In questo numero

processo ai grandi trial




La migliore strategia di screening dell’angina stabile
L’angio-tomografia coronarica (CTCA) è stata introdotta nella pratica clinica dal 2005. Grazie ai progressi tecnologici che hanno reso disponibili macchine con sempre maggiore risoluzione spaziale e temporale con sempre più bassa esposizione radiogena, la CTCA si è affermata tra le metodiche non invasive di screening in pazienti con sospetta coronaropatia, in particolare nello screening di pazienti con probabilità pre-test di malattia intermedio-bassa. In tale contesto lo studio SCOT-HEART è di particolare interesse in quanto analizza gli effetti dell’aggiunta della CTCA alla valutazione standard di pazienti con sospetta malattia coronarica sulla diagnosi presuntiva di malattia da parte del clinico di riferimento, sulla successiva gestione clinica del paziente e sulla prognosi finale. Il trial dimostra che la CTCA conduce a meno coronarografie negative ed a più rivascolarizzazioni rispetto all’imaging funzionale da stress ma in assenza di vantaggi prognostici. In realtà l’uso diagnostico della CTCA in pazienti con angina stabile aiuta nello screening diagnostico ma induce un maggiore utilizzo di coronarografia e soprattutto di rivascolarizzazioni senza un guadagno in termini prognostici. Ciò non vuol dire che la CTCA non abbia valore clinico. Probabilmente, come Danilo Neglia, Davide Chiappino e Marco Magnoni suggeriscono, alla CTCA dovrebbe seguire un test funzionale da stress per identificare quei soggetti con ischemia inducibile in cui il trattamento della coronaropatia è veramente vantaggioso. Ma questo è un altro trial. •

editoriale




Anticoagulare o non anticoagulare?
Il rischio di ictus nella fibrillazione atriale (FA) non è omogeneo e varia dallo 0.4% al 12% per anno. Negli ultimi 10 anni sono stati proposti numerosi score per la stratificazione del rischio tromboembolico e il CHA2DS2-VASc score, che rappresenta un’evoluzione del CHADS2 score, è quello che si è imposto nella pratica clinica. Le linee guida della Società Europea di Cardiologia 2012 raccomandano la terapia anticoagulante orale (TAO) nei pazienti di sesso maschile con CHA2DS2-VASc ≥1 e nelle donne con score ≥2, ampliando di fatto le indicazioni alla TAO a circa il 90% dei pazienti con FA. In realtà, ci ricordano Giuseppe Di Pasquale e Silvia Zagnoni, nel corso della stesura delle linee guida italiane AIAC sulla FA le indicazioni alla TAO nei pazienti con CHA2DS2-VASc 1 (o 2 per le donne) sono state oggetto di ampio dibattito e la posizione finale è stata quella di una raccomandazione di classe IIb. Il messaggio cioè è quello di decidere nel singolo paziente, dopo una più accurata stratificazione del rischio tromboembolico, tenendo conto di diversi altri fattori, quali l’ipertrofia ventricolare sinistra all’ECG, gli indici di volume e funzione atriale sinistra all’ecocardiografia transtoracica e il pattern di FA. •

point break




Betabloccare o non betabloccare?
 
Una recente metanalisi ha mostrato che nello scompenso cardiaco la terapia con betabloccanti è associata ad una riduzione significativa della mortalità globale, della mortalità per causa cardiovascolare o dei ricoveri per scompenso solo nei pazienti con ritmo sinusale, ma non nei pazienti con fibrillazione atriale. Questi dati contrastano con le attuali indicazioni delle linee guida della Società Europea di Cardiologia che raccomandano i betabloccanti in tutti i pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra <40%, senza nessuna distinzione del ritmo di base, per diminuire il rischio di ospedalizzazione e quello di morte prematura. Pierpaolo Pellicori e Pierluigi Costanzo analizzano l’evidenza disponibile in letteratura su questo argomento. Evidenza che tuttavia non consente di fornire spiegazioni fisiopatologicamente valide ed accertate in base ai risultati di questa metanalisi. L’importante però è sottolineare, come fanno gli autori, che questi farmaci rimangono indicati nel trattamento dei pazienti con scompenso cardiaco e fibrillazione atriale per controllare livelli elevati di frequenza ventricolare e/o di pressione arteriosa, anche se, sembra, non offrono benefici in termini di outcome. •




Farmaci, ablazione, farmaci più ablazione
Nei pazienti affetti da fibrillazione atriale (FA) ricorrente sono possibili due strategie farmacologiche: il controllo del ritmo e il controllo della frequenza. Sono stati sinora pubblicati vari studi che mostrano come le due strategie siano pressoché sovrapponibili in termini di incidenza di eventi e di qualità di vita. Scopo di questo contributo di Paolo Alboni è cercare di chiarire quale spazio abbiano i farmaci antiaritmici qualora si scelga il mantenimento del ritmo sinusale. L’efficacia dei farmaci antiaritmici nella prevenzione della FA è in realtà piuttosto modesta, in quanto si osservano recidive sintomatiche ad 1 anno nel 50% circa dei pazienti; tra tutti, l’amiodarone è quello che dà i risultati migliori. Trattamenti “upstream” non rappresentano purtroppo né un’alternativa né un’integrazione alla terapia medica. L’ablazione transcatetere offre buoni risultati, ma soltanto in pazienti relativamente giovani, senza una cardiopatia rilevante e con FA refrattaria ai farmaci. Al successo finale però concorrono le procedure ripetute nel 15-40% dei pazienti ed i farmaci che, inefficaci prima dell’ablazione, hanno invece un ruolo importante somministrati dopo la procedura. In conclusione, afferma Alboni, l’ablazione come integrazione e non certo come alternativa ai farmaci antiaritmici. •

al fondo del cuore




Uno stent venoso per curare (i sintomi della) coronaropatia
L’angina refrattaria è una condizione cronica caratterizzata da una sintomatologia anginosa debilitante dovuta ad una malattia coronarica ostruttiva grave e/o diffusa, non risolvibile con la terapia medica né con la rivascolarizzazione percutanea o chirurgica. La mortalità è modesta, ma l’incidenza di riospedalizzazione è elevata e la condizione è disabilitante per i pazienti. Il ReducerTM è emerso come una nuova strategia terapeutica per questi pazienti. Daniela Benedetto et al. ci spiegano che il Reducer è un dispositivo endoluminale a forma di clessidra costituito da uno stent in acciaio inossidabile montato su un palloncino espandibile, destinato ad essere impiantato per via percutanea nel seno coronarico per creare un restringimento controllato del lume venoso, con conseguente aumento della pressione venosa coronarica. L’elevata pressione nel seno coronarico si riflette a monte in un incremento della pressione nei capillari e venule determinando quindi una riduzione della compressione dei vasi subendocardici dovuta all’elevata pressione telediastolica del ventricolo ischemico. Il risultato finale di questo processo è quindi la riduzione dell’ischemia subendocardica e il miglioramento della sintomatologia del paziente. •

rassegna




Una rara forma di cardiomiopatia
La malattia di Anderson-Fabry è una tesaurismosi progressiva, ereditaria, con interessamento principalmente degli apparati renali, neurologici, cardiovascolari, cocleovestibolari e cutanei, causata dal deficit totale o parziale dell’enzima alfa-galattosidasi A. La mancanza dell’enzima determina un accumulo di sfingolipidi all’interno dei lisosomi, responsabili delle modificazioni a catena in ambito cellulare e tissutale. La malattia si caratterizza per un coinvolgimento multisistemico e multiorgano. I pazienti con interessamento dell’apparato cardiovascolare presentano solitamente ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro che simula una cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva. Per ottenere un’appropriata gestione clinico-terapeutica del paziente affetto da malattia di Anderson-Fabry risulta fondamentale un approccio multidisciplinare dalla diagnosi, alla terapia e al follow-up clinico della malattia. Federico Pieruzzi et al. hanno costituito un Board multidisciplinare italiano costituito da cardiologi, nefrologi, genetisti, pediatri e neurologi, che qui riportano il protocollo di management cardiologico condiviso. •

studio osservazionale




Tromboprofilassi nei pazienti ospedalizzati: un difficile bilanciamento tra rischio trombotico e rischio emorragico
Il sovrautilizzo della tromboprofilassi non è un comportamento frequente in medicina interna, tuttavia, a differenza del suo sottoutilizzo, è raramente preso in considerazione. Lo scopo dello studio TEVERE “Valutazione della percezione del rischio di tromboembolismo venoso (TEV) nei Reparti di Medicina Interna e di Medicina d’Urgenza della Regione Lazio” è stato quello di cercare di capire le ragioni di questo fenomeno. Lo studio ha confrontato la tromboprofilassi con la presenza dei fattori di rischio e la positività alle scale del rischio per TEV in 22 unità operative di Medicina Interna e 10 unità operative di Medicina d’Urgenza di 21 ospedali della Regione Lazio. I fattori che in questo studio sono risultati determinanti per iniziare la tromboprofilassi anche in presenza di un basso rischio di trombosi sono stati la sepsi, l’insufficienza venosa cronica e l’età. Giovanni Maria Vincentelli et al. concludono che sia necessaria una maggiore attenzione nell’utilizzo degli score di rischio suggeriti dalle linee guida internazionali per ottimizzare la tromboprofilassi riducendo per quanto possibile il rischio di sanguinamento. Tuttavia ulteriori ricerche sembrano necessarie per comprendere meglio i fattori di rischio tromboembolici nei pazienti ospedalizzati nei reparti di medicina. •

dal particolare al generale




Una maggiore attenzione ai traumi toracici in Pronto Soccorso
I pazienti che si presentano in Pronto Soccorso per dolore toracico dopo un trauma fisico sono una insidia per il cardiologo: in molti casi, infatti, il paziente viene indirizzato nell’area del Pronto Soccorso dedicata alle problematiche di interesse chirurgico o ortopedico, dove corre il rischio di sfuggire alle “maglie” dei comuni test cardiologici (ECG e marcatori di danno miocardico). Il trauma toracico può invece provocare un danno diretto sul muscolo, sulle valvole, sulle coronarie, sul pericardio o sull’aorta ascendente. I due casi presentati da Damiano Regazzoli et al. mostrano come nell’eventualità di trauma al torace un’attenta valutazione cardiologica possa modificare in modo sostanziale la prognosi. •

position paper
Articolo del mese




La stratificazione del rischio di morte improvvisa
È opinione corrente che le attuali linee guida, basate sul valore di frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FE), non permettano un’accurata selezione dei pazienti da sottoporre ad impianto di defibrillatore (ICD) in prevenzione primaria. La FE da sola ha dei limiti sia di sensibilità che di specificità. Di fatto, la maggior parte dei pazienti sottoposti ad impianto di ICD, secondo i criteri delle attuali linee guida, non hanno interventi appropriati dell’ICD nel corso del follow-up e quindi nessun beneficio dall’impianto, pur essendo esposti agli effetti indesiderati dell’ICD. D’altro canto la maggior parte degli eventi avvengono in soggetti con FE >40%, popolazione nella quale l’ICD è formalmente non indicato e per la quale non esistono studi randomizzati conclusivi riguardanti l’efficacia dell’ICD. In questo position paper viene discussa la possibile utilità di un’analisi poliparametrica utilizzando alcuni dei marker di rischio di morte improvvisa più studiati, quali la risonanza magnetica cardiaca con valutazione della captazione tardiva del gadolinio, la stimolazione ventricolare programmata, l’alternanza dell’onda T, il tono autonomico, i biomarcatori e i test genetici. In particolare Marcello Disertori et al. affrontano il problema in un’ottica diversa dal solito e molto utile al clinico, cioè focalizzando l’attenzione separatamente su tre gruppi di pazienti sinora non ben valutati nelle linee guida:
1) pazienti con FE severamente depressa, ma con alto rischio competitivo per morte da scompenso cardiaco o da patologia extracardiaca; 2) pazienti con FE severamente depressa, ma con un rischio relativamente basso di morte improvvisa;
3) pazienti con FE moderatamente depressa, ma con un rischio relativamente alto di morte improvvisa. •