In questo numero

processo ai grandi trial




Insufficienza renale acuta dopo cardiochirurgia: curare o prevenire?
L’insufficienza renale acuta (IRA) è un evento non infrequente (l’incidenza viene stimata dall’1% all’8%), che può complicare gli interventi di chirurgia cardiaca e si associa ad un significativo aumento della morbilità e della mortalità. Nelle forme più gravi, che richiedono un trattamento sostitutivo renale, la mortalità ospedaliera può raggiungere il 50% dei casi. Il fallimento del trial clinico randomizzato controllato con fenoldopam, come discutono Giancarlo Marenzi e Roberto Paino, può essere legato a diversi motivi, magari anche a scelte non ottimali nel disegno dello studio, ma è purtroppo in linea con tentativi precedentemente compiuti con farmaci diversi ed in contesti clinici abbastanza similari (come la nefropatia da mezzo di contrasto), tutti risultati negativi. Probabilmente è necessario puntare sulla prevenzione piuttosto che sulla cura, ma un’efficace strategia preventiva non esiste, anche per l’impossibilità di identificare fattori di rischio perioperatori che consentano di predire in modo accurato il rischio di IRA e quindi di avviare solo pochi pazienti selezionati ad un’eventuale terapia preventiva. •

editoriali
Articolo del mese




Nuove linee guida sulla cardiomiopatia ipertrofica
Le nuove linee guida della Società Europea di Cardiologia sulla cardiomiopatia ipertrofica (CMI), recentemente pubblicate, sono un documento di ampio respiro e un’occasione importante per rivalutare in modo dettagliato alcuni aspetti ancora controversi di questa malattia. Iacopo Olivotto et al. ci ricordano che la corretta gestione dell’ostruzione dinamica all’efflusso ventricolare sinistro nei pazienti con CMI è uno dei principali problemi nel trattamento di questi pazienti. Le linee guida passano in rassegna l’uso di farmaci consacrati dall’uso ormai cinquantennale come betabloccanti, verapamil, disopiramide, forniscono raccomandazioni nell’annoso dibattito tra miomectomia ed alcolizzazione del setto ma soprattutto ribadiscono l’importanza di una gestione multidisciplinare di questo problema e la necessità di affidarsi ad operatori esperti in caso di scelte chirurgiche. Francesca Brun et al. riassumono le raccomandazioni delle linee guida su quando eseguire lo screening genetico nei probandi o nei familiari dei pazienti; lo screening genetico è particolarmente utile nei familiari che non presentano il fenotipo, in modo che possano essere rassicurati se il test risulta negativo. Il compito importante del clinico
è quello di riconoscere fenotipi particolari o elementi clinici suggestivi per la diagnosi per guidare nel modo più preciso possibile l’analisi genetica. Infine, una novità particolarmente interessante delle linee guida è lo “score di rischio aritmico”, uno strumento molto semplice per valutare il rischio aritmico dei pazienti con CMI, e quindi porre o non porre indicazione all’impianto di defibrillatore. Come tutti gli score, anche l’“HCM Risk-SCD score” ha alcune limitazioni, che non mancano di essere evidenziate da
Attilio Iacovoni et al.
È però indubbio che questo strumento possa essere di aiuto ai clinici, soprattutto
a quelli non particolarmente esperti, per affrontare in modo corretto il rischio di morte improvvisa nei pazienti affetti da CMI. Gli editoriali sono offerti alla discussione attraverso la piccola posta (
piccolaposta@giornaledicardiologia.it) fino alla fine del mese di aprile. •

al fondo del cuore




Stimolazione vagale nello scompenso cardiaco: forte razionale fisiopatologico ma risultati clinici deludenti
 
La stimolazione vagale, così come ogni intervento volto ad aumentare l’attività parasimpatica e a ridurre l’attività simpatica a livello cardiaco, ha un forte razionale fisiopatologico nello scompenso cardiaco, confermato dai numerosi studi sperimentali effettuati in diversi modelli animali. Ciò nonostante, i risultati clinici sinora ottenuti appaiono discordanti tra loro e piuttosto deludenti. Ad esempio, come ci descrivono Gaetano De Ferrari e Veronica Dusi, nello studio NECTAR-HF è stata osservata una completa assenza di beneficio sugli endpoint strumentali e nello studio ANTHEM-HF è risultato significativo soltanto su uno dei due endpoint primari di efficacia. Tali apparenti divergenze sono certamente imputabili a più fattori, ma probabilmente riflettono più la complessità della metodica utilizzata, che non l’inefficacia della terapia. Un aspetto cruciale della stimolazione vagale, al pari di ogni intervento terapeutico, è la relazione dose-risposta, con la differenza che mentre nelle terapie farmacologiche il concetto di dose è immediato, nel campo della neurostimolazione la sua definizione è molto più complessa. Nuovi dati clinici sono attesi fra un paio d’anni grazie allo studio INOVATE-HF, si spera accompagnati da ulteriori approfondimenti sperimentali e fisiopatologici. •

rassegne




Di più è meglio?
Lo studio SIGNIFY è stato progettato e condotto per verificare la possibilità di ridurre la mortalità cardiovascolare e la frequenza dell’infarto miocardico in pazienti con cardiopatia ischemica stabile e funzione ventricolare sinistra conservata usando dosi più alte di ivabradina. Nonostante l’elevata frequenza cardiaca rappresenti un chiaro marker di rischio in questi pazienti, l’associazione di ivabradina a dosi da 7.5 a 10 mg bid alla terapia ottimizzata non ha apportato vantaggi prognostici significativi e si è invece associata ad una maggiore frequenza di eventi nel sottogruppo di pazienti con angina in classe CCS II-IV. L’interpretazione di questi risultati è difficile, come ci spiegano Gian Piero Perna et al., ma, come in altri studi clinici di massimizzazione dell’intervento farmacologico, il SIGNIFY ha confermato che la sicurezza di molecole già note ed impiegate nella pratica clinica può essere messa in crisi da interazioni farmacologiche non ben conosciute e dall’uso di dosi non approvate da enti regolatori, ingenerando risultati inattesi e confondenti. L’ivabradina a dosi standard rimane indicata per il trattamento dell’angina in alternativa o in associazione al betabloccante. •




La terapia del più comune disordine del ritmo cardiaco
Nonostante sia stato ampiamente dimostrato che la terapia anticoagulante orale riduce in modo significativo l’incidenza di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale, questa risulta spesso sottoutilizzata, in particolare nei pazienti a maggior rischio di eventi. Tutto ciò è paradossale, ed il motivo il più delle volte è il timore di possibili complicanze emorragiche. Negli ultimi anni la ricerca ha portato avanti lo studio e la sperimentazione clinica di nuove molecole attive sulla coagulazione somministrabili per via orale, in alternativa agli antagonisti della vitamina K. Quattro sono le molecole ad azione anticoagulante orale – dabigatran, rivaroxaban, apixaban ed edoxaban – che sono utilizzabili nella profilassi antitrombotica dei pazienti con fibrillazione atriale parossistica o persistente/ permanente. Per tutti questi farmaci valgono alcune semplici ma importantissime considerazioni, come sottolineano Roberta Rossini et al.: 1) sono efficaci nel ridurre il rischio di ictus e di embolia sistemica; 2) sono sicuri, riducendo il rischio di sanguinamento maggiore; 3) sono maneggevoli, non richiedendo il monitoraggio routinario dei loro valori; 4) presentano un favorevole rapporto costo-efficacia rispetto alla terapia tradizionale con warfarin. •




Anomalia di Ebstein: impossibile generalizzare
L’anomalia di Ebstein, che deriva il nome dal medico tedesco che per primo, nel 1866, descrisse le peculiari alterazioni della valvola tricuspide e del ventricolo destro in uno studio autoptico su un uomo di 19 anni, è una malformazione cardiaca rara, riscontrata in circa 1/200 000 nati vivi, rappresentando meno dell’1% di tutti i casi di anomalie cardiache congenite. L’eterogeneo spettro di presentazione delle alterazioni anatomiche è alla base dell’ampia variabilità nelle manifestazioni cliniche ed emodinamiche e del loro impatto sulla diagnosi e la prognosi della patologia. Un work-up accurato ed un puntuale follow-up possono indirizzare ad un’opportuna terapia medica o ad un intervento chirurgico correttivo che, nei soggetti giovani e adulti, è caratterizzato da basso rischio di mortalità ospedaliera e soddisfacente sopravvivenza a lungo termine, anche se, come ci spiegano
Pietro Giorgio Malvindi
e Nicola Viola, l’ampia variabilità di alterazioni strutturali e la bassa incidenza nella popolazione generale non hanno permesso lo sviluppo di tecniche riparative uniformi, supportate da risultati su ampie popolazioni. Al contrario, la cura della patologia neonatale presenta ancora ostacoli formidabili; lo sviluppo di tecniche di diagnosi intrauterina sta però cominciando a fornire dati importanti per la stratificazione del rischio e può aiutare il cardiologo nel corso della consulenza prenatale. •