma il loro valore prognostico è stato confermato anche a lungo termine ( 1 anno). L’aumentato rischio che si associa al riscontro di elevati livelli di troponina è indipendente e aggiuntivo rispetto ad altri fattori di rischio, quali le alterazioni elettrocardiografiche a riposo o durante monitoraggio continuo e i marker di attività infiammatoria43. Se da un lato le troponine cardiache rappresentano i principali marcatori biochimici per la stratificazione iniziale del rischio, dall’altro ne sono stati valutati numerosi altri nell’ottica di ottenere informazioni prognostiche incrementali. Fra questi, sia la proteina C-reattiva ad alta sensibilità sia il BNP sono stati ampiamente validati e sono ora disponibili su base routinaria44.
Oltre alla presentazione clinica, alle modificazioni elettrocardiografiche e ai biomarcatori, esistono importanti caratteristiche cliniche quali l’età avanzata, il diabete mellito, l’insufficienza renale, l’arteriopatia periferica, il pregresso IMA o la storia di angina, che sono associate ad un aumentato rischio di eventi ischemici ricorrenti a medio-lungo termine15. In particolare, diabete mellito, arteriopatia periferica e pregresso IMA insieme all’età e alla presenza di angina sono risultati i principali indicatori dell’estensione della malattia coronarica già in studi storici45.
Gli score predittivi del rischio trombotico a breve-medio termine, quali ad esempio il GRACE46 ed il TIMI47, presentano alcune differenze per quanto riguarda le popolazioni, gli outcome e gli archi temporali su cui sono stati elaborati, così come nei fattori predittivi desunti da caratteristiche basali, anamnesi, condizioni cliniche ed emodinamiche alla presentazione, ECG, esami di laboratorio e trattamento. Tali score di rischio sono di ausilio in tutto lo spettro delle SCA, ma in particolar modo nei pazienti in cui non è nota l’anatomia coronarica.
Il rischio di recidive ischemiche è risultato essere in rapporto con il livello dei fattori di rischio cardiovascolare già in studi storici48 e questo dato è stato poi confermato da numerosi studi condotti in epoca più recente49.
Per i pazienti sottoposti a coronarografia esistono, in aggiunta alle suddette variabili, alcuni parametri angiografici semplici, come ad esempio il numero dei vasi coronarici interessati da stenosi significative50 o la presenza di rivascolarizzazione incompleta51, che sono associati ad un aumentato rischio di recidive ischemiche. Recentemente sono stati sviluppati anche score di rischio più complessi basati principalmente su parametri angiografici. Il SYNTAX score è stato utilizzato per caratterizzare l’anatomia coronarica sulla base di 9 criteri anatomici, inclusi il numero, la localizzazione e la complessità delle lesioni coronariche, ottenendo un punteggio per ogni lesione e un punteggio totale per paziente 52. Il limite del SYNTAX score è che esso non considera variabili cliniche di rilievo quali la FE, l’insufficienza renale o la broncopneumopatia cronica ostruttiva e, inoltre, la vitalità di un territorio irrorato da una coronaria con ostruzione totale. L’utilità clinica è sicuramente aumentata se a questo score di rischio anatomico si aggiunge uno score clinico semplice come per esempio l’ACEF (età/FE pesata sulla presenza o meno di insufficienza renale cronica), determinando il cosiddetto “Clinical SYNTAX Score” 53, o se si combinano più variabili cliniche ed angiografiche come l’età, la clearance della creatinina, la FE, la presenza di malattia del tronco comune non protetto, vasculopatia periferica, sesso femminile e broncopneumopatia cronica ostruttiva (SYNTAX score II)54. Tali combinazioni sono state validate su pazienti dello studio ARTS-II53 e su più di 2000 pazienti con SCA arruolati nel trial ACUITY55, e sembrano essere più discriminanti rispetto a score unicamente angiografici o prettamente clinici nel predire gli eventi trombotici ricorrenti ad 1 anno. È interessante notare come la disfunzione ventricolare sinistra e lo SC rappresentino un elemento di rischio per recidive ischemiche, che a loro volta sono predittive di un deterioramento della funzione contrattile. Analogamente l’ACUITY-PCI risk score, derivato dal trial ACUITY e validato in pazienti con SCA, che include 2 variabili cliniche (diabete mellito ed insufficienza renale), rialzo dei biomarcatori cardiaci o deviazione del tratto ST, e 3 variabili angiografiche, ha dimostrato un maggiore potere predittivo rispetto a score di rischio clinici tradizionali come il GRACE e il TIMI in termini di eventi ischemici ricorrenti 56. In conclusione, gli score che associano parametri clinici ed angiografici proposti in letteratura sono lo strumento più efficace per predire la prognosi anche in termini di recidive ischemiche. Per l’esigenza di dare un messaggio facilmente utilizzabile noi ci riferiremo all’associazione tra i singoli parametri.

Il Panel ritiene che l’elevato rischio cardiovascolare residuo, il diabete mellito, l’insufficienza renale, l’arteriopatia periferica, una storia di angina o di pregresso IMA, la presenza di malattia multivasale, specie se sottoposta a rivascolarizzazione incompleta, o la mancata rivascolarizzazione/riperfusione, al di là dell’età avanzata, che è una caratteristica di alto rischio associata ed inclusa nelle suddette comorbilità, siano variabili che identificano pazienti con SCA a rischio trombotico elevato e che devono essere registrate in una check-list pre-dimissione e tenute in considerazione, soprattutto se associate, per definire correttamente il rischio trombotico nella lettera di dimissione ed avviare i pazienti verso un percorso di prevenzione secondaria intensiva, ovviamente in rapporto con le potenzialità del contesto organizzativo locale.
2. I PERCORSI ASSISTENZIALI
La corretta applicazione delle strategie di prevenzione secondaria in pazienti affetti da cardiopatia ischemica è in grado di ritardare la progressione della malattia aterosclerotica, di ridurre la mortalità e l’incidenza di nuovi eventi clinici e di controllare i sintomi migliorando la qualità di vita57-59. Di conseguenza, occorre fare ogni sforzo possibile per organizzare percorsi finalizzati a centrare questo obiettivo nel contesto delle risorse disponibili.
La gestione della prevenzione secondaria ha il contesto ideale in centri di Cardiologia Riabilitativa (CR), dove può essere erogato un intervento strutturato che riguarda in maniera particolare la gestione della fase post-acuta di malattia ma che prevede anche percorsi specifici per la prevenzione secondaria a lungo termine60-62.
Tuttavia, considerando che la domanda annuale di CR secondo le indicazioni delle linee guida includerebbe 145 000 pazienti con SCA (dati SDO 2011), 135 000 con SC (dati AGENAS 2012) e 46 000 dopo cardiochirurgia, mentre l’offerta di CR degenziale è di 60 000 pazienti (ISYDE 2013, dati non pubblicati), risulta evidente l’impossibilità della CR di soddisfare da sola i bisogni della prevenzione secondaria. Le strutture di CR hanno inoltre una distribuzione disomogenea nel territorio nazionale, essendo allocate principalmente nelle regioni del nord. D’altra parte è evidente dalla letteratura che l’efficacia dell’intervento di CR è tanto maggiore quanto più alto è il rischio della popolazione di pazienti ammessa ai programmi 63. Ciò ha portato ad introdurre il concetto di priorità alla CR degenziale, accanto a quello di indicazione, attribuendo la priorità per l’accesso a questo tipo di percorso ai pazienti a rischio più alto64. In studi recenti, si è reso inoltre evidente che i programmi di prevenzione secondaria ad elevata intensità successivi alla CR portano un vantaggio significativo solo nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare residuo mentre non sono altrettanto efficaci sui soggetti a rischio cardiovascolare più basso65. Ciò significa, ancora una volta, che l’impegno delle risorse va orientato in relazione con la severità della condizione clinica.
Si rende necessario, in altre parole, sviluppare modalità gestionali della prevenzione secondaria che siano graduate a seconda del rischio clinico e cardiovascolare individuale, come definito alla dimissione dal ricovero per SCA. È necessario inoltre prevedere le modalità di un intervento intensivo di prevenzione secondaria anche in assenza di una CR nel territorio locale.
Ciò detto va comunque rimarcato come in altri paesi europei l’accesso alle strutture di CR dopo una SCA sia garantito ad un numero di pazienti più elevato che in Italia. La percentuale di pazienti avviati in CR dopo una SCA nel nostro Paese è collocata tra il 12% e il 18%35, mentre è pari al 23% in Francia66, al 40% in Germania67 e al 42% nella parsimoniosa Inghilterra68. Questi dati europei indicano con chiarezza la necessità di un potenziamento dell’attività delle strutture di CR in Italia in questo settore.
Scopo di questa parte del documento è comunque quello di definire gli attori e i modelli organizzativi della rete per la gestione della fase post-acuta delle SCA, che dovranno assicurare interventi di riabilitazione cardiologica, counseling/informazione sanitaria per obesità, diabete mellito, alimentazione, attività motoria ed inoltre percorsi strutturati e dedicati su fumo e valutazioni di follow-up di complessità crescente in rapporto al livello di rischio dopo la SCA, ed infine interventi per l’ottimizzazione e l’aderenza alla terapia.
La fase post-acuta viene identificata con il periodo che va dalla dimissione fino al primo anno, ma è ragionevole ritenere che l’organizzazione delineata per l’assistenza in questo periodo sia destinata a far parte anche di quella per l’assistenza a lungo termine.
L’articolazione del percorso assistenziale successivo al ricovero per una SCA deve essere strettamente correlata ai reali bisogni del paziente, definiti al momento della dimissione. La stratificazione del rischio residuo del paziente con SCA e la definizione delle sue condizioni clinico-funzionali sono necessarie per stabilire quali sono gli obiettivi da raggiungere nell’immediato (stabilizzazione clinica, controllo delle complicanze/comorbilità, risoluzione di questioni diagnostico o terapeutiche in sospeso come per esempio completamento di rivascolarizzazione o impianto di defibrillatore, ecc.) e quale sia la tipologia/contesto più idonea e appropriata di erogazione dell’intervento di prevenzione secondaria.
Devono essere quindi attentamente valutati la complessità clinico-assistenziale (derivabile dal rischio clinico legato all’evento indice, dal rischio cardiovascolare residuo, dalle comorbilità e complicanze presenti) e l’eventuale presenza di disabilità recuperabili e necessità di recupero funzionale.
Le strutture e gli attori da coordinare in attività complementari e sinergiche sono: a) centri di CR degenziale ed ambulatoriale, b) ambulatori cardiologici (ospedalieri o territoriali) di prevenzione secondaria o dedicati alla continuità assistenziale dopo SCA o ancora post-PTCA, c) infermieri in programmi dedicati di counseling, d) medici di medicina generale.
I centri di CR possono avere tipologie operative diverse in grado di erogare l’intervento riabilitativo in regime degenziale (come ricovero ordinario o ricovero diurno) o in regime ambulatoriale, più o meno complesso.
È auspicabile inoltre che le singole strutture dedicate alla prevenzione/riabilitazione cardiovascolare siano integrate in una rete assistenziale, che abbia come snodi centrali strutture di livello e complessità superiori (centri Hub), collocati preferibilmente in dipartimenti cardiovascolari (ospedalieri, interaziendali o ospedale-territorio). È auspicabile inoltre che strutture di CR siano allocate anche all’interno dei centri Hub della rete per l’emergenza, dove si concentrano i pazienti a rischio più alto 69.
Gli ambulatori dedicati specificamente alla prevenzione secondaria sono scarsamente diffusi e l’assistenza ambulatoriale post-SCA è solitamente affidata ad ambulatori degli ospedali per acuti di diversa denominazione (per la cardiopatia ischemica, post-PTCA, di continuità assistenziale, ecc.) o, in parte minore, ad ambulatori cardiologici territoriali. Questi ambulatori spesso offrono solo prestazioni di tipo strettamente clinico-strumentale cardiologico e non sono organizzati per il counseling a fini preventivi e di promozione dell’aderenza alla terapia.
Sia nei centri di CR che negli ambulatori di prevenzione un ruolo importante dovranno a questo scopo svolgere, accanto alle figure cardiologiche di riferimento, figure di professionisti sanitari non medici, quali infermieri, psicologi, dietisti, fisioterapisti.

La prevenzione secondaria in senso lato e la riabilitazione cardiovascolare nello specifico condividono largamente ambiti culturali, strumenti ed obiettivi e sono attività da gestire di concerto con le strutture cardiologiche per acuti al fine di realizzare i piani ed i percorsi del pazienti con recente evento cardiovascolare. Nel loro insieme costituiscono in pratica l’essenza della cardiologia preventiva, che ha il compito istituzionale di gestire in rete il percorso del cardiopatico nella sua fase di post-acuzie e poi di cronicità. Una rete da costruire, che dovrà funzionare analogamente alla rete per il cardiopatico acuto e che dovrà avere nel medico di medicina generale un supporto fondamentale. L’organizzazione della rete potrà variare strutturalmente a seconda delle risorse localmente disponibili, ma dovrà tendere ad uno standard funzionale uniforme ponendosi come obiettivo il conseguimento degli obiettivi diagnostico-terapeutici e di prevenzione indispensabili. La realizzazione dei dipartimenti cardiologici ospedale-territorio permetterebbe un’ottimale erogazione dei servizi per acuti e post-acuti utilizzando al meglio le risorse disponibili.

Come più sopra specificato, l’appropriatezza erogativa dell’intervento di prevenzione secondaria/riabilitazione cardiologica nel paziente con SCA deve essere commisurata alle caratteristiche di maggiore o minore complessità, anche se non devono essere dimenticati aspetti e criticità logistico/ambientali/socio-assistenziali legati alla situazione locale. Di conseguenza, durante il percorso assistenziale nella fase post-acuta particolare attenzione va posta nel modulare le prestazioni in funzione di effettivi bisogni dei pazienti. Per esempio, l’esecuzione di esami ambulatoriali routinari dopo PTCA non si associa ad una riduzione di mortalità e/o infarto.

Il Panel ritiene che la condivisione dei protocolli gestionali della fase post-acuta sia condizione indispensabile per la realizzazione dei programmi di prevenzione secondaria/riabilitazione in un determinato territorio. Il coinvolgimento di tutti gli attori, cardiologi, infermieri e medici di medicina generale potrà essere sinergico ed efficace soltanto se gli obiettivi, gli strumenti, le modalità di applicazione e la definizione dei compiti saranno condivisi in periodiche riunioni nel contesto del dipartimento ospedale-territorio o, in sua assenza, dell’area geografica che dovrà avere un coordinamento locale ben definito e costituito dai rappresentanti dei centri che prestano assistenza post-SCA. La definizione di indicatori e il monitoraggio periodico dell’applicazione dei percorsi condivisi dovranno costituire gli strumenti ottimali per la verifica dell’attività svolta.

Il momento della dimissione dall’ospedale per acuti costituisce un passaggio cruciale per le successive scelte gestionali nello specifico paziente.

Il Panel ritiene che la lettera di dimissione sia un caposaldo di fondamentale importanza per chiunque prenderà in carico il paziente in seguito e che di fatto rappresenti la chiave di accensione del processo di cura successivo. La lettera di dimissione dovrà contenere tutti gli elementi sintetizzati nella check-list riportata nella Tabella 1, fondamentali per definire il percorso appropriato di ogni singolo paziente, il tipo ed il timing dei successivi controlli.

La stratificazione prognostica trattata nella Sezione 1 porta a distinguere infatti, dal punto di vista organizzativo e del percorso assistenziale, tre popolazioni di pazienti dopo una SCA: 1) pazienti a rischio clinico elevato per SC o disfunzione ventricolare sinistra; 2) pazienti ad elevato rischio trombotico e quindi di recidive ischemiche; 3) pazienti a rischio più basso. Occorre quindi che le strutture sopra descritte assicurino le funzioni per i percorsi assistenziali di queste tre categorie di pazienti (Tabella 2).



2.1 Percorso assistenziale dei pazienti a rischio clinico elevato per scompenso cardiaco e/o disfunzione ventricolare sinistra
Per questi pazienti, definiti nella Sezione 1, è prioritario l’invio in strutture di CR degenziale. Qui l’intervento riabilitativo sarà utile a contrastare la tendenza al rimodellamento ventricolare sinistro ed a migliorare la capacità funzionale con l’esercizio fisico, a titolare la terapia farmacologica, a monitorizzare la funzione ventricolare sinistra con ecocardiogrammi seriati valutando eventuali altre opzioni terapeutiche (indicazione a defibrillatore automatico impiantabile), a gestire la reazione psicologica all’evento coronarico recente ed a favorire il reinserimento nella vita attiva.

Vi sono poi pazienti che hanno indicazione all’accesso in CR degenziale in quanto necessitano di recupero funzionale per compromissione della loro autonomia funzionale o che presentano disabilità recuperabili legate all’evento indice. Le attività di riabilitazione in regime di ricovero ospedaliero sono infatti dirette anche al recupero di importanti disabilità modificabili, che richiedono un elevato impegno diagnostico-terapeutico e riabilitativo, comprensivo di interventi multiprofessionali che implicano un elevato livello di tutela medico-infermieristica e/o la necessità di utilizzare attrezzature tecnologicamente avanzate.
Discriminante per l’accesso in CR di pazienti con copatologie o disabilità è comunque l’esistenza di un’accettabile condizione clinica, funzionale e cognitiva precedente l’episodio coronarico acuto, che sia recuperabile con i programmi di CR. Tali programmi non sono invece indicati nei casi in cui già prima della SCA fosse presente una grave disabilità motoria o cognitiva non recuperabile o una ridotta aspettativa di vita per comorbilità importanti. Successivamente al ciclo degenziale, non appena possibile, l’intervento riabilitativo potrà essere continuato in regime ambulatoriale.
Qualora nel territorio non siano disponibili strutture di CR il percorso assistenziale dovrà essere vicariato da strutture ambulatoriali dedicate con controlli ravvicinati e ripetuti nei primi mesi, titolazione della terapia farmacologica, ecocardiogrammi seriati per la monitorizzazione della funzione ventricolare sinistra e valutazioni della capacità funzionale. Il percorso dovrà prevedere controlli frequenti nel corso del primo anno.
2.2 Percorso assistenziale dei pazienti ad elevato rischio trombotico
Per i pazienti che sono ad alto rischio trombotico, come definiti nella Sezione 1, dovrà essere prioritariamente considerato un programma di prevenzione secondaria intensiva che potrà svolgersi preferibilmente in un contesto riabilitativo ambulatoriale, o in un sua assenza, in un contesto ambulatoriale di prevenzione secondaria.

I programmi di CR ambulatoriale consentono un contatto frequente con il paziente e si avvalgono di competenze peculiari adatte a questo contesto clinico. Nel caso che il percorso sia invece condotto da un ambulatorio di un ospedale per acuti o territoriale si dovranno implementare anche in questo contesto possibilità di counseling infermieristico sull’aderenza alla terapia, verifica del raggiungimento dei target terapeutici, programmi antifumo, consulenze dietologiche, prescrizione di esercizio fisico, eventuale supporto psicologico.
Il Panel ritiene che il livello di rischio trombotico al quale ritenere indicato un intervento intensivo di prevenzione secondaria sarà dettato dalle condizioni organizzative locali, essendo ragionevolmente allargato a più pazienti in centri con maggiori risorse. L’intervento di prevenzione secondaria intensiva potrà essere prestato in ambulatori specificamente dedicati (ambulatori di prevenzione secondaria) o potrà essere una funzione riservata ad un sottogruppo di pazienti in un unico ambulatorio per il follow-up delle SCA.

L’assistenza post-dimissione a questi pazienti dovrà iniziare entro 2-4 settimane dalla dimissione dall’evento indice e protrarsi almeno per il primo anno dopo la SCA.
2.3 Percorso assistenziale dei pazienti a rischio
più basso
I pazienti senza SC e/o disfunzione ventricolare sinistra e senza un rischio trombotico elevato possono essere considerati a più basso rischio. Ad essi devono essere comunque garantiti, oltre alle indicazioni per la terapia farmacologica, i controlli ematochimici ed il follow-up, un insieme di suggerimenti e prescrizioni di prevenzione secondaria, basati inizialmente su di un colloquio (counseling) al momento della dimissione relativo alle abitudini di vita da seguire, all’abolizione del fumo, alla dieta più indicata, all’importanza dell’aderenza alla terapia e del raggiungimento e mantenimento nel tempo dei target terapeutici e, successivamente, su azioni strutturate di rinforzo, utilizzando il recall telefonico o eventualmente gli strumenti propri della telemedicina.

Questa attività di informazione e counseling dovrebbe essere garantita in qualsiasi struttura cardiologica per acuti e dovrebbe essere commisurata alle potenzialità organizzative, curando che le informazioni ed i suggerimenti vengano forniti da personale esperto e dedicato, in modo da veicolare una corretta informazione/educazione sanitaria sulla malattia.
All’interno di questo terzo gruppo di pazienti, come documentato nella Sezione 1, appaiono avere prognosi a distanza particolarmente favorevole i pazienti sottoposti precocemente a rivascolarizzazione con PTCA, soprattutto se non anziani (età <70 anni). Diversi studi su larga scala hanno documentato che esiste un’estrema variabilità tra un centro e l’altro sul numero e la tipologia di esami ambulatoriali eseguiti dopo PTCA. Un aumento di test provocativi dopo PTCA non si associa ad una riduzione di mortalità e/o di infarto. Peraltro, è stato dimostrato che spesso i controlli vengono eseguiti su pazienti asintomatici e, soprattutto, a basso rischio, mentre, paradossalmente, i pazienti più anziani con maggiori comorbilità e, pertanto, a più alto profilo di rischio, spesso non eseguono alcun test provocativo dopo PTCA 70,71. Come sopra documentato, la percentuale di pazienti con queste caratteristiche di basso rischio è in continua crescita nell’ultimo decennio. Le linee guida sconsigliano l’esecuzione routinaria di test provocativi nel paziente asintomatico dopo PTCA per l’identificazione di un’eventuale ischemia residua, pertanto tali esami sono inappropriati nei primi 2 anni dopo PTCA. Diverso ed appropriato è l’uso del test ergometrico per la valutazione funzionale ai fini della prescrizione dell’esercizio fisico aerobico. Resta il fatto che un elevato numero di stress test con indicazioni inappropriate si associa ad un aumento di nuove procedure angiografiche e di rivascolarizzazione, senza incidere, tuttavia, su mortalità e infarto. Questo dato sottolinea che una strategia di follow-up più “intensiva” non è in grado di ridurre il rischio di nuovi eventi ischemici né, tantomeno, è in grado di ridurre la mortalità 72, e quindi non è corretta.
Per questi pazienti è ragionevole, in caso di stabilità clinica, un follow-up a bassa intensità. Quest’ultimo, concordato con il medico di medicina generale, sarà caratterizzato da una sola visita cardiologica di controllo nel primo anno con verifica dei target terapeutici ma senza esecuzione di test provocativi e di esami ecocardiografici. Il successivo follow-up a lungo termine potrà quindi essere eseguito dal medico di medicina generale senza altre visite cardiologiche routinarie. Sarà invece il medico di medicina generale a richiedere una visita urgente in caso di modificazioni cliniche come ripresa di angina o comparsa di nuovi sintomi.

In conclusione, il Panel concorda che:
1. la gestione ottimale del paziente con SCA prevede percorsi condivisi di prevenzione secondaria/riabilitazione da svolgersi nel contesto di una rete strutturata del post-acuto/cronico;
2. le strutture coinvolte sono le cardiologie degli ospedali per acuti, i centri di CR e gli ambulatori di cardiologia ospedalieri o territoriali;
3. gli attori coinvolti sono cardiologi, delle acuzie e non, figure sanitarie non mediche, in primis infermieri, ed i medici di medicina generale;
4. i percorsi assistenziali devono essere concordati dagli attori sulla base dei reali bisogni del paziente, ma prendendo in considerazione le risorse disponibili e gli aspetti/criticità logistico-strutturali presenti localmente, ferma restando la necessità per tutti i reparti di cardiologia per acuti di poter inviare alcune categorie di pazienti ad alto rischio direttamente ad una cardiologia riabilitativa in regime degenziale;
5. per tutti i pazienti, in particolare nell’assistenza successiva al periodo post-acuto, è di particolare importanza l’interazione con il medico di medicina generale.
3. OBIETTIVI DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA DOPO SINDROME CORONARICA ACUTA
La seguente trattazione riguarda gli obiettivi del trattamento farmacologico nella fase post-acuta delle SCA, che va dalla dimissione al primo anno. Tutte le raccomandazioni hanno validità anche nella fase cronica successiva al primo anno, fatta eccezione per quelle relative alla doppia antiaggregazione.
3.1 Il controllo della frequenza cardiaca
Numerosi studi hanno dimostrato il ruolo prognostico negativo di un aumento della frequenza cardiaca (FC) a riposo nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica stabile1 e dopo SCA73,74.
La FC è il principale fattore determinante sia del consumo miocardico di ossigeno che del tempo di perfusione coronarica. Un incremento della FC, pertanto, può indurre ischemia sia tramite l’aumento della richiesta di ossigeno che tramite la riduzione del suo apporto. Numerose evidenze suggeriscono inoltre come l’innalzamento dei valori di FC favorisca sia i processi di aterogenesi che l’instabilizzazione di placche preesistenti.
Nel periodo successivo all’IMA, l’utilizzo della terapia betabloccante in prevenzione secondaria ha mostrato, in numerosi studi, un’efficacia pari a circa il 30% in termini di riduzione della mortalità per cause cardiovascolari e dell’incidenza di reinfarto75. Tali risultati sono principalmente da ricondurre all’effetto di riduzione della FC di questi farmaci. Una recente analisi retrospettiva del registro REACH, tuttavia, non ha confermato l’effetto protettivo dei betabloccanti nella riduzione degli eventi cardiovascolari in pazienti con elevato profilo di rischio o con pregressi eventi coronarici76. Ciononostante, non vi sono dubbi sul ruolo prognostico favorevole dell’uso dei betabloccanti nei pazienti con cardiopatia ischemica e SC: una recente revisione dei dati derivati dai trial randomizzati controllati ha infatti confermato l’esistenza di una correlazione significativa tra la riduzione della FC ottenuta mediante terapia medica e la mortalità in questi pazienti77.
Anche i calcioantagonisti non diidropiridinici, quali verapamil e diltiazem, tramite il loro effetto sulla FC, sono risultati efficaci nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari nel post-infarto in pazienti senza disfunzione ventricolare sinistra78. Tuttavia questi farmaci sono stati valutati in studi non recenti e non sono stati confrontati con i betabloccanti, per cui il loro utilizzo nella pratica clinica è molto ridotto e limitato a pazienti con controindicazioni assolute ai betabloccanti, quali la broncopneumopatia cronica con broncocostrizione reversibile.
Una metanalisi di studi clinici controllati sull’utilizzo di betabloccanti e calcioantagonisti nel post-infarto ha inoltre documentato una relazione lineare tra riduzione dei valori di FC e riduzione del rischio: ad ogni riduzione della FC a riposo di 10 b/min si associa una riduzione del rischio relativo di morte cardiaca del 30%79. Pertanto, sulla base delle evidenze fornite da studi condotti sia durante la fase iperacuta dell’infarto, sia nei giorni e nelle settimane immediatamente successivi al ricovero, ovvero nella fase post-acuta, il trattamento con betabloccanti viene raccomandato nella maggior parte dei pazienti che presentano una SCA (sono esclusi i pazienti con shock cardiogeno all’esordio o con SC grave/edema polmonare acuto nei primi giorni di ospedalizzazione). Nei pazienti con SCA non complicata da sintomi/segni di congestione e/o ipoperfusione il betabloccante può essere iniziato sin dalle prime ore del ricovero, generalmente a basse dosi, in modo da ridurre gradualmente la FC senza determinare ipotensione sintomatica. La progressiva titolazione della posologia del betabloccante fino alle dosi che si sono dimostrate efficaci negli studi randomizzati (atenololo: 100 mg/die, metoprololo: 200 mg/die, bisoprololo: 10 mg/die, carvedilolo 50 mg/die) dovrebbe essere condotta già durante il ricovero, e comunque proseguita nelle prime 3-4 settimane. Tuttavia, numerosi fattori organizzativi e/o clinici, quali la breve durata del ricovero nel reparto per acuti nei casi non complicati, frequentemente non seguita da un percorso in CR, la presenza di astenia o ipotensione sistemica legata all’allettamento, ecc., spesso precludono l’ottimizzazione posologica nei primi giorni. Inoltre, spesso il betabloccante viene usato con cautela, o addirittura non somministrato, nel timore talora ingiustificato di effetti collaterali (bradicardia o disturbi della conduzione atrioventricolare) o per la presenza di comorbilità che vengono considerate controindicazioni relative o assolute (età avanzata, broncopneumopatia cronica, arteriopatia obliterante degli arti inferiori senza ischemia a riposo, diabete mellito).
Pertanto, l’utilizzo sistematico dei betabloccanti a dosi adeguate è un obiettivo terapeutico prioritario, che deve essere tenuto presente in tutte le fasi della gestione del paziente dopo SCA, non solo nel periodo immediatamente post-acuto, ma anche a distanza di mesi o anni dall’evento acuto stesso, nella fase cronica.
Nel 2005 è stato approvato dalla European Medicines Agency (EMA) un nuovo farmaco ad azione bradicardizzante selettiva, l’ivabradina. Questa sostanza, tramite la sua azione di blocco selettivo nei confronti dei canali If responsabili della depolarizzazione delle cellule del nodo seno-atriale, è in grado di ridurre la FC senza interferire su contrattilità, conduzione atrioventricolare e pressione arteriosa (PA), diversamente dai farmaci sopracitati. Numerosi studi hanno dimostrato la tollerabilità e l’efficacia antischemica dell’ivabradina isolatamente e in associazione con i betabloccanti80.
Le proprietà farmacodinamiche di questo agente bradicardizzante puro hanno inoltre permesso nello studio BEAUTIFUL (ivabradina vs placebo)81 di valutare per la prima volta in modo prospettico il ruolo prognostico della FC in pazienti con cardiopatia ischemica, terapia medica ottimizzata, disfunzione ventricolare sinistra (FE <40%) e FC >60 b/min. In un sottogruppo di pazienti con FC >70/min il trattamento con ivabradina, pur non modificando l’outcome primario composito (mortalità cardiovascolare, ospedalizzazioni per IMA, per aggravamento dello SC o per SC di nuova insorgenza), la mortalità cardiovascolare o le ospedalizzazioni per SC, ha determinato una riduzione statisticamente significativa delle ospedalizzazioni per IMA fatale e non fatale e per rivascolarizzazione coronarica 82.
Sebbene un’ampia letteratura sembri indicare che la FC rappresenti sia un marker di severità della malattia cardiaca che un vero e proprio fattore prognostico, ad oggi è ancora incerto se la relazione tra FC ed eventi cardiovascolari sia di tipo lineare o curvilineo.
In ogni caso, sulla base della fisiopatologia della cardiopatia ischemica, un adeguato controllo della FC a riposo e durante sforzo è sempre un obiettivo terapeutico da perseguire. Rimane da chiarire che impatto questo abbia sulla prognosi dei pazienti, i limiti entro i quali è opportuno intervenire e quali farmaci siano da preferire, facendo salvo che nei pazienti con pregresso infarto e ancor più con insufficienza cardiaca il calo della FC ottenuto con terapia betabloccante si associa ad un aumento della sopravvivenza.

Sulla base delle evidenze disponibili83-86, il Panel ritiene che i betabloccanti debbano essere somministrati a tutti i pazienti dopo SCA e che, in caso di persistenza di sintomi o di una insoddisfacente riduzione della FC o di scarsa tolleranza alla titolazione, sia indicato utilizzare ivabradina in associazione, mentre in caso di intolleranza si utilizzerà ivabradina da sola. Il target di FC a riposo raccomandato è di 60 b/min. Il trattamento con betabloccanti, o comunque con farmaci attivi sulla FC, va proseguito a lungo termine, verosimilmente per sempre.
3.2 La prevenzione del rimodellamento ventricolare sinistro
3.2.1 Inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone
3.2.1.1 ACE-inibitori: evidenza dell’efficacia (riduzione della mortalità e degli endpoint primari) nel post-infarto. L’evidenza che l’utilizzo di ACE-inibitori determini effetti favorevoli dopo IMA deriva dagli studi classici condotti su pazienti con IMA e dis­funzione sistolica ventricolare sinistra o SC conclamato. I farmaci utilizzati erano il captopril (SAVE)83, il ramipril (AIRE)84 e il trandolapril (TRACE)85. Considerando l’insieme di questi studi, gli ACE-inibitori conferivano una riduzione del 26% del rischio relativo di morte e del 27% del rischio di morte od ospedalizzazione per SC86. A queste evidenze si devono aggiungere gli studi SMILE87,88 che hanno dimostrato che zofenopril, somministrato nella fase precoce dell’IMA era in grado di ridurre del 34% il rischio relativo di eventi cardiovascolari rispetto a lisinopril, inizialmente nei pazienti con IMA anteriore sottoposti a trombolisi e successivamente anche in altre sedi infartuali. Al follow-up a 6 mesi il trattamento con zofenopril, in associazione con aspirina, riduceva significativamente il carico ischemico globale89 e ad 1 anno risultava associato ad una maggiore riduzione dell’incidenza di morte cardiovascolare o ospedalizzazione per cause cardiovascolari rispetto al ramipril90. Il lisinopril infine, sulla base dei dati dello studio GISSI-3, è risultato efficace se somministrato precocemente (entro 24h) nei pazienti con IMA emodinamicamente stabili19.

3.2.1.2 ACE-inibitori: effetti sulla prevenzione del rimodellamento post-infartuale. Lo studio SOLVD91 ha per primo dimostrato l’efficacia degli ACE-inibitori in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra e malattia coronarica. Nel sottostudio ecocardiografico del SOLVD, nel quale l’etiologia della disfunzione ventricolare sinistra era prevalentemente ischemica, il trattamento con enalapril determinava rispetto al placebo una riduzione a 12 mesi dei volumi del ventricolo sinistro con mantenimento della FE92. L’efficacia del trattamento precoce sul rimodellamento post-infartuale veniva confermata da una successiva metanalisi nella quale il captopril, rispetto al placebo, si dimostrava in grado di prevenire il rimodellamento ventricolare sinistro o arrestarne la progressione, con un beneficio maggiore se la somministrazione era precoce (da 24 a 48h dall’infarto)93. In tempi più recenti il PREAMI, che includeva pazienti anziani post-IMA in terapia ottimizzata, dimostrava che il rimodellamento ventricolare sinistro si sviluppa anche in pazienti con normale funzione ventricolare sinistra ed infarti di piccola estensione, ma soprattutto che il trattamento con perindopril era in grado di prevenire la progressione del rimodellamento94.

3.2.1.3 Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II: evidenza dell’efficacia (riduzione della mortalità e degli endpoint primari) nel post-infarto. L’evidenza che i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (ARB) siano di efficacia non inferiore rispetto agli ACE-inibitori nel ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolare dopo IMA deriva fondamentalmente dallo studio VALIANT95, nel quale pazienti con IMA complicato da SC o disfunzione sistolica ventricolare sinistra venivano randomizzati a captopril (50 mg x 3/die), valsartan (160 mg x 2/die) o la combinazione dei due, e il valsartan si rivelava non inferiore rispetto al captopril. Questi dati confermavano sostanzialmente quelli ottenuti con losartan (50 mg/die) rispetto a captopril nello studio OPTIMAAL96.

3.2.1.4 Antialdosteronici: evidenza dell’efficacia (riduzione della mortalità e degli endpoint primari) nel post-infarto. L’evidenza che gli antialdosteronici migliorino la prognosi in soggetti con cardiopatia ischemica e in particolare nel post-infarto deriva dai dati dello studio EPHESUS che includeva pazienti con FE 40% e SC o diabete da 3 a 14 giorni dopo IMA97. Nel follow-up a 3 anni l’eplerenone (25-50 mg/die) riduceva l’incidenza di morte per tutte le cause del 15%, l’incidenza cumulativa di morte e/o di ospedalizzazione per eventi cardiovascolari del 13% e l’incidenza di morte improvvisa cardiaca del 21%. Un’analisi successiva dimostrava che l’eplerenone (25 mg/die) riduceva significativamente la mortalità per tutte le cause a 30 giorni se la terapia era iniziata precocemente dopo IMA in pazienti con FE 40% e segni di SC. Sulla base di questo effetto rapido, l’eplerenone dovrebbe essere iniziato precocemente, preferibilmente nel corso della fase acuta 98. Allo stato attuale non vi è evidenza che gli antialdosteronici siano efficaci nel post-IMA anche in pazienti senza SC e/o disfunzione sistolica. I risultati dello studio ALBATROSS99 dovrebbero in futuro chiarire questo punto.
3.2.2 Le indicazioni delle linee guida
Le linee guida sulla gestione della malattia coronarica cronica stabile della Società Europea di Cardiologia raccomandano in classe IA, l’uso degli ACE-inibitori (o degli ARB, quando i primi non sono tollerati) per la prevenzione delle recidive di eventi dopo SCA59. Entrambe le classi di farmaci hanno dimostrato di ridurre l’incidenza di mortalità totale, reinfarto, ictus e SC in alcuni sottogruppi di pazienti, particolarmente quelli con SC, pregressa malattia vascolare isolata100-102 o diabete ad alto rischio103. È pertanto appropriato considerare l’uso degli ACE-inibitori, a meno di controindicazioni, per la terapia di pazienti con cardiopatia ischemica cronica stabile, specialmente se coesistono ipertensione arteriosa, disfunzione sistolica ventricolare sinistra (FE 40%), diabete o nefropatia cronica. Le stesse indicazioni sono riportate nelle linee guida statunitensi104. D’altra parte non tutti i trial clinici hanno dimostrato che gli ACE-inibitori riducono gli eventi fatali e non fatali anche nei pazienti con aterosclerosi e funzione ventricolare sinistra preservata.
3.2.3 Tempi di somministrazione
Le indicazioni per il trattamento precoce con ACE-inibitori nell’IMA derivano da dati di numerosi studi. In una revisione sistematica di dati su circa 100 000 pazienti inclusi in trial randomizzati controllati l’efficacia degli ACE-inibitori è stata valutata sulla mortalità cumulativa nei primi 30 giorni post-IMA105. La mortalità a 30 giorni era del 7.1% nei pazienti che assumevano ACE-inibitori e del 7.6% nei controlli, corrispondente ad una riduzione proporzionale del rischio del 7%. Il beneficio era particolarmente evidente nella categoria ad alto rischio (classi Killip 2 o 3, FC >100 b/min all’ingresso) e negli infarti a sede anteriore.

Il Panel ritiene che:
1. un bloccante del sistema renina-angiotensina debba essere somministrato precocemente e che sia ragionevole estendere la somministrazione a tutti i pazienti post-SCA indipendentemente dal rischio, e proseguirlo indefinitamente al massimo dosaggio tollerato;
2. un antialdosteronico debba essere somministrato ai pazienti che sviluppano disfunzione sistolica del ventricolo sinistro o SC nella fase acuta della SCA o durante il follow-up.
3.2.4 Dosaggi raccomandati
Il sottodosaggio dei farmaci è un problema comune a tutti i trattamenti dopo SCA. Gli ACE-inibitori sono sistematicamente sottodosati nella pratica clinica, con una dose giornaliera media che è pari al 25-50% di quella validata nei trial randomizzati controllati106. Il sottodosaggio ha effetti negativi sulla prognosi a distanza. È stato dimostrato che la mancata titolazione degli ACE-inibitori comporta un aumento degli eventi cardiovascolari nel tempo107.

Il Panel ritiene che nella fase immediatamente postospedaliera, che coincide con la ripresa dei ritmi di vita normali per i pazienti e con un incremento dei valori pressori rispetto a quelli rilevati nel corso della degenza, sia necessario eseguire una corretta titolazione dei farmaci bloccanti il sistema renina-angiotensina fino al dosaggio massimo tollerato, evitando fenomeni di ipotensione.
3.2.5 Target pressori
Le recenti linee guida della Società Europea dell’Ipertensione Arteriosa e della Società Europea di Cardiologia raccomandano un target pressorio <140/90 mmHg per tutti i pazienti indipendentemente dal livello di rischio108 con una sostanziale modifica rispetto alla precedente versione del 2009 nella quale valori <130/80 mmHg erano consigliati in pazienti con diabete, storia di malattia cardiovascolare o renale pregressa o danno d’organo. Tuttavia la relazione tra PA ed eventi cardiovascolari è lineare e continua senza soglia per valori <115/70 mmHg. Per ogni differenza di 20 mmHg di PA sistolica e/o approssimativamente di 10 mmHg di PA diastolica, il rischio di morte per cardiopatia ischemica e/o altre malattie cardiovascolari raddoppia 109. Nonostante le indicazioni delle linee guida che, in quanto basate esclusivamente su trial clinici randomizzati e metanalisi, includono popolazioni spesso significativamente differenti da quelle del mondo reale, le osservazioni di studi clinici indicano che, almeno in alcuni sottogruppi, è vantaggioso raggiungere un obiettivo pressorio più basso. Lo studio Cardio-Sis, ad esempio, ha dimostrato che, in pazienti non diabetici, ipertesi di media età con ipertrofia ventricolare sinistra al basale e scarso controllo della PA, gli eventi cardiovascolari a 2 anni erano significativamente ridotti nel braccio con trattamento intensivo (PA <130 mmHg) rispetto a quello con terapia conservativa (PA <140 mmHg) 110. Nello studio LIFE, la regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra era correlata con la riduzione pressoria indotta dal trattamento111. In pazienti con nefropatia diabetica dello studio IDNT la riduzione della PA sistolica <120 mmHg era correlata con una minore mortalità cardiovascolare112 e con una progressiva riduzione della proteinuria nella malattia renale terminale113.
Il fenomeno della curva a J, che sembra essere rilevante negli anziani114, rimane controverso in quanto riportato in alcuni studi115 ma non in altri116. Nonostante i limiti ed una forza di evidenza non elevata, le analisi post-hoc dei trial sembrano indicare una progressiva riduzione dell’incidenza degli eventi cardiovascolari con il progressivo abbassamento della PA sistolica per valori <120 mmHg e della PA diastolica <75 mmHg.

Il Panel ritiene che:
1. in accordo con le indicazioni delle linee guida il target pressorio <140 mmHg, debba essere perseguito in tutti i pazienti con cardiopatia ischemica cronica stabile;
2. tuttavia, in alcuni sottogruppi ad elevato rischio (ipertrofia ventricolare sinistra, disfunzione renale, diabete mellito, disfunzione ventricolare sinistra asintomatica) sia opportuno perseguire un target <130 mmHg, attraverso una titolazione dei farmaci (primariamente betabloccanti e bloccanti del sistema renina-angiotensina) al fine di raggiungere la dose massima tollerata e di individualizzare l’approccio al rischio residuo.
3.3 Trattamento antischemico
3.3.1 Nitrati
Il Panel osserva che le varie formulazioni di nitrati risultano largamente utilizzate nella pratica clinica quotidiana dei pazienti con recente SCA o cardiopatia ischemica cronica stabile; tuttavia, le ultime linee guida europee sulla gestione della cardiopatia ischemica cronica59 ritengono che l’utilizzo routinario dei nitrati a lunga durata d’azione per la gestione della sintomatologia anginosa debba essere rivalutato criticamente in ogni paziente. I nitrati, infatti, non hanno un’efficacia continua se assunti per un periodo prolungato, necessitano quindi di un intervallo libero dall’utilizzo e possono indurre un peggioramento della funzionalità endoteliale come potenziale complicanza.
3.3.2 Ranolazina
La ranolazina ha mostrato di essere di grado di ridurre i sintomi di angina in soggetti con ischemia miocardica cronica grazie alla capacità di bloccare la corrente lenta in entrata del sodio (INa), attraverso un meccanismo che, riducendo il sovraccarico di sodio e di calcio intracellulare, determina una riduzione del consumo di ATP e del fabbisogno (sia della domanda che dell’apporto) di ossigeno riducendo la disfunzione elettrica e meccanica legata all’ischemia117,118. Nello studio CARISA, la ranolazina ha aumentato, rispetto al placebo, del 43% il tempo di insorgenza di angina e del 69% il tempo di comparsa dell’ischemia all’ECG119. Nei pazienti con SCA/NSTEMI dello studio MERLIN-TIMI 36, la ranolazina ha significativamente ridotto gli episodi di ischemia ricorrente rispetto al placebo120.
Nel sottogruppo di pazienti con precedente diagnosi di angina l’endpoint primario (morte cardiovascolare, IMA o ischemia ricorrente) era ridotto in maniera significativa nel gruppo trattato121. Altri studi hanno dimostrato l’efficacia della ranolazina in sottogruppi di pazienti con angina e diabete mellito tipo 2122,123 e nelle donne124. Pertanto la ranolazina trova indicazione in pazienti con cardiopatia ischemica cronica stabile in combinazione con i farmaci tradizionali per il trattamento dei sintomi quando questi ultimi da soli siano insufficienti, inefficaci, controindicati o determinino effetti collaterali o indesiderati104. Nel 2009 l’EMA ha approvato la ranolazina come terapia aggiuntiva nel trattamento sintomatico dei pazienti con angina pectoris stabile non adeguatamente controllati con le terapie antianginose di prima linea, come i betabloccanti e/o i calcioantagonisti, o che non le tollerano125.
Le nuove linee guida europee sulla gestione della cardiopatia ischemica cronica59 riconsiderano il ruolo terapeutico della ranolazina, raccomandandone l’impiego nei pazienti sintomatici in aggiunta o in sostituzione (in caso di intolleranza/controindicazioni) a betabloccanti e/o calcioantagonisti e sottolineandone gli effetti benefici anche nei pazienti con angina microvascolare e gli effetti di riduzione dell’emoglobina glicata nei pazienti anginosi diabetici.
Alla luce di questi elementi, il controllo dei sintomi anginosi non può prescindere dai moderni approcci terapeutici che si sono resi disponibili e nella Figura 1 proponiamo la flow-chart per un\'ottimale gestione del paziente con cardiopatia ischemica cronica sintomatica.



Il Panel ritiene che, in accordo con le indicazioni delle linee guida:
1. la ranolazina trova indicazione in tutti i pazienti con persistenza di angina per il controllo dei sintomi anginosi in soggetti già trattati con betabloccanti;
2. la ranolazina può trovare indicazione in tutti i casi in cui si può supporre necessario il controllo dell’ischemia miocardica anche in assenza di sintomi tipici di angina pectoris da sforzo (rivascolarizzazione incompleta, diagnosi strumentale di ischemia inducibile non rivascolarizzabile o in territorio non esteso) o in sottogruppi in cui i sintomi sono di difficile o non univoca interpretazione (diabete mellito, donne).
3.4 Antiaggregazione piastrinica
La terapia antitrombotica, uno dei capisaldi del trattamento del paziente con SCA, richiede spesso scelte difficili soprattutto nelle prime fasi, quando le caratteristiche cliniche, le comorbilità e l’organizzazione territoriale dell’assistenza condizionano l’utilizzo di differenti farmaci, generalmente molto efficaci ma anche gravati da un non trascurabile rischio di complicanze emorragiche126-129. L’identificazione del farmaco antiaggregante, o dell’associazione di farmaci migliore per il singolo paziente, deriva dall’evidenza di numerosi trial clinici randomizzati pubblicati negli ultimi anni; su queste evidenze scientifiche si basano le raccomandazioni delle recenti linee guida internazionali per il trattamento delle SCA, alle quali si rimanda per una analisi approfondita57-59. È stato recentemente pubblicato un documento congiunto ANMCO-GISE sulla terapia antiaggregante nelle SCA al quale si farà riferimento nei paragrafi successivi130.
L’attivazione delle piastrine e la loro successiva aggregazione hanno un ruolo chiave nella formazione del trombo, soprattutto laddove si realizza la rottura di placche aterosclerotiche, momento patogenetico fondamentale delle SCA. La terapia antiaggregante piastrinica deve essere istituita, quindi, il più presto possibile e mantenuta per un periodo di tempo variabile nel corso del follow-up cardiovascolare.
L’aggregazione delle piastrine può essere inibita da varie classi di farmaci, ognuna delle quali ha un distinto meccanismo d’azione. L’aspirina è ancora il farmaco di prima scelta per i pazienti con SCA e deve essere associata ad altri agenti antipiastrinici. Infatti, nel contesto delle SCA, il legame dell’ADP al recettore piastrinico P2Y12 svolge un ruolo importante nell’attivazione ed aggregazione piastrinica, amplificando la risposta iniziale al danno vascolare. Gli antagonisti del recettore P2Y12 sono, quindi, oggi strumenti terapeutici insostituibili. Le tienopiridine, come ad esempio il clopidogrel, sono attivamente biotrasformati in molecole che si legano irreversibilmente al recettore P2Y12. Nonostante numerosi trial clinici abbiano dimostrato come la doppia antiaggregazione con aspirina e clopidogrel riduca in maniera significativa il rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti con SCA, alcuni soggetti permangono a rischio di eventi trombotici. Questo fenomeno è in parte attribuibile al fenomeno della resistenza farmacologica con conseguente elevata attività piastrinica residua, dovuta a un’insufficiente inibizione dell’aggregazione. La resistenza farmacologica al clopidogrel si manifesta in circa il 30% dei casi ed è un fenomeno multifattoriale, attribuibile a fattori genetici (polimorfismi per enzimi e recettori), fattori clinici e fattori cellulari.
Le implicazioni cliniche della resistenza al clopidogrel e delle interazioni farmacologiche hanno favorito lo sviluppo di nuovi farmaci antipiastrinici, come il prasugrel valutato nel trial TRITON-TIMI 38 ed il ticagrelor, valutato nel trial PLATO, in entrambi i casi confrontandoli con il clopidogrel.
Sebbene entrambi i trial abbiano dimostrato un beneficio del farmaco attivo rispetto al clopidogrel in termini di morte per cause cardiovascolari, IMA ed ictus a 12 mesi, è necessario sottolineare che la maggiore incidenza di sanguinamenti spontanei maggiori nel gruppo attivo di entrambi i trial si è osservata dopo il primo mese di trattamento131,132. Questo fenomeno trae la sua plausibilità biologica dal fatto che nella fase post-acuta delle SCA, quando il rischio trombotico si riduce, farmaci efficaci possono slatentizzare il rischio emorragico ad essi associato e/o dall’evidenza che l’incidenza di “non-responder” al clopidogrel si riduce drasticamente proprio dopo il primo mese dall’evento acuto133. Probabilmente la sfida futura è identificare, nell’ambito delle SCA, i sottogruppi a rischio molto diverso tra loro, come i soggetti a maggior rischio di eventi trombotici ricorrenti che possono beneficiare di una terapia antiaggregante altamente efficace a lungo termine134 e quelli che, nonostante la SCA, presentano un rischio trombotico talmente basso o un rischio emorragico così alto da poter essere trattati con un regime antiaggregante meno intensivo, sia in termini di preparato che di durata del trattamento. A tale proposito, una strategia efficace potrebbe essere quella di ridurre il trattamento con doppia antiaggregazione piastrinica eliminando l’aspirina piuttosto che un farmaco inibitore del recettore piastrinico P2Y 12 di nuova generazione. Se il trattamento cronico con aspirina possa essere ridotto o sospeso dopo impianto di stent a fronte di un’antiaggregazione più efficace e prolungata con un nuovo inibitore del recettore piastrinico P2Y12 è oggetto del trial multicentrico in corso GLOBAL LEADERS.
Ad oggi, secondo le attuali indicazioni, la doppia terapia antiaggregante deve essere prescritta per 1 anno dopo la SCA e si deve attuare ogni misura per garantire la più elevata aderenza terapeutica a lungo termine (per cui si rimanda ai paragrafi successivi).

Alla luce delle attuali evidenze, il Panel raccomanda:
1. l’aspirina deve essere somministrata a tutti i pazienti con SCA senza controindicazioni a una dose di 75-100 mg/die a lungo termine, indipendentemente dalla strategia di trattamento adottata in fase acuta;
2. un inibitore del recettore piastrinico P2Y12 deve essere aggiunto all’aspirina al più presto possibile e mantenuto per 12 mesi. I nuovi inibitori del recettore piastrinico P2Y12 devono essere sempre preferiti al clopidogrel, salvo controindicazioni e nei pazienti che devono assumere vecchi o nuovi anticoagulanti orali;
3. data l’importanza della doppia antiaggregazione, la cui interruzione è gravata dopo una SCA da rischi più elevati rispetto all’interruzione di altri trattamenti farmacologici raccomandati e, soprattutto nei primi mesi, da rischio elevato di recidive ischemiche e trombosi di stent, il Panel raccomanda fortemente di discutere prima della dimissione il significato di questo trattamento farmacologico e di esporre chiaramente nella lettera di dimissione la necessità di proseguirlo fino a parere contrario dei cardiologi referenti o in caso di sanguinamenti importanti.

Dati sul mondo reale provenienti dall’Osservatorio ARNO135 documentano infatti come l’aderenza alla doppia antiaggregazione nei primi 6 mesi sia del 75% nei pazienti sottoposti a PTCA per una SCA ma crolli al 28.8% nei pazienti non rivascolarizzati. Dopo i primi 6 mesi l’aderenza globale alla doppia antiaggregazione si riduce dal 68.9% del primo semestre al 53.8%, testimoniando l’esistenza di un grave problema di aderenza alla terapia antiaggregante.
3.5 Stabilizzazione della placca/controllo
dell’assetto lipidico
3.5.1 I target metabolici
Numerosi trial clinici randomizzati, confermati da successive metanalisi136,137, hanno dimostrato i benefici della terapia con alte dosi di statine dopo SCA. Sulla base di queste evidenze le linee guida hanno consigliato il raggiungimento di precisi target di colesterolo LDL57-60,138-141. Nello STEMI sia le linee guida europee (classe IA)57 sia quelle americane (classe IB)142 raccomandano alte dosi di statine. Nella cardiopatia ischemica stabile, invece, le linee guida europee raccomandano genericamente l’uso di statine (classe IA)59, mentre quelle americane specificano l’indicazione all’uso di dosi moderate o alte (classe IA)104. Secondo le linee guida europee sulla dislipidemie142, le statine dovrebbero essere prescritte alla dose massima raccomandata, o comunque a quella tollerabile per raggiungere il target. Nei pazienti con cardiopatia ischemica, e quindi considerati a rischio molto alto (colesterolo LDL target <70 mg/dl), il trattamento farmacologico immediato è sempre raccomandato se il colesterolo LDL supera 100 mg/dl, mentre può essere preso in considerazione se esso è <70 mg/dl58. Come è noto dalla letteratura, differenti molecole e diversi dosaggi della stessa molecola riducono il colesterolo LDL in modo quantitativamente differente: farmaci di più recente introduzione, come la rosuvastatina, e l’associazione di statine tradizionali con agenti inibitori dell’assorbimento intestinale di colesterolo, quale l’ezetimibe, si sono dimostrati i più efficaci nel ridurre i livelli di colesterolo LDL (anche >50% rispetto al valore basale) con effetti collaterali spesso inferiori a quelli determinati da statine meno efficaci. Le linee guida forniscono inoltre indicazioni utili per la gestione pratica degli effetti collaterali 141: in caso di intolleranza alle statine si può prendere in considerazione l’uso di acido nicotinico e sequestranti biliari (sebbene con ridotte probabilità di raggiungere il target di colesterolo LDL), mentre l’uso di ezetimibe deve essere considerato sia in caso di intolleranza alle statine sia nel caso il target non venga raggiunto alla loro dose massima tollerabile141. L’utilizzo dell’ezetimibe, in associazione a statina in formula precostituita o estemporanea, è stata recepita anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) nella nota 13, per quei pazienti in prevenzione secondaria che non sono a target con la sola statina: questo in virtù della dimostrata capacità di ezetimibe di potenziare in maniera rilevante la riduzione dei livelli ematici di colesterolo LDL indotta dalla sola statina, attraverso la concomitante inibizione dell’assorbimento intestinale di colesterolo. Inoltre, sulla base dei dati dello studio SHARP l’associazione ezetimibe-statina è il trattamento raccomandato nei pazienti con insufficienza renale cronica 143.
Il momento del passaggio dalla fase acuta alla cronicità amplifica la controversia tra le strategie basate su alti dosaggi/alta efficacia e quella basata sui target. Le recentissime linee guida statunitensi sul trattamento dell’ipercolesterolemia hanno criticato la validità delle prove basate sui trial clinici atte a supportare il beneficio derivante dal raggiungimento di specifici target per il colesterolo LDL, arrivando a negare l’opportunità di un loro utilizzo nella pratica clinica quotidiana: piuttosto, viene proposta un’appropriata intensità di trattamento con statine, per ridurre il rischio cardiovascolare nei soggetti con maggiore probabilità di beneficio, come i coronaropatici 144. In questi pazienti, queste linee guida suggeriscono l’uso di statine ad alta intensità (riduzione di colesterolo LDL di circa il 50% rispetto al valore basale) se <75 anni e di moderata intensità (riduzione di colesterolo LDL da 30% a 50%) sopra i 75 anni144. Questa strategia è stata fortemente contestata sia da associazioni scientifiche statunitensi, che dalle società scientifiche europee (ESC-EACPR) e nazionali (FIC) con la pubblicazione di documenti nei quali la validità scientifica dei target di coleterolo LDL e l’opportunità di raggiungerli e mantenerli, in particolare dopo SCA, sono state decisamente ribadite.
L’ampia indicazione al trattamento con statine ha posto ovviamente preoccupazioni di natura economica, con conseguenti vincoli normativi. Tuttavia nei pazienti coronaropatici il problema è soprattutto quello del sottotrattamento. Anche se una significativa quota di pazienti viene dimessa dopo SCA in terapia con statine, infatti, se si analizzano le prescrizioni farmacologiche, meno del 50% è costituito da sostanze ad alta efficacia (e anche in questi casi i dosaggi elevati sono prescritti solo in meno del 20% dei casi); questi comportamenti riducono fortemente la possibilità di raggiungere e mantenere i target lipidici raccomandati 145.
Nell’impossibilità di calcolare o misurare direttamente il colesterolo LDL, il colesterolo non HDL sembra avere un analogo significato prognostico57,145; generalmente il valore target di colesterolo non HDL è 30 mg/dl più alto rispetto a quello di colesterolo LDL (cioè 100 mg/dl nel caso dei pazienti con SCA). Secondo le linee guida americane, nei pazienti che continuano ad avere un elevato colesterolo non HDL nonostante terapia con statine efficaci a dosi appropriate, sarebbe ragionevole l’uso di niacina o fibrati o acidi grassi polinsaturi (generalmente indicati come PUFA od omega-3)146.
3.5.2 Acidi grassi polinsaturi
Sulla base dei risultati dello studio GISSI-Prevenzione147 vi sono evidenze di un effetto significativamente favorevole della somministrazione degli omega-3 sugli eventi fatali e non fatali dopo IMA; l’effetto è indipendente dalla riduzione dei livelli sierici di trigliceridi, eventualmente indotta dal farmaco.

Pertanto gli omega-3 sono indicati per i pazienti dopo cardiopatia ischemica e in particolare secondo la recente nota 94 dell’AIFA, sono raccomandati alla dose di 1 g/die nei pazienti con recente SCA (sia STEMI che NSTEMI), per un periodo variabile in base alla FE alla dimissione, da 12 mesi (FE >40%) a 18 mesi (FE <40%).

Ad oggi, sebbene bassi livelli di colesterolo HDL (<40 mg/dl negli uomini e <45 mg/dl nelle donne) siano indipendentemente associati a una maggior probabilità di eventi e morte nei pazienti dopo evento coronarico, nonostante siano stati raggiunti i livelli target di colesterolo LDL, nessun trial clinico ha determinato specifici valori ottimali per il colesterolo HDL60,141, né sono disponibili trattamenti farmacologici efficaci e allo stesso tempo sicuri.
Allo stesso modo, anche se il ruolo dei trigliceridi come fattore indipendente di rischio cardiovascolare è ancora in discussione, sono considerati desiderabili valori <150 mg/dl. Le evidenze sui benefici di ridurre elevati trigliceridi sono modeste e a oggi nessun target specifico è stato determinato in trial clinici57,140. È comunque opportuno sottolineare che le statine ad alta efficacia sono in grado di ridurre, seppur modestamente, i trigliceridi e il colesterolo non HDL, incrementando così il colesterolo HDL148.
I nutraceutici, specie quelli contenenti fitosterolo, riducono i livelli di colesterolo LDL di circa il 10% e i loro effetti si sommano a quelli delle statine, ma allo stato attuale non esistono studi con endpoint clinici60. Va invece sottolineata l’importanza della dieta e dell’esercizio fisico anche in associazione ai trattamenti farmacologici (vedi oltre).
Per quanto riguarda i target glicemici, infine, una metanalisi di 5 trial prospettici su oltre 33 000 pazienti ha dimostrato che un trattamento ipoglicemizzante intensivo, in confronto a quello standard, riduce significativamente gli eventi coronarici ma non la mortalità nei pazienti diabetici ad alto rischio149. Pertanto un valore di emoglobina glicata <7% dovrebbe essere preso in considerazione per la prevenzione degli eventi cardiovascolari nei diabetici150.
Sulla base delle evidenze cliniche attuali, il Panel ritiene che i target di colesterolo LDL e, quando questo non è disponibile, di colesterolo non HDL, di 70 mg/dl e 100 mg/dl rispettivamente, rimangano un obiettivo fondamentale da raggiungere e mantenere dopo SCA, rappresentando, insieme a quelli già enunciati, obiettivi irrinunciabili degli approcci farmacologici della prevenzione secondaria.
Il Panel sottolinea come negli studi sui costi dell’assistenza nel periodo successivo alla dimissione dopo una SCA in Italia135, l’85% del costo complessivo sia da attribuire alle nuove ospedalizzazioni e solo l’11% alla spesa farmaceutica e il 4% all’assistenza specialistica. La popolazione dimessa dopo una SCA non rappresenta certamente un gruppo su cui esercitare strategie di risparmio sul costo dei farmaci, per il rischio clinico elevato, per l’elevato numero di nuovi ricoveri e l’insoddisfacente aderenza alla terapia, a questi nuovi ricoveri sicuramente collegata. Una strategia di riduzione dei costi dovrebbe invece prevedere la promozione dell’aderenza alle terapie raccomandate dopo una SCA con l’obiettivo di una riduzione delle riospedalizzazioni, e la verifica delle corrette indicazioni al trattamento farmacologico in prevenzione secondaria.

La Tabella 3 riassume i trattamenti raccomandati e gli obiettivi della terapia farmacologica per i pazienti dopo SCA.



4. PROMOZIONE DELL’ADERENZA ALLA TERAPIA FARMACOLOGICA E PREVENZIONE SECONDARIA NON FARMACOLOGICA
La prevenzione secondaria non farmacologica e la promozione dell’aderenza alla terapia rivestono un ruolo importante nel ridurre il rischio di recidive ischemiche e di mortalità dopo una SCA151. Le survey EUROASPIRE hanno evidenziato gli scarsi progressi degli ultimi anni in questo campo e sottolineato la necessità di incrementare il livello d’azione per il mutamento degli stili di vita dopo una SCA152, mentre l’Osservatorio ARNO in Italia ha evidenziato la scarsa aderenza anche alle prescrizioni farmacologiche più importanti come la doppia antiaggregazione piastrinica135. È d’altra parte dimostrato dal programma di prevenzione secondaria cardiologica EUROACTION che interventi ambulatoriali multidisciplinari, coordinati da infermieri con formazione adeguata e basati sul coinvolgimento delle famiglie, siano in grado di modificare positivamente le abitudini di vita ed incrementare l’aderenza alla terapia153.
4.1 Fumo
Il tabagismo è una dipendenza definita nel 1978 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come: “... stato psichico e talvolta fisico risultante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza, caratterizzato da modificazioni del comportamento o reazioni che determinano la compulsione ad assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, per sperimentare i suoi effetti psichici e per evitare gli effetti di privazione ...”. La dipendenza da fumo è una malattia cronica e recidivante. La maggioranza dei fumatori continua a fumare per molti anni e, di solito, alterna periodi di remissione e di ricaduta. Per queste sue caratteristiche, così come avviene per l’ipertensione arteriosa o la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la dipendenza da fumo richiede una cura continua, attraverso il counseling, il sostegno e la farmacoterapia154,155.
È dimostrato che dopo SCA la sola ripresa del fumo in pazienti in terapia farmacologica ottimale e adeguato stile di vita determini il raddoppio del rischio di avere nel primo anno un nuovo evento maggiore, quale morte per causa cardiaca, recidiva coronarica, ictus151, ed aumenti fino a 3 volte il rischio di reinfarto156. Nel registro tedesco DES.DE, dopo un IMA trattato con PTCA e stent medicato, nei fumatori il rischio di eventi era circa 2 volte maggiore che nei non fumatori157. Anche nei 28 421 pazienti con STEMI e SCA-NSTEMI del KAMIR Registry la persistente abitudine al fumo risultava essere una variabile indipendente predittiva di reinfarto158.
L’abolizione del fumo ha invece un documentato effetto di riduzione degli eventi dopo una SCA. Nel SAVE, studio noto per la riduzione del 20% della mortalità ottenuta con gli ACE-inibitori in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra post-IMA, l’abolizione del fumo nei fumatori determinava a 6 mesi una riduzione della mortalità ben maggiore (43%)159. In generale il vantaggio derivante dall’interruzione del fumo dopo una SCA nei diversi studi o rassegne è espresso da un rapporto di rischio compreso tra 0.63 e 0.75160,161. Recentemente un’analisi retrospettiva accurata compiuta in Gran Bretagna nell’ambito del progetto di audit MINAP ha documentato una riduzione del rischio di morte ancora maggiore nei pazienti che smettevano di fumare dopo una SCA rispetto ai fumatori persistenti, con un odds ratio di 0.49162. È da tenere presente che il rapporto di rischio si riduceva ancora di più quando negli studi la persistenza al fumo veniva stabilita con esattezza mediante la determinazione della cotinina serica163.

Sulla base di questi dati, il Panel ritiene che la persistente abitudine al fumo caratterizzi una condizione di alto rischio trombotico dopo una SCA ed indichi la necessità di avviare i pazienti ad un percorso di prevenzione secondaria intensiva strutturato con uno specifico programma antifumo.
L’ambiente ospedaliero deve essere interessato per primo, durante il periodo di ricovero e alla dimissione, da interventi specifici sul tabagismo. Gli interventi di primo livello sono offerti da personale sanitario, medico e non, durante il ricovero e alla dimissione a tutti i pazienti fumatori.
Gli interventi di secondo livello sono offerti di preferenza in ambulatori di prevenzione secondaria specializzati nel trattamento antifumo, per situazioni di dimostrata persistenza del fumo o di sua recidiva dopo la dimissione da un ricovero per SCA. La persistenza dell’abitudine al fumo richiede infatti interventi complessi per aumentare in modo significativo il tasso di astinenza a lungo termine.
A causa della resistenza alla cessazione del fumo, anche dopo un evento coronarico, possono essere rivolte al personale sanitario svariate richieste con le quali il fumatore cerca di ottenere informazioni “rassicuranti” per la sua dipendenza, quali il mantenimento di una limitata quantità di sigarette giornaliere. In linea generale, la riduzione del numero di sigarette fumate può essere presa in considerazione come momento di passaggio verso la completa astensione per quei soggetti che non intendono smettere di fumare, tenendo presente però che coloro che riducono il numero di sigarette, invece che smettere completamente, hanno un’elevata probabilità di riprendere il numero abituale. Non esiste inoltre una chiara prova che la riduzione porti a un reale vantaggio in termini di salute, oltre a non essere proponibile per pazienti con malattia coronarica: ad esempio, la limitazione a 5 sigarette giornaliere oltre a determinare una facilitazione alla ripresa della quantità di sigarette abituale, non riduce il rischio coronarico, in quanto la dose inalata è sufficiente per produrre effetti biologici avversi (effetti su aggregazione piastrinica), mentre il consumo di sigarette cosiddette leggere (a basso contenuto di nicotina e catrame) non comporta una minore entità del rischio.
Alcune revisioni della Cochrane Collaboration hanno riportato risultati favorevoli degli interventi psicosociali (comportamentali, supporto telefonico e self-help) nel trattamento del tabagismo e degli interventi iniziati in ambito ospedaliero e con supporto di almeno 1 mese dopo la dimissione nei pazienti ricoverati per qualsiasi patologia.
Rimane tuttavia aperto ed irrisolto il problema dell’efficacia degli interventi da effettuare per pazienti ricoverati per evento coronarico acuto che abbiano fumato fino all’evento stesso. In primo luogo è indispensabile che il problema venga affrontato già durante il ricovero e, nel contesto della dimissione, quando il soggetto è inevitabilmente più ricettivo164. I programmi di counseling infermieristico proposti negli ospedali italiani si sono finora dimostrati inadeguati, in quanto disomogenei e non basati su interventi strutturati e pianificati; lo stesso vale per gli interventi effettuati in ospedale o dal medico di medicina generale.
Il paziente deve sempre essere invitato a modificare la situazione ambientale: il fumatore ha associato il fumare con infinite situazioni e comportamenti, e smettere di fumare significa imparare a vivere le stesse situazioni da ex fumatore. È normale che l’ex fumatore anche dopo mesi, in particolari situazioni ambientali o emotive, possa avere una violenta crisi di astinenza, per cui gli va ricordato che i sintomi hanno un naturale decremento con il passare del tempo ma possono ripresentarsi in modo improvviso in seguito a stimoli ambientali. Quando torna a casa quindi è fondamentale che l’ambiente familiare e lavorativo siano il più possibile “liberi da fumo” e da richiami al fumo. Deve essere inoltre comunicato al paziente che la ricaduta è parte della storia naturale di tutte le dipendenze e non deve essere vissuta come un fallimento o come la dimostrazione di “poco carattere”. La raccomandazione da dare a chi dovesse ricominciare a fumare è quella di tornare tempestivamente dal cardiologo, o dal medico di famiglia, per essere aiutato.
Se il paziente con SCA è fumatore, si dovrà quindi:
a) fornire un efficace intervento di primo livello anche mediante figure professionali non mediche, in particolare gli infermieri, i quali devono dare un primo consiglio ai fumatori con cui vengono in contatto durante la loro attività professionale. È utile a questo scopo che gli infermieri ricevano preventivamente una formazione per il counseling specifico sul fumo;
b) rilevare il grado di dipendenza ed accertare la persistenza o la recidiva dell’abitudine al fumo in occasione del primo controllo ambulatoriale a 30 giorni;
c) svolgere su ogni paziente tabagista un intervento per favorire la cessazione del fumo, basato sul counseling infermieristico e medico e sull’uso eventuale dei farmaci raccomandati per la cessazione e la prevenzione delle recidive. Ci sono farmaci di prima linea (presidi non nicotinici e nicotinici) che aumentano i tassi di astinenza a lungo termine: tra questi, i maggiormente utilizzati sono vareniclina, bupropione, nicotina (assunta tramite inalatore, compresse, cerotto transdermico, gomma da masticare). Al momento il trattamento con vareniclina è quello che ha mostrato maggiori successi nel mantenere l’astinenza dopo cessazione, mentre si sono dimostrate di limitata efficacia tutte le terapie sostitutive a base di nicotina.

In sintesi, per un efficace intervento sul fumo, il Panel ritiene fondamentale:
1. informare tutti i pazienti sul rischio fumo, durante il ricovero per SCA e alla dimissione;
2. realizzare mediante un’apposita formazione le competenze infermieristiche per un counseling dedicato;
3. rilevare al controllo precoce dei 30 giorni il grado di dipendenza (es. test di Fagenstrom) e l’eventuale persistenza o recidiva del fumo;
4. raccomandare di rivolgersi al medico curante o al cardiologo in caso di recidiva nel periodo successivo;
5. strutturare per i pazienti con persistenza o recidiva del fumo percorsi predefiniti e privilegiati negli ambulatori di prevenzione secondaria intensiva o nelle CR ambulatoriali o in specifici centri dedicati (centri antifumo).
4.2 Attività fisica
“Considerare l’attività fisica alla stregua di un farmaco”. È questo l’obiettivo a cui bisogna mirare per garantire a tutti i pazienti, dopo una SCA, i benefici che un regolare esercizio fisico, opportunamente modulato sulle caratteristiche del singolo individuo, può garantire.
Numerosi studi hanno evidenziato come l’esercizio fisico sia in grado di intervenire sul profilo di rischio dei pazienti, determinando un incremento della probabilità di sopravvivenza, una riduzione della recidiva di nuovi eventi coronarici, un incremento della capacità funzionale dei pazienti con conseguente innalzamento della soglia ischemica, riduzione dei sintomi e miglioramento della qualità di vita.
I meccanismi fisiologici alla base di questi benefici risiedono fondamentalmente nella capacità dell’esercizio fisico di ridurre i valori di FC e PA di base e durante sforzo, di migliorare la contrattilità miocardica e la vasodilatazione endotelio-dipendente, incrementando la produzione e il rilascio di ossido nitrico, favorendo il flusso coronarico e stimolando la formazione di vasi collaterali e la densità dei capillari miocardici165. L’esercizio fisico è in grado inoltre di stimolare il sistema fibrinolitico e può essere considerato un potente antinfiammatorio riducendo i valori di protein C-reattiva e di resistina ed incrementando quelli di adiponectina. Altre azioni favorevoli vengono svolte in via indiretta migliorando il profilo di rischio dei pazienti, incidendo sui tradizionali fattori di rischio con una riduzione dei valori di colesterolo totale e LDL, un incremento del colesterolo HDL, una riduzione dei valori pressori, un incremento della sensibilità all’insulina.
Di fatto la probabilità di sopravvivenza dei pazienti dopo una SCA, indipendentemente dal sesso e dall’età, può essere stratificata in base al livello di attività fisica svolta. Sono sufficienti incrementi anche lievi del proprio livello di fitness per determinare significativi incrementi della sopravvivenza166.
Le linee guida di tutte le società scientifiche europee ed americane hanno quindi inserito l’attività fisica (classe 1A), tra i caposaldi della prevenzione secondaria, raccomandando ai cardiologi di incoraggiare i pazienti a svolgere tra 30 e 60 min di attività fisica aerobica preferibilmente tutti i giorni140,167. Purtroppo, di fatto, è ancora scarso il livello di aderenza a tale raccomandazione, spesso non esplicitata nelle lettere di dimissione, né tanto meno consigliata verbalmente. Probabilmente ciò è dovuto in parte alla scarsa conoscenza dei benefici dell’attività fisica ed in parte all’errato convincimento che la prescrizione dell’attività fisica in un cardiopatico ischemico possa avvenire soltanto al termine di un ciclo di riabilitazione cardiologica. Se consideriamo che, dai dati del BLITZ-4 35, soltanto il 20% circa dei pazienti dopo SCA in Italia effettua un ciclo di riabilitazione cardiologica, una interpretazione così restrittiva di fatto escluderebbe la maggior parte dei pazienti dai benefici dell’attività fisica.
Risulta pertanto evidente che vanno definite strategie che consentano di prescrivere a tutti i pazienti in esito ad una SCA un’attività fisica adeguata al loro profilo di rischio e differenziata in funzione della condizione precedente, sedentarietà o meno, della terapia prescritta ed in base all’età168.
Un’attività fisica moderata, cioè ad un livello di intensità compreso tra 4 e 6 METS (corrispondente ad un consumo di ossigeno tra 14 e 21 ml/kg), può essere consigliata a tutti pazienti a basso rischio, per i quali non è necessario un test da sforzo preliminare. Nei soggetti a rischio più elevato si consiglia di far precedere la prescrizione dell’attività fisica a un test da sforzo. In questa categoria di pazienti risulta però evidente che un ciclo di riabilitazione cardiologica possa essere la risposta più convincente per affrontare nel modo più appropriato i bisogni del paziente, che al termine riceverà una prescrizione di attività fisica tagliata su misura sulle sue caratteristiche, in base ai dati emersi durante le sessioni di training 169.
Va quindi assolutamente sottolineato, sin dal momento della dimissione, l’importanza che il cardiologo prescriva e che il paziente “assuma” quotidianamente una certa dose di attività fisica, dedicando ad essa risorse che verranno consigliate in base al profilo di rischio dei pazienti64.
Vanno poi definiti protocolli che consentano di mantenere i risultati a distanza, attraverso l’aderenza nel tempo del paziente alle raccomandazioni sullo svolgimento di regolare attività fisica. Recenti evidenze hanno infatti dimostrato come l’aderenza a 6 mesi ad un programma di attività fisica consenta di ridurre in maniera significativa la probabilità di nuovi eventi coronarici151. È opportuno pertanto realizzare un percorso strutturato ospedale-territorio che garantisca ai pazienti in stabilità clinica la possibilità di proseguire il training in sicurezza in ambiente extraospedaliero.
Il modello organizzativo che potrebbe garantire l’aderenza all’esercizio fisico nella fase cronica delle cardiopatie dovrebbe prevedere:
a) una collaborazione tra le cardiologie ospedaliere, i centri di CR e i medici di medicina generale, finalizzata alla prescrizione di un programma personalizzato di esercizio fisico;
b) la creazione di un network di strutture sul territorio idonee ad accogliere i pazienti che devono praticare l’esercizio fisico prescritto;
c) un programma di follow-up.

Alla luce di quanto detto, per una maggiore diffusione dell’uso e dell’efficacia dell’attività fisica nella prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari, il Panel ritiene fondamentale:
1. prescrivere attività fisica moderata a tutti i soggetti a basso rischio (nei quali non è necessaria una prova da sforzo prima della ripresa dell’attività fisica), esplicitandola con chiarezza nella lettera di dimissione e personalizzandola;
2. eseguire una prova da sforzo prima della prescrizione di attività fisica nei soggetti ad alto rischio o prima di programmi di allenamento fisico;
3. differenziare la prescrizione dell’attività fisica in base alla condizione precedente la SCA (sedentarietà o meno) e in base all’età.
4.3 Alimentazione
Le azioni per la modifica degli stili di vita inadeguati si realizzano in molte dimensioni. In questa prospettiva, l’adozione di scelte alimentari appropriate appare ormai da tempo una componente centrale del progetto di cura per la prevenzione e riduzione di nuovi eventi cardiovascolari60,170. L’attenzione agli aspetti nutrizionali e alla modificazione dello stile di vita sono oltretutto essenziali per ridurre i fattori di rischio, quali obesità, diabete, ipertensione, dislipidemia, spesso coesistenti.
È necessario quindi comunicare al paziente la consapevolezza delle difficoltà di ogni modifica ma anche la possibilità che questo avvenga, insistendo su alcuni aspetti fondamentali:
a) ogni cambiamento è un percorso complesso: presenta diverse difficoltà e richiede motivazione, tempo, pazienza, disponibilità. Per cambiare è necessario porsi obiettivi raggiungibili, avere fiducia nelle proprie capacità e, magari, trovare accanto persone (familiari, professionisti sanitari) di aiuto durante questo cammino;
b) cambiare le proprie abitudini alimentari è difficile: si sono costruite nel tempo, hanno a che fare con la storia personale e dipendono da tanti elementi; il bisogno di alimentarsi, infatti, non è soltanto una necessità del corpo, ma è influenzato da fattori economici, sociali, ambientali, psicologici, affettivi, ecc.;
c) cambiare abitudini alimentari è possibile: soprattutto trovando un equilibrio tra senso della misura e gusto, senza identificare il benessere alimentare come risultato di divieti e prescrizioni.
In pazienti con patologia cardiovascolare è stato da tempo dimostrato l’effetto protettivo della dieta Mediterranea. La popolazione globale di soggetti provenienti dai paesi partecipanti allo studio EPIC con una precedente diagnosi di infarto del miocardio e seguiti per un periodo di follow-up di circa 7 anni, ha mostrato che un incremento di due unità nel punteggio di aderenza alla dieta Mediterranea si associava a una riduzione del 18% della mortalità171.
Al momento della dimissione dopo SCA, un’informazione non strutturata e professionale, anche se ritenuta indispensabile, non possiede prove di efficacia nel poter indurre modifiche sui comportamenti alimentari. Tuttavia fornire indicazioni semplici, fruibili dal paziente e basate su contenuti scientificamente corretti, rappresenta una delle azioni irrinunciabili da parte del personale sanitario ospedaliero. Le raccomandazioni per una sana alimentazione possono essere riassunte nei seguenti punti ispirati a quanto proposto dall’Associazione Nazionale dei Dietisti:
– ad ogni pasto principale inserire almeno una porzione di cereali e derivati (pane, pasta, riso ,mais) privilegiando prodotti integrali e a ridotto contenuto in grassi;
– a tavola ricordarsi di non far mai mancare 2 o più porzioni tra verdura e frutta, per un totale di 4-5 porzioni al giorno, dando la preferenza a prodotti di stagione possibilmente a filiera corta;
– limitare il consumo di prodotti di origine animale quali carne rossa, affettati e insaccati a 2-3 volte al mese. A pranzo e a cena, alternare la varietà dei secondi piatti privilegiando il pesce (ottimo quello azzurro) 2 -3 volte a settimana, la carne bianca 3-4 volte, le uova 1 volta e i formaggi 2 volte;
– introdurre nell’alimentazione i legumi secchi o freschi (ceci, fagioli, lenticchie, fave, piselli) almeno 2 volte a settimana;
– comporre 1-2 volte la settimana un piatto vegetariano che utilizzi insieme ai cereali, frutta oleosa come noci e mandorle e che, accompagnato da una porzione di verdura e frutta fresca, possa rappresentare un pasto completo;
– preferire l’olio extravergine d’oliva sia per la cottura che come condimento a crudo;
– ricordare di leggere gli ingredienti e le etichette nutrizionali dei prodotti confezionati (soprattutto precotti/surgelati e dolci industriali) che possono contenere grassi idrogenati e grassi saturi;
– pianificare, per quanto possibile, il menù settimanale e fare la spesa seguendo una lista degli acquisti preparata a casa. Non lasciarsi suggestionare dalle campagne di marketing che invitano ad acquistare sottocosto prodotti alimentari non realmente necessari;
– ridurre al minimo il consumo di bevande e cibi con zucchero aggiunto e preparare le pietanze con poco sale;
– se si fa uso di alcool, farlo con moderazione. Ricordarsi che la quantità massima di vino al giorno per gli uomini è di un bicchiere a pasto e di mezzo bicchiere a pasto per le donne;
– non saltare i pasti;
– controllare le quantità cercando di non superare le porzioni consigliate.
Per ottimizzare l’intervento sull’alimentazione, il Panel ritiene fondamentale:
1. alla dimissione informare tutti i pazienti sulla corretta alimentazione;
2. rilevare le abitudini o le difficoltà alle modifiche (es. situazione socio-economica);
3. fornire indicazioni semplici ma specifiche sulla scelta degli alimenti;
4. non prescrivere diete.
4.4 Aderenza alla terapia
Numerose osservazioni cliniche dimostrano un diffuso sottoutilizzo dei trattamenti farmacologici raccomandati nelle linee guida internazionali per la cura delle malattie cardiovascolari. Questo sostanziale deficit d’intervento comporta il mancato raggiungimento degli obiettivi terapeutici e deriverebbe da un complesso intreccio di fattori legati tanto al funzionamento del sistema sanitario, quanto al comportamento individuale dei singoli pazienti172-176.
Nonostante la sua importanza, l’aderenza alla terapia si presenta come un comportamento individuale del singolo paziente sostanzialmente privo di una definizione universalmente accettata177. I comportamenti anomali tenuti dai pazienti rispetto alla terapia farmacologica possono includere diversi aspetti:
a) assunzione erronea o consapevole di farmaci in dosaggi diversi ed inferiori a quelli prescritti (sottodosaggio);
b) riduzione erronea o consapevole del numero delle somministrazioni dei singoli farmaci;
c) omissione parziale o completa della terapia farmacologica per diversi periodi di tempo (vacanza terapeutica);
d) completa interruzione del trattamento farmacologico (mancata persistenza terapeutica).
In generale, si deve ritenere che il paziente sia effettivamente aderente alle prescrizioni terapeutiche quando assume i farmaci correttamente, tanto in termini di quantità (posologia corretta) che di durata (persistenza nella terapia). La mancata aderenza viene generalmente classificata in due grandi categorie: intenzionale e non intenzionale177.
La forma intenzionale è caratterizzata da una scelta consapevole del paziente, il quale decide di non assumere la terapia. Questo atteggiamento può avere aspetti razionali o irrazionali. Nel primo caso tale posizione è riconducibile soprattutto alla convinzione soggettiva che i farmaci non siano efficaci, ovvero possano essere potenzialmente tossici. La decisione del paziente dipende, in genere, da informazioni ambientali errate e da una mediocre qualità della comunicazione con il personale sanitario. Questo comportamento è decisamente più frequente in pazienti affetti da condizioni di depressione. La non aderenza intenzionale può essere anche di tipo irrazionale, come conseguenza di una risposta emotiva incongrua rispetto alla patologia. In ogni caso, l’evento finale è rappresentato dall’interruzione della cura.
La mancata aderenza non intenzionale rappresenta, invece, una condizione in cui il paziente ha un’esplicita volontà di seguire la terapia ma ha difficoltà nel farlo. Questo problema è riconducibile a motivi esterni, estremamente variabili ed in gran parte legati al contesto socio-economico. Fanno parte di questa condizione le cosiddette “dimenticanze” ed i “salti” di dose.
A causa della complessità del fenomeno, la valutazione obiettiva dell’aderenza alle prescrizioni risulta difficile e non è disponibile alcuna misura ideale che ne consenta un’univoca interpretazione. In genere il paziente è considerato “aderente al trattamento” se assume nel tempo più dell’80% del farmaco prescritto, “parzialmente aderente” se assume dal 20% al 70% e “non aderente” se assume meno del 20%.
Gli studi osservazionali hanno consentito di evidenziare alcuni fattori che si accompagnano ad una maggiore probabilità di mancata aderenza alle prescrizioni (Tabella 4).
Nella pratica clinica la valutazione di aderenza al trattamento viene effettuata in genere mediante il colloquio diretto con il paziente, al quale viene chiesto quali farmaci assuma e se rispetta la posologia raccomandata. Questa valutazione è fortemente soggettiva e largamente condizionata dalla qualità del rapporto medico-paziente, con una possibile sovrastima del 20-30% della reale assunzione di farmaci178. In genere, una domanda diretta può non fornire valutazioni accurate, specie se la risposta prevista è chiusa (“lei assume sempre i farmaci come le ho prescritto?”). Al contrario, invece, i problemi di non aderenza si possono meglio identificare con l’impiego di questionari, somministrati direttamente, come la scala di Morisky (Tabella 5)179.
Diversi tipi di intervento possono essere impiegati per migliorare l’aderenza dei pazienti a terapie farmacologiche (Tabella 6). Si distinguono quattro possibili tipologie di intervento180,181:
1. intervento sulla prescrizione, con semplificazione e modifica di posologie e dosaggi dei farmaci;
2. programmi formativi rivolti ai pazienti;
3. interventi centrati sui comportamenti individuali dei pazienti;
4. interventi “complessi e combinati”, articolati su più piani e con modalità integrate.









La semplificazione della posologia è ritenuta un intervento particolarmente efficace, soprattutto nei casi in cui si passi da due o più somministrazioni quotidiane ad una singola dose di farmaco. Tale intervento ha comportato in diversi studi un miglioramento dell’aderenza di entità compresa tra il 10% e il 30%. Per quanto riguarda le altre categorie di intervento le evidenze disponibili sono limitate. Dai dati disponibili in letteratura emerge comunque che interventi isolati, di natura formativa o comportamentale, non sono in grado di ottenere significativi risultati. Gli interventi di maggiore complessità, che integrano invece diverse strategie complementari tra loro (educazione, miglioramento delle prescrizioni, controllo effettivo dei comportamenti), hanno invece dimostrato una discreta efficacia e possono migliorare l’aderenza alla terapia del 20-30% 182.
Una modalità sempre più frequentemente utilizzata è il recall telefonico da parte degli infermieri, che è divenuto componente fondamentale di interventi di prevenzione secondaria ad elevata intensità, risultati vantaggiosi soprattutto nei soggetti a rischio trombotico più alto65,183.
Nel complesso, la qualità della comunicazione tra operatori sanitari (medici ed infermieri) e i pazienti rappresenta l’elemento di maggiore rilievo nel condizionare l’effettiva aderenza terapeutica. Solo incontri clinici di durata congrua, con attenzione ai contenuti comunicativi, seguiti da follow-up ravvicinati e da interventi di recall telefonico a distanza sembrano in grado di ottenere un effettivo miglioramento dell’aderenza.

Per favorire l’aderenza, il Panel ritiene fondamentale:
1. iniziare la comunicazione sulla natura della malattia e la necessità di terapia immediatamente dopo il ricovero in ospedale (momento della massima motivazione al cambiamento);
2. fornire indicazioni dettagliate sulla terapia prescritta e le modalità di follow-up alla dimissione direttamente al paziente;
3. favorire un contatto ottimale tra paziente ed operatori sanitari, prevedendo:
– durata adeguata del colloquio pre-dimissione,
– primo controllo post-dimissione a breve termine (30 giorni),
– durata adeguata delle visite di follow-up,
– possibilità di accesso diretto o telefonico nel caso di specifici problemi clinici;
4. identificare i fattori associati a mancata aderenza (Tabella 4) ed utilizzare strumenti specifici di verifica dell’aderenza durante il follow-up come il questionario di Morisky (Tabella 5);
5. utilizzare il recall telefonico soprattutto nei soggetti ad alto rischio trombotico.
riassunto
La gestione del paziente che ha superato la fase intraospedaliera di una sindrome coronarica acuta (SCA) è un problema complesso che richiede strutture organizzative flessibili e competenze specifiche in grado di determinare un ottimale controllo dei fattori di rischio cardiovascolare, di favorire l’assunzione dei trattamenti farmacologici raccomandati e l’aderenza agli stessi e a stili di vita corretti a medio-lungo termine, e di programmare un follow-up clinico-strumentale “personalizzato”. Gli obiettivi di questo approccio sono rappresentati da un miglioramento della prognosi, con riduzione dell’incidenza di nuovi eventi cardiovascolari fatali e non fatali e di minore evoluzione verso lo scompenso cardiaco manifesto, con conseguente riduzione delle ospedalizzazioni e quindi dei costi assistenziali.
Nell’autunno 2013 due Società Cardiologiche italiane, il Gruppo Italiano di Cardiologia Preventiva e Riabilitativa (GICR-IACPR) e l’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) hanno organizzato una Conferenza di Consenso sull’assistenza dei pazienti dopo SCA con l’obiettivo di concordare strategie condivise di management, basate sul profilo di rischio individuale, il quadro clinico nella fase acuta e l’organizzazione dell’assistenza a livello delle singole realtà locali.
Questo documento, condiviso e sottoscritto da altre Società Scientifiche, rappresenta la sintesi dei lavori della Conferenza con una proposta di percorsi clinico-assistenziali da adattare a ciascun paziente nell’ambito del contesto sanitario in cui vive. Il documento è articolato in quattro sezioni: la Sezione 1 (“Epidemiologia e stratificazione prognostica”) fa il punto sulla situazione attuale in termini di epidemiologia della SCA e di prognosi fino ad 1 anno di distanza, provando a identificare i soggetti a rischio di nuovi eventi (morte, scompenso cardiaco, reinfarto) sulla base di parametri clinico-strumentali generalmente disponibili alla dimissione dalla fase acuta; la Sezione 2 (“I percorsi assistenziali”) identifica le strategie di trattamento e di assistenza più idonee in base alla stratificazione di rischio iniziale e alle risorse disponibili, e sottolinea i benefici dei programmi di cardiologia riabilitativa degenziale ed ambulatoriale, da riservare ai soggetti maggiormente compromessi, riservando agli altri approcci strutturati caratterizzati da minore intensità di cure. Le Sezioni 3 e 4 (“Obiettivi della terapia farmacologica” e “Promozione dell’aderenza alla terapia e prevenzione secondaria non farmacologica”) sottolineano l’attenzione che in ogni paziente deve essere dedicata all’ottimizzazione ed al mantenimento dei trattamenti raccomandati in prevenzione secondaria, sia per quanto riguarda i farmaci che gli interventi sullo stile di vita.
Parole chiave. Assistenza post-dimissione; Prevenzione secondaria; Riabilitazione cardiovascolare; Sindrome coronarica acuta.
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