Considerazioni su una valutazione poliparametrica nella stratificazione del rischio di morte improvvisa per l’indicazione all’impianto di cardioverter-defibrillatore in prevenzione primaria, nella disfunzione ventricolare sinistra di origine ischemica e non ischemica.
Position paper dell’Associazione Nazionale Medici
Cardiologi Ospedalieri (ANMCO)

Marcello Disertori (Chairman)1, Michele M. Gulizia2, Giancarlo Casolo3, Pietro Delise4,
Andrea Di Lenarda
5, Giuseppe Di Tano6, Maurizio Lunati7, Luisa Mestroni8, Jorge A. Salerno-Uriarte9, Luigi Tavazzi10
1Dipartimento di Cardiologia, APSS - Progetto Innovazione e Ricerca Clinica in Sanità, PAT-FBK, Trento
2U.O. Cardiologia, Ospedale Garibaldi-Nesima, Catania
3U.O. Cardiologia, Ospedale Versilia, Lido di Camaiore (LU)
4Cardiologia, Casa di Cura Polispecialistica Pederzoli, Peschiera del Garda (VR)
5Centro Cardiovascolare, Azienda per l’Assistenza Sanitaria n. 1, Università degli Studi, Trieste
6U.O. Cardiologia, A.O. Istituti Ospitalieri, Cremona
7Dipartimento Cardiotoracovascolare “A. De Gasperis”, A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda, Milano
8Cardiovascular Institute, University of Colorado Denver AMC, Aurora, Colorado, USA
9Clinica Cardiologica, Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Università degli Studi dell’Insubria, Varese
10GVM Care & Research, Ospedale Maria Cecilia, Cotignola (RA), ES Health Science Foundation
It is generally recognized that current guidelines, based on ejection fraction criteria, do not allow appropriate selection of patients for implantable cardioverter-defibrillator (ICD) therapy in the primary prevention of sudden death, thus hindering the optimal use of ICD in patients with left ventricular dysfunction of ischemic and nonischemic etiology. Ejection fraction alone has limitations in both sensitivity and specificity. Assessment of the risk for sudden death using a combination of multiple tests (ejection fraction associated with one or more different arrhythmic risk markers) could partially compensate for these limitations.
In this position paper, the potential usefulness of a polyparametric assessment using some of the most investigated risk markers of sudden death is discussed, including late gadolinium enhancement cardiac magnetic resonance, programmed ventricular stimulation, T-wave alternans, autonomic tone, biomarkers, and genetic testing.
Key words. Cardiac magnetic resonance; Heart failure; Implantable cardioverter-defibrillator; Sudden death; T-wave alternans; Ventricular arrhythmias.

INTRODUZIONE
Nonostante i progressi nella terapia farmacologica dello scompenso cardiaco e della terapia di rivascolarizzazione miocardica nella cardiopatia ischemica, la prevenzione della morte improvvisa (MI) rimane ancora una sfida della cardiologia moderna1. Il cardioverter-defibrillatore impiantabile (ICD) si è dimostrato molto efficace nella prevenzione primaria della MI2,3 e le attuali linee guida per l’impianto di ICD in prevenzione primaria usano come marker principale nella stratificazione del rischio aritmico l’entità della disfunzione sistolica del ventricolo sinistro misurata tramite la frazione di eiezione (FE)4,5. Tuttavia la presenza di una severa depressione della FE è un marker carente di specificità nel differenziare il rischio di MI rispetto a quello di morte per evoluzione di scompenso cardiaco o per comorbilità6-8, e manca anche di sensibilità in quanto molti casi di MI hanno una FE normale o solo moderatamente depressa7,9,10. Di fatto la maggior parte dei pazienti sottoposti ad impianto di ICD, secondo i criteri delle attuali linee guida, non hanno interventi appropriati dell’ICD nel corso del follow-up2,3,11 e quindi nessun beneficio dall’impianto, pur essendo esposti agli effetti indesiderati dell’ICD12. È quindi convinzione abbastanza diffusa che la FE da sola sia un marker inadeguato per la stratificazione del rischio di MI13-15. Peraltro, a tutt’oggi non è stato ancora identificato un marker di rischio di MI che da solo possa sostituire la misurazione della FE. Inoltre, considerando l’origine multifattoriale della MI, è assai improbabile che un marker di rischio da solo possa raggiungere un’elevata accuratezza predittiva. Per superare questo problema è stato proposto l’utilizzo di combinazioni di test, aggiungendo alla valutazione della FE dei test che studino uno o più meccanismi alla base del fenomeno aritmico 8,13,16,17.
In questo position paper dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) viene analizzata la possibile utilità dell’associazione di più test nella stratificazione del rischio di MI, nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sia di origine ischemica che non ischemica. In particolare vi sono tre sottogruppi di pazienti, non completamente valutati nelle attuali linee guida4,5, nei quali l’appropriatezza degli impianti di ICD potrebbe essere migliorata da un’analisi poliparametrica: 1) pazienti con FE severamente depressa (≤35%), ma con alto rischio competitivo per morte da evoluzione dello scompenso cardiaco o per morte non cardiaca; 2) pazienti con FE severamente depressa, ma con rischio relativamente basso di MI; 3) pazienti con FE solo moderatamente depressa (>35-<45%), ma con rischio relativamente alto di MI.
Questo position paper non vuole essere una nuova linea guida che inevitabilmente creerebbe confusione nei lettori per le discrepanze di contenuto rispetto alle linee guida internazionali4. Si tratta invece di “considerazioni” su un nuovo approccio a gruppi particolari di pazienti con disfunzione ventricolare sinistra impiegando un’analisi poliparametrica, supportata da molti e significativi dati della letteratura. Riteniamo che questo procedimento decisionale possa essere la strada da percorrere in futuro sia a livello di ricerca che a livello clinico nell’approccio al singolo paziente, compatibilmente con la disponibilità delle metodiche nei vari Centri Cardiologici. Ci auguriamo inoltre che questa ipotesi di lavoro possa essere presto discussa ed eventualmente implementata nelle linee guida internazionali.
PROBLEMATICHE METODOLOGICHE
Limiti di fondo
Esistono importanti limiti di fondo nell’approccio metodologico utilizzato nella ricerca sulla MI orientata a testare l’efficacia dell’ICD. Il primo elemento da considerare è epidemiologico. Una cardiopatia è nota in circa la metà delle MI18 e tre quarti degli eventi avvengono in soggetti con FE >40%9,10, popolazione nella quale l’ICD è formalmente non indicato e per la quale non esistono studi randomizzati conclusi riguardanti l’efficacia dell’ICD. Quindi la piattaforma di conoscenza sulle quale ci si muove è fragile.
Un secondo punto riguarda la categorizzazione delle popolazioni studiate. La stragrande maggioranza degli studi classifica i pazienti in due categorie: cardiopatia ischemica e cardiopatia dilatativa (spesso riportata erroneamente come cardiomiopatia dilatativa che nosograficamente implica una specifica patologia miocardica). I pazienti quindi vengono aggregati in un gruppo eziologico – cardiopatia ischemica – con fenotipi multipli molto diversi tra loro, e in un gruppo fenotipico – cardiopatia dilatativa – con eziologie multiple del tutto diverse tra loro. Francamente non è chiaro il razionale di una classificazione di questo tipo. Sembra pragmatica, ma probabilmente è soltanto confondente.
Un terzo aspetto riguarda la FE ventricolare sinistra, intesa come indicatore base per l’impianto. Al di là della ben nota operatore- e tecnologia-dipendenza della determinazione del valore numerico della FE, che rende aleatorio ogni possibile cut-off, la FE ha alcune caratteristiche che la rendono inadatta allo scopo: a) non ha alcuna implicazione eziologica e quindi prognostica per quanto attiene all’evoluzione naturale della malattia; b) è indipendente dal fenotipo (si pensi allo scompenso cardiaco, con FE ridotta o preservata, che hanno quadri clinici e prognosi simili, inclusa la MI 19); c) è continua, senza alcun valore specifico discriminante fisiopatologicamente plausibile (per distinguere lo scompenso cardiaco a funzione sistolica depressa o preservata il cut-off di FE utilizzato in letteratura varia da 35% a 50%).
Un quarto aspetto riguarda la natura dinamica nel tempo sia dei meccanismi elettrofisiologici che possono generare un’aritmia fatale, sia dello stato clinico complessivo del paziente con le conseguenti mutevoli caratteristiche emodinamiche centrali e biologiche che sottostanno sia a variazioni dell’elettrofisiologia cardiaca che a modificazioni del valore della stessa FE. Esempi di questo tipo sono numerosi. Nel trial MADIT-CRT, nei pazienti impiantati con solo ICD (gruppo di controllo nei confronti della terapia con resincronizzazione cardiaca), la FE aumentò “spontaneamente” nel 25% dei casi durante un follow-up di 3 anni superando il limite di indicazione all’impianto di un ICD 20. Nel 2014 Stevenson21 proponeva una nuova classificazione dello scompenso cardiaco cronico includendo, accanto allo scompenso a FE ridotta o preservata, una terza forma clinica, dai contorni incerti, denominata “scompenso a FE migliorata”. La maggior parte delle condizioni cardiache che esitano nello scompenso cardiaco hanno un andamento evolutivo fluttuante, con possibili variazioni anche della FE. Purtroppo questa indeterminatezza intrinseca agli elementi valutativi dello stato elettrofisiologico del cuore è verosimilmente estendibile a tutte le tecniche esplorative testate finora per la predizione della MI aritmica. Appare quindi che le caratteristiche di puntualità decisionale (basate su una singola valutazione) siano poco coerenti con la definitività della terapia (permanendo il rischio di complicanze anche in assenza di efficacia) che caratterizza la decisione di impiantare un ICD. Le innovazioni tecnologiche in corso, dalla riduzione delle dimensioni alla disponibilità di defibrillatori sottocutanei che stanno dando buoni risultati in ricerche osservazionali 22, e di defibrillatori esterni “vestibili” visti come bridge a decisioni più definitive, potranno aiutare a risolvere molti dei problemi attuali riguardanti la terapia con defibrillatore, ma è improbabile che impattino in modo rilevante sulle indicazioni cliniche.
Un quinto aspetto comune alle popolazioni considerate in studi di prevenzione primaria della MI è la prevalenza del sesso maschile. Lo stesso dato è osservabile in altre aree della Cardiologia. Comunque non è un elemento irrilevante quando si considera l’appropriatezza dei comportamenti medici nella pratica clinica. Esistono poi numerose nicchie di popolazione, poco studiate perché escluse dai trial randomizzati, nelle quali il beneficio dell’ICD resta incerto23. Tra le altre, gli anziani e i pazienti con insufficienza renale cronica avanzata. In questi ultimi l’incidenza di MI è alta, linearmente crescente al peggiorare della funzione renale, con beneficio linearmente calante dell’ICD24,25.
Tipologia di studio
Negli anni 2000 sono stati eseguiti numerosi studi randomizzati per testare l’efficacia dell’ICD nel ridurre la mortalità in pazienti selezionati come a rischio di MI prevalentemente in base al valore di una FE severamente depressa26,27. I criteri di inclusione di questi studi sono stati poi utilizzati nelle linee guida per l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria (Tabella 1)4,5. Successivamente, nonostante la crescente evidenza dei limiti della FE nella selezione dei pazienti, non sono più stati effettuati studi randomizzati, né con singoli marker di rischio aritmico diversi dalla FE, né con associazioni di marker, prevalentemente per motivi etici. Infatti è difficilmente proponibile, sia ai pazienti che ai medici, la randomizzazione a non impianto di ICD di soggetti che secondo linee guida ormai consolidate hanno già l’indicazione all’impianto. Per lo stesso motivo è molto improbabile che anche in futuro vengano eseguiti studi randomizzati nei pazienti con FE severamente depressa. Si pone quindi il problema se sia possibile utilizzare modalità diverse di stratificazione del rischio di MI in assenza di studi randomizzati.



Un recente documento dell’American Heart Association28 ha definito i criteri per la valutazione di nuovi marker di rischio cardiovascolare. Tre di questi criteri sono di particolare importanza nell’affrontare il problema dell’impiego di nuovi marker, o di associazioni di marker, nella stratificazione prognostica della MI e nell’indicazione all’impianto di ICD: 1) valore informativo incrementale: il nuovo marker aggiunge informazioni predittive ai marker di rischio standard? 2) utilità clinica: il nuovo marker modifica la stratificazione del rischio in modo sufficiente per modificare le raccomandazioni terapeutiche? 3) outcome clinico: l’uso del nuovo marker migliora l’outcome clinico, in particolare quando studiato con trial clinici randomizzati? Per ottemperare ai primi due di questi criteri sono sufficienti studi di adeguate dimensioni e rigorosamente eseguiti, anche se non randomizzati. Va tuttavia ricordato come la MI non sia necessariamente aritmica; varie altre condizioni cliniche possono evolvere rapidamente e risultare in una MI 29-31. Inoltre, i marker di rischio di MI sono predittori anche di mortalità totale, in particolare quando testati in pazienti con FE severamente depressa. Nella valutazione della predittività del singolo marker di rischio dovrebbe essere considerata la relazione specifica con l’endpoint aritmico, ovvero la capacità del marker di differenziare tra la morte aritmica e la morte non aritmica.
Per ottemperare al terzo criterio sarebbero indicati studi randomizzati, che peraltro, come si è detto, molto difficilmente potranno essere effettuati in futuro nei pazienti con FE severamente depressa. Tuttavia, anche in assenza di studi randomizzati, possono essere di aiuto gli studi osservazionali. Ad esempio nelle recenti linee guida europee sulla diagnosi e il trattamento della cardiomiopatia ipertrofica32, le indicazioni all’ICD non sono ricavate da studi randomizzati ma solo da studi osservazionali retrospettivi che hanno permesso di definire le correlazioni tra caratteristiche cliniche e prognosi. Studi osservazionali prospettici in gruppi di pazienti sottoposti ad impianto di ICD, secondo criteri standardizzati, valutando la mortalità totale e gli interventi appropriati dell’ICD potrebbero parzialmente sostituire gli studi randomizzati. Per questo tipo di studi va però ricordato come l’endpoint intervento appropriato dell’ICD sia un endpoint surrogato che sovrastima la MI e il beneficio dell’ICD con un rapporto di circa 2:1 33; la sovrastima è ancora più evidente con l’impiego del pacing antitachicardico.
Pazienti con frazione di eiezione severamente depressa
I pazienti con FE severamente depressa (≤35%), che in base alle attuali linee guida hanno l’indicazione all’impianto di ICD4,5, costituiscono un gruppo eterogeneo, con un rischio di mortalità totale e di MI molto diverso da caso a caso. Per migliorare l’appropriatezza degli impianti di ICD sarebbe necessario separare il sottogruppo dei pazienti a rischio aritmico alto, nei quali l’ICD dovrebbe avere il massimo dell’efficacia, rispetto ad altri due sottogruppi di pazienti: a) quelli a rischio aritmico relativamente basso nei quali presumibilmente l’efficacia dell’ICD è limitata; b) quelli “troppo malati” con alto rischio di morte per evoluzione dello scompenso cardiaco o per altre patologie, nei quali l’ICD non può modificare in modo significativo la prognosi.
Identificazione dei pazienti a basso rischio di morte improvvisa nonostante la presenza di una frazione
di eiezione severamente depressa
Una analisi post-hoc dello studio MADIT-II34 ha evidenziato come, in base alla presenza o meno di 5 fattori di rischio associati alla FE (classe NYHA >2, età >70 anni, azoto ureico >26 mg/dl o creatininemia >1.3 mg/dl, durata del QRS >120 ms, fibrillazione atriale) fosse possibile identificare pazienti con livelli di rischio di mortalità differenti. Nei pazienti con assenza di altri fattori di rischio associati alla FE severamente depressa, che costituivano circa un terzo della popolazione studiata, la mortalità era dell’8% a 2 anni di follow-up e non differiva nel gruppo ICD rispetto al gruppo trattato con terapia medica. Risultati simili sono stati osservati anche nello studio MUSTT 13 con altri indici di rischio (storia di scompenso cardiaco, età, classe ­NYHA, valore di FE, tachicardia ventricolare non sostenuta [TVNS], fibrillazione atriale, inducibilità di tachicardia ventricolare sostenuta [TVS]): i pazienti con solo FE ≤30% e nessun altro fattore di rischio presentavano un rischio a 2 anni di mortalità totale del 5%. Pazienti con un rischio di mortalità totale a 2 anni del 5-8% (annuo del 2.5-4%) hanno un presumibile rischio annuo di MI dell’1-2%, valori per i quali è ben difficile ipotizzare un beneficio dall’impianto dell’ICD 35,36.
È tuttavia difficile trarre conclusioni operative dalla sola analisi dei sottogruppi degli studi MADIT-II e MUSTT. Pertanto, per meglio identificare i pazienti a basso rischio aritmico nonostante una FE severamente depressa, in questo position paper viene proposto l’impiego di un’analisi poliparametrica, associando alla FE uno o più test con elevato valore predittivo negativo nei riguardi della MI, per evidenziare i veri negativi. I marker di rischio aritmico che, associati alla FE, presentano un valore predittivo negativo >95% potrebbero essere utilizzati nell’evidenziare i pazienti nei quali il benefico dell’impianto di un ICD, in prevenzione primaria, dovrebbe essere attentamente riconsiderato, alla luce anche degli effetti indesiderati 12,37. Naturalmente, nei pazienti giudicati a basso rischio aritmico e non candidati ad impianto di ICD è però necessaria una ristratificazione del rischio aritmico seriata nel tempo37,38.
Pazienti “troppo malati” per l’impianto di defibrillatore
Nel gruppo eterogeneo di pazienti con FE severamente depressa vi sono anche quelli che in base alla presentazione clinica risultano “troppo malati” per trarre un significativo beneficio dall’impianto di ICD. Le attuali linee guida sconsigliano l’impianto di un ICD in pazienti in classe NYHA IV, ad alto rischio di mortalità ad 1 anno o con importanti comorbilità4. Tuttavia questi criteri sono abbastanza generici per evidenziare i pazienti “troppo malati” per l’impianto di ICD. È stata pertanto proposta un’analisi poliparametrica con elaborazione di una serie di score di rischio di mortalità totale per evoluzione di patologie cardiache e non cardiache.
Un vantaggio degli score prognostici è il fatto che forniscono al medico una valutazione obiettiva del rischio del paziente con scompenso cardiaco che mediamente tende ad essere sovrastimato nella valutazione clinica routinaria39. D’altro canto, un problema degli score è che per diversi motivi (serie storiche lontane nel tempo con trattamenti molto diversi dagli attuali, calcolo del rischio di mortalità totale ma non delle modalità di morte – cardiaca/non cardiaca, scompenso/morte improvvisa –, metodologia statistica, mancanza di una solida validazione esterna, selezione dei pazienti e delle variabili, imputazione dei dati mancanti, esclusione delle principali comorbilità) spesso non possiedono un potere discriminatorio ed una calibrazione ottimali, in particolare se applicati al mondo reale 40. A differenza della maggioranza dei trial, l’età media dei pazienti con scompenso cardiaco nei nostri ospedali è intorno ai 75 anni ed ognuno di loro è affetto in media da due patologie associate che aumentano significativamente il rischio di mortalità totale, ma non specificatamente di MI18. L’età non deve essere considerata di per sé un criterio di esclusione all’impianto di ICD, ma va attentamente considerato, con l’aumentare dell’età, il peso crescente delle comorbilità e del fattore aspettativa di vita. Il fatto che nei pazienti anziani con patologie associate la mortalità annua sia frequentemente >20-25%, con una proporzione di morti improvvise generalmente <20-25%, è una delle spiegazioni dell’inefficacia dell’impianto di ICD in questi pazienti, sottolineata da numerosi studi 31,41-43.
Alcuni semplici score di rischio sono stati ricavati dagli stessi studi randomizzati sull’efficacia dell’ICD13,34. È il caso dello studio MADIT-II34, già ricordato, in cui è stato riportato che nei pazienti con uno score ≥3 non si osservava alcun benefico dall’impianto di ICD neppure in un follow-up prolungato fino a 8 anni41. Ugualmente, nello studio di Levy et al.42 è stato applicato ai pazienti dello SCD-HeFT3 lo score Seattle Heart Failure Model44, precedentemente testato in pazienti con scompenso cardiaco. Ne è risultato che i pazienti con un rischio annuo di morte >20% non ricevevano alcun benefico dall’impianto di un ICD. Infine, Zhang et al.43 hanno recentemente validato, estrapolandolo dalla popolazione dello studio prospettico PROSE-ICD, uno score, basato su 6 parametri clinici (età ≥75 anni, classe NYHA III/IV, fibrillazione atriale, filtrato glomerulare <30 ml/min, diabete, uso di diuretici) con l’aggiunta di tre biomarcatori (recettore di tipo 2 del fattore di necrosi tumorale alfa, pro-peptide natriuretico di tipo B [proBNP], troponina T), che permetteva di evidenziare i pazienti con elevata probabilità di mortalità totale precoce, ma non specificamente di MI, identificando così con buona accuratezza i pazienti con scarsa probabilità di beneficio dall’impianto (quelli con score >4).
Altri modelli di score di rischio hanno arruolato pazienti più vicini al mondo reale45,46. Recentemente è stato pubblicato nello studio GISSI-HF45 un nomogramma per definire il rischio di morte totale a 2 e a 4 anni ricavato dai 6975 pazienti con scompenso cardiaco. Un altro interessante score è quello pubblicato da Senni et al.46 su una coorte di 6274 pazienti con scompenso cardiaco raccolti in 24 reparti europei di Cardiologia o Medicina Interna per predire la mortalità ad 1 anno. In questo studio, oltre a età e severità dello scompenso cardiaco (pressione arteriosa, classe NYHA, FE), andavano a comporre lo score prognostico: la presenza di stenosi aortica e di fibrillazione atriale, la prescrizione di farmaci validati per lo scompenso cardiaco ed una serie di comorbilità. Anche in questo caso, attraverso l’applicazione di questo score, è possibile identificare casi con rischio di mortalità annua ≥20% in cui l’efficacia dell’ICD non è chiara.
Sintesi: Gli score di rischio di mortalità totale possono essere molto utili nella selezione dei pazienti da sottoporre ad impianto di ICD, identificando il rischio competitivo di mortalità per evoluzione dello scompenso cardiaco e per mortalità non cardiaca. I pazienti con score di mortalità non aritmica elevato difficilmente avranno un beneficio dall’impianto di ICD e l’impianto potrebbe essere attentamente riconsiderato. 
Pazienti con frazione di eiezione moderatamente depressa
Anche questo è un gruppo eterogeneo e il livello di rischio di MI è variabile, in alcuni casi elevato7,9,10. Sarebbe quindi necessario identificare tra questi pazienti quelli che presentano un alto rischio di MI nonostante la presenza di una FE solo moderatamente depressa (>35-<45%). Nei pazienti con FE moderatamente depressa le attuali linee guida non danno l’indicazione all’impianto di ICD e non sono quindi presenti condizionamenti etici all’effettuazione di studi randomizzati con ICD. Ciò nonostante nessuno studio randomizzato è stato fino ad ora concluso. Lo studio DETERMINE 47, che randomizzava ad ICD pazienti con cardiopatia ischemica, in base a FE e risonanza magnetica cardiaca (cardio-RM), è stato sospeso per insufficiente arruolamento e lo studio REFINE-ICD (ClinicalTrials.gov, Identifier NCT00673842), che randomizza ad ICD pazienti con cardiopatia ischemica in base a FE, turbolenza della frequenza cardiaca ed alternanza dell’onda T, è ancora in corso.
Per meglio identificare il sottogruppo di pazienti ad alto rischio aritmico che potrebbero beneficiare dell’impianto di un ICD in prevenzione primaria, nonostante la FE solo moderatamente depressa, in questo position paper viene discusso l’impiego di un’analisi poliparametrica, associando alla FE uno o più marker di rischio aritmico. Pur in assenza di studi discriminanti, esistono dati osservazionali incoraggianti in proposito. Buxton et al.13, in uno studio di 674 pazienti con cardiopatia ischemica, hanno valutato la correlazione tra 25 variabili di rischio e la mortalità totale ed aritmica. I pazienti con FE >30% che presentavano contemporaneamente altri fattori di rischio aritmico avevano un rischio di MI superiore a quello dei pazienti con FE ≤30% e nessun altro fattore di rischio associato. Altri studi che hanno testato vari marker di rischio aritmico hanno confermato come l’associazione del marker ad una FE solo moderatamente depressa abbia un valore prognostico incrementale identificando pazienti con rischio di MI sovrapponibile a quello dei pazienti con FE severamente depressa ed assenza del marker di rischio testato 48,49. Ciò suggerisce come un modello poliparametrico di stratificazione del rischio di MI possa essere superiore alla sola valutazione della FE.
UTILITÀ DELLA COMBINAZIONE DI DIFFERENTI TEST NELLA STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO DI MORTE IMPROVVISA
Negli ultimi anni sono stati studiati moltissimi marker di rischio aritmico. Tuttavia solo per alcuni esiste una documentazione ampia e abbastanza univoca sull’accuratezza predittiva nei riguardi della MI, quando testati in associazione alla FE. I seguenti sei sono tra quelli studiati più approfonditamente: 1) cardio-RM con studio della captazione tardiva del gadolinio (LGE); 2) stimolazione ventricolare programmata (SVP); 3) alternanza dell’onda T; 4) tono autonomico; 5) biomarcatori; 6) test genetici.
Risonanza magnetica cardiaca con studio della captazione tardiva del gadolinio
È noto da tempo come la fibrosi ventricolare possa costituire un importante substrato aritmico in particolare nei pazienti con disfunzione ventricolare50. Il processo di rimodellamento nella disfunzione ventricolare, sia di origine ischemica che non ischemica, è caratterizzato da modifiche della matrice extracellulare, inclusa la formazione di fibrosi51. Sono disponibili vari dati sulla capacità della cardio-RM con studio della LGE di evidenziare la fibrosi miocardica, come provato anche dalle correlazioni istopatologiche52,53. La presenza e l’estensione della fibrosi determinano un substrato per le aritmie ventricolari50-54, probabilmente costituito da circuiti di rientro all’interno o intorno ad aree di fibrosi, con conduzione rallentata ed eterogenea, e con dispersione della ripolarizzazione55. In particolare la zona peri-infartuale (o “gray zone”) esemplifica questa situazione essendo caratterizzata da zone con livelli diversi di fibrosi inglobanti anche isole di tessuto vitale55 (Figura 1). Nella cardiopatia dilatativa non ischemica la fibrosi, quando presente, appare per lo più all’interno dello spessore della parete miocardica (“midwall fibrosis”). Nella cardiopatia ischemica la fibrosi è invece presente in quasi tutti i pazienti, caratterizzata da un centro fibrotico con una zona eterogenea peri-infartuale.



Recentemente sono stati pubblicati numerosi studi sul ruolo della cardio-RM con LGE nella stratificazione prognostica della MI. Nella Tabella 2 vengono riportati i dati relativi a 17 studi (2430 pazienti) nei quali l’analisi statistica includeva specificamente un endpoint aritmico48,52,56-70. Tutti hanno evidenziato una correlazione statisticamente significativa, tra la presenza o l’entità della fibrosi ventricolare documentata con la cardio-RM con LGE e gli eventi aritmici, sia nella cardiopatia ischemica che nella cardiopatia dilatativa non ischemica, in soggetti con FE sia moderatamente che severamente depressa. Inoltre, in molti di questi studi il valore predittivo negativo nei riguardi della MI risultava elevato (>95%)62,63,67,68,71,72, quando alla sola valutazione della FE veniva aggiunta la valutazione della fibrosi con LGE. Il cut-off per la definizione del rischio di MI variava in base alla popolazione studiata. Nei pazienti con cardiopatia dilatativa non ischemica l’elemento discriminante era generalmente la presenza o meno di fibrosi identificata con il LGE ed in particolare l’aspetto di “midwall fibrosis”52,62-66. Nella cardiopatia ischemica il discorso era più complesso: particolarmente correlati con gli eventi aritmici sembravano essere la presenza di un’ampia zona di fibrosi ed in particolare di un’estesa fibrosi peri-infartuale56-60,69.



Lo studio più ampio è quello di Gulati et al.52 che hanno studiato prospetticamente 472 pazienti con cardiopatia dilatativa non ischemica per una durata media del follow-up di oltre 5 anni. Il valore medio della FE era 37% e una “midwall fibrosis” era presente nel 30% dei pazienti. L’endpoint aritmico (MI o scarica appropriata dell’ICD) era raggiunto dal 29.6% dei pazienti con presenza di fibrosi ventricolare vs il 7.0% (1.31% annuo) dei pazienti senza fibrosi. All’analisi multivariata il rischio per l’endpoint aritmico era da 2 a 4 volte più elevato rispetto a quello per la mortalità totale (4.61 vs 2.43) suggerendo quindi una relazione specifica con la MI. L’aggiunta dello studio della fibrosi ventricolare alla sola misurazione della FE determinava un significativo miglioramento nella classificazione dei pazienti ad alto e a basso rischio di eventi aritmici (indice di riclassificazione 0.29; p=0.002).
Inoltre, per quanto riguarda la relazione specifica con l’end-point aritmico lo studio di Demirel et al.59, relativo a 94 pazienti con cardiopatia ischemica sottoposti ad impianto di ICD e con un follow-up di oltre 5 anni, evidenziava come l’ampiezza della zona peri-infartuale si correlasse con l’endpoint relativo agli interventi appropriati dell’ICD (hazard ratio [HR] 2.01; intervallo di confidenza [IC] 95% 1.17-3.44), mentre l’aumento dell’età e la riduzione della FE si correlavano solo con la mortalità totale.
In due studi è stata valutata anche l’associazione della cardio-RM LGE con i biomarcatori. Nello studio PROSE-ICD72, in 235 pazienti sottoposti ad impianto di ICD (137 con cardiopatia ischemica e 98 con cardiopatia dilatativa non ischemica), associando la valutazione della “gray zone” (zona di eterogeneità miocardica) con i livelli di proteina C-reattiva, fu possibile identificare un gruppo a basso rischio di interventi appropriati dell’ICD (nessun intervento accertato) rispetto ad un gruppo ad alto rischio (10.3% annuo). Anche associando la percentuale di fibrosi con il livello di N-terminal-proBNP, in 157 pazienti (61 con cardiopatia ischemica e 96 con cardiopatia dilatativa non ischemica), potevano essere distinti un gruppo a basso rischio di interventi appropriati dell’ICD (1% annuo) ed un gruppo ad alto rischio (10.1% annuo) 69.
Questi dati sono stati confermati da due metanalisi. Nella metanalisi di Scott et al.73 relativa a 1063 pazienti (572 con cardiopatia ischemica e 491 con cardiopatia dilatativa non ischemica), l’estensione della fibrosi valutata mediante LGE era fortemente associata alla comparsa di aritmie ventricolari, indipendentemente dal livello di riduzione della FE, con un rischio relativo di 4.33 (IC 95% 2.98-6.29). La metanalisi di Kuruvilla et al.71 era invece relativa a 1488 pazienti con cardiopatia dilatativa non ischemia (9 studi), con valore medio della FE del 37% e fibrosi ventricolare presente nel 45% dei pazienti. I pazienti con presenza di fibrosi avevano un rischio annuo di eventi aritmici del 6% vs l’1.2% dei pazienti senza fibrosi (p<0.001) con un odds ratio di 5.32 (IC 95% 3.45-8.20).
Probabilmente lo studio della fibrosi ventricolare con cardio-RM LGE è il più importante progresso degli ultimi anni nella valutazione del rischio di MI. Tuttavia la metodica presenta ancora alcuni problemi legati alla sua standardizzazione metodologica, alla definizione dei criteri di positività ed ai problemi organizzativi per una sua ampia disponibilità pratica.
Sintesi: Nei pazienti con FE severamente depressa, l’assenza di fibrosi ventricolare (nella cardiopatia dilatativa non ischemica) o la scarsa estensione della fibrosi ed in particolare della zona peri-infartuale (nella cardiopatia ischemica) identificano un sottogruppo di pazienti con rischio di MI relativamente basso, nei quali l’indicazione all’impianto di un ICD in prevenzione primaria potrebbe essere attentamente riconsiderata. Inoltre, nei pazienti con FE solo moderatamente depressa, la presenza di fibrosi, in particolare di “midwall fibrosis” (nella cardiopatia dilatativa non ischemica) o un’ampia zona fibrotica ed in particolare un’ampia zona peri-infartuale (nella cardiopatia ischemica), identificano un sottogruppo di pazienti a rischio relativamente alto di MI nei quali l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria potrebbe essere presa in considerazione.
Stimolazione ventricolare programmata
Agli inizi degli anni ’80 si dimostrò chiaramente che la TVS nella cardiopatia ischemica postinfartuale era dovuta a un meccanismo di rientro e che la SVP, eseguita nel corso di uno studio elettrofisiologico endocavitario, era in grado di indurre riproducibilmente l’aritmia clinica in >90% dei casi74. Il razionale è legato al fatto che in presenza di una cicatrice e di un’area di fibrosi peri-infartuale si creano le condizioni, attraverso modifiche della conduzione e della refrattarietà, per un circuito di rientro anatomico o funzionale e che stimoli elettrici appropriatamente temporizzati ed immessi nel circuito possono innescare l’aritmia. Poiché la TVS può precipitare l’arresto cardiaco, o direttamente o per una desincronizzazione in fibrillazione ventricolare, la SVP venne introdotta e utilizzata largamente in pazienti senza evidenza nota di TVS nell’ipotesi che l’induzione di una TVS fosse un marker di elevato rischio di eventi aritmici maligni. Il passo successivo fu quello di verificare l’ipotesi che sopprimendo le aritmie inducibili con un trattamento farmacologico antiaritmico appropriato si sarebbe ridotto il rischio di morte MI. Nel 1999 vennero pubblicati i risultati dello studio clinico randomizzato MUSTT 75 disegnato per verificare se una terapia elettro-guidata fosse in grado di ottenere questo risultato.
Nel MUSTT75,76 2202 pazienti con cardiomiopatia postinfartuale, FE ≤40% e TVNS asintomatiche vennero sottoposti a SVP. In 1435 pazienti non vennero indotte tachiaritmie. I 704 pazienti inducibili (circa 35%) e che accettarono di entrare nello studio vennero randomizzati a terapia farmacologica elettro-guidata e se non efficace a impianto di ICD, o a nessuna terapia. Con un follow-up di 39 mesi il trial ha dato due importanti risposte: 1) i pazienti inducibili trattati con terapia antiaritmica elettro-guidata presentavano mortalità non sostanzialmente diversa dai pazienti non trattati e ciò che faceva la differenza in termini di prolungamento della sopravvivenza era solo l’ICD (ovviamente il problema non era legato a un difetto del test ma all’inefficacia/effetto proaritmico dei farmaci antiaritmici); 2) i pazienti con TVS sostenuta inducibile andavano incontro ad arresto cardiaco o MI con percentuale superiore ai pazienti non inducibili e non trattati (a 2 anni: 18 vs 12%; HR 0.66; p<0.001). La predittività del test risultava particolarmente elevata nei pazienti con FE compresa tra 30% e 40% nei quali il rischio relativo per MI era superiore al rischio relativo per morte non improvvisa (2.0 vs 1.5). Tuttavia si ritenne che il valore predittivo negativo della metodica (88% a 2 anni) non fosse abbastanza alto per permettere di selezionare i pazienti a basso rischio di MI nell’ambito di quelli con FE severamente depressa.
La validità della SVP nella stratificazione del rischio aritmico nella cardiopatia ischemica è stata confermata in altri studi che hanno evidenziato come l’inducibilità di tachiaritmie durante SVP sia un importante predittore di MI16,37,77-80. In particolare nello studio ABCD81 566 pazienti con cardiopatia ischemica, FE <40% e TVNS, sono stati sottoposti sia ad un test con alternanza dell’onda T (in sospensione di betabloccante) che ad un test con SVP. Le due metodiche hanno evidenziato lo stesso valore predittivo negativo del 95% se considerate isolatamente, mentre il valore predittivo negativo cresceva al 98% nei pazienti con negatività di entrambi i test. Di notevole interesse il fatto che il 55% dei pazienti presentasse dei risultati discordanti dei test suggerendo l’ipotesi che i due test possano essere complementari valutando differenti componenti del substrato aritmogeno.
Una riconsiderazione sull’utilizzo della SVP è ricavabile dalle sottoanalisi sia del MUSTT82 che del MADIT-II83 che hanno ripreso e rinforzato quanto noto: l’inducibilità di una tachiaritmia ventricolare e soprattutto il suo significato prognostico sono funzione del grado di disfunzione ventricolare sinistra; in pazienti con FEVS ≤30% l’inducibilità costituisce una risposta abbastanza aspecifica, mentre in pazienti con FE tra 30% e 40%, soprattutto se in presenza di TVNS frequenti, l’inducibilità di una TVS consente di identificare un gruppo di pazienti a più alto rischio di eventi aritmici maggiori. Ancora oggi le linee guida AIAC del 2011 84 e ACCF/AHA/HRS del 20124 per l’indicazione all’impianto di ICD, in pazienti con cardiopatia postinfartuale, inducibilità di TVS o fibrillazione ventricolare alla SVP, FE ≤40% e TVNS, danno un’indicazione all’ICD di classe I con livello di evidenza B, ma l’uso clinico è andato progressivamente a ridursi.
I limiti della SVP come marker di rischio sono non indifferenti: è un test invasivo non scevro di rischi, è costoso, manca di un protocollo universalmente riconosciuto come il più utile (anche se per ragioni di numerosità di campione e risultati il protocollo applicato nel MUSTT, sino a 3 extrastimoli su due cicli base da due sedi del ventricolo destro, costituisce quello più consigliabile); il test lascia incertezze se manca la riproducibilità della tachiaritmia indotta e soprattutto se la stessa è una tachicardia ventricolare polimorfa e ad alta frequenza; infine, il test con tutta probabilità fornisce risposte molto diverse se viene eseguito nella fase acuta del postinfarto o nella fase cronica. Tuttavia, in un recentissimo editoriale Buxton 85, commentando i risultati di uno studio australiano che ribadisce l’utilità della SVP nei soggetti con FE ≤40%86, sostiene che la SVP resta un marker di utilità clinica.
I risultati positivi del test sono a oggi limitati alla cardiopatia ischemica; nella cardiopatia dilatativa non ischemica i dati restano invece ancora controversi o contraddittori87,88. È in corso lo studio prospettico EUTrigTreat89, che in 700 pazienti, con cardiopatia ischemica e cardiopatia dilatativa non ischemica con indicazione all’ICD, dovrebbe valutare il valore prognostico nei riguardi della mortalità (endpoint primario) e di un endpoint secondario aritmico (intervento appropriato dell’ICD) di numerosi test diagnostici tra cui la SVP.
Sintesi: Nei pazienti con cardiopatia ischemica e FE solo moderatamente depressa, l’inducibilità di TVS con SVP identifica un sottogruppo di pazienti a rischio relativamente alto di MI nei quali l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria potrebbe essere presa in considerazione.
Alternanza dell’onda T
Tra i vari test non invasivi proposti per migliorare la stratificazione del rischio di MI, l’alternanza dell’onda T (“microvolt T-wave alternans”, TWA) sembra essere uno dei più affidabili90-92. Esistono più metodiche per valutare la TWA; quella più studiata prevede un’analisi spettrale della ripolarizzazione ventricolare e mette in evidenza oscillazioni con rapporto 2:1, dopo graduale incremento di frequenza indotto da una prova da sforzo. Molteplici condizioni elettrofisiologiche sono alla base del fenomeno di oscillazione dell’onda T e la TWA è in grado di fornire una valutazione temporale e spaziale dell’eterogeneità della ripolarizzazione ventricolare, fenomeno che può facilitare le aritmie ventricolari 90,93,94. A differenza della FE che analizza il fenomeno aritmico solo indirettamente, la TWA è direttamente collegata con i meccanismi aritmogenici cellulari, in particolare riflettendo fluttuazioni della concentrazione intracellulare di Ca++ 90.
Numerosi ampi studi hanno evidenziato l’efficacia della TWA nella stratificazione del rischio di MI sia in pazienti con cardiopatia ischemica che in quelli con cardiopatia dilatativa non ischemica, in particolare con un elevato valore predittivo negativo95-99. Nello studio multicentrico di Merchant et al.100, relativo a 2883 pazienti con cardiopatia ischemica e cardiopatia dilatativa non ischemica, il rischio annuo di MI era 0.4% in presenza di un test TWA negativo (0.9% nel sottogruppo di 1004 pazienti con FE ≤35%). Gli stessi autori in un successivo studio policentrico101 evidenziavano l’utilità di un’analisi poliparametrica nella stratificazione del rischio di MI: in un pool di 3335 pazienti, l’associazione di tre parametri che tenevano conto del substrato anatomo-elettrofisiologico (valore di FE, presenza di cardiopatia ischemica e risultato della TWA) presentava un c-index di 0.817, superiore a quelli della sola FE (0.637) e della sola TWA (0.716).
A fronte dei molti studi con risultati positivi sull’utilità della TWA nella stratificazione del rischio di MI vanno segnalati anche alcuni studi con risultati negativi102-104. In una sottoanalisi dello studio SCD-HeFT102 la TWA non risultava essere un predittore degli eventi aritmici. Anche nello studio multicentrico MASTER103, che ha arruolato 575 pazienti con cardiopatia ischemica e FE severamente depressa, la TWA non era predittiva degli eventi aritmici ma solo della mortalità totale. Il risultato negativo di questi studi potrebbe essere in parte imputato alla metodologia impiegata, in quanto in entrambi gli studi veniva sospesa la terapia betabloccante prima del test. Nella metanalisi di Chan et al.105 viene evidenziata l’importanza di eseguire il test con TWA senza sospendere la terapia betabloccante: il valore predittivo negativo del test nei riguardi della MI era del 98% nei pazienti studiati in terapia, mentre scendeva al 91% in quelli studiati dopo sospensione del betabloccante.
Comunque tutte le metanalisi88,105-108 confermano la predittività della TWA nei riguardi degli eventi aritmici con un valore predittivo negativo del 95-98% (Tabella 3). La Consensus Guideline dell’International Society for Holter and Noninvasive Electrocardiology90, pubblicata nel 2011, sostiene che la TWA sia una metodica che può fornire valide ed indipendenti informazioni sul rischio cardiovascolare, in particolare di MI, ma che il suo utilizzo deve essere sempre guidato dalla FE. La TWA non può essere eseguita in pazienti con fibrillazione atriale o con frequenti extrasistoli ventricolari, nei pazienti nei quali permanga dopo insufficienza cardiaca acuta una classe NYHA IV104 in quanto non utile, e in quelli che non riescono ad effettuare la prova da sforzo ed a raggiungere una frequenza adeguata in terapia betabloccante.



Tuttavia, sono state introdotte delle metodiche per la valutazione della TWA durante registrazione Holter, che permettono di superare molte delle limitazioni legate alla metodica effettuata con prova da sforzo. Vari studi91,109,110 hanno confermato il valore predittivo della TWA valutata tramite registrazione Holter nei riguardi degli eventi aritmici, sia nella cardiopatia ischemica che nella cardiopatia dilatativa non ischemica, con elevato valore predittivo negativo (94-99%). Nello studio di Monasterio et al.109, relativo a 650 pazienti con scompenso cardiaco moderato (oltre metà dei pazienti avevano una FE ≤35%) e con un follow-up medio di 4 anni, il risultato della TWA era statisticamente significativo (p=0.001) nel differenziare i pazienti a rischio alto di MI rispetto a quelli con rischio relativamente basso.
Maggiori informazioni sul test della TWA saranno disponibili dopo il completamento dello studio REFINE-ICD attualmente in fase di arruolamento dei pazienti. Lo studio randomizza ad ICD o solo terapia medica ottimale 1400 pazienti sopravvissuti ad infarto del miocardio, con FE compresa tra 36% e 50%, positività del test con TWA e riduzione degli indici di turbolenza della frequenza cardiaca.
Sintesi: Nei pazienti sia con cardiopatia ischemica che con cardiopatia dilatativa non ischemica e con FE severamente depressa, la negatività del test della TWA (purché eseguito in terapia betabloccante) identifica un sottogruppo di pazienti con rischio di MI relativamente basso, nei quali l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria potrebbe essere attentamente riconsiderata.
Tono autonomico
Numerose osservazioni cliniche e sperimentali hanno messo in evidenza che alterazioni del sistema nervoso autonomo, ed in particolare un’attivazione simpatica e una ridotta modulazione vagale, hanno un importante effetto pro-aritmico e possono facilitare l’insorgenza di tachicardia/fibrillazione ventricolare, in particolare nella cardiopatia ischemica111,112. Le principali metodiche utilizzate nei vari studi sono: l’analisi della variabilità della frequenza cardiaca, della sensibilità barocettiva e della turbolenza della frequenza cardiaca (“heart rate turbulence”, HRT).
Inizialmente è stata osservata la correlazione tra compromissione degli indici autonomici e mortalità, come confermato dallo studio ATRAMI113 in 1284 pazienti con cardiopatia ischemica: la mortalità totale a 2 anni era del 17% nel gruppo con bassi valori sia di variabilità della frequenza cardiaca che di sensibilità barocettiva rispetto al 2% dei pazienti con tono autonomico conservato. Successivamente, considerando solo gli studi più recenti e con più ampia casistica, l’ISAR-Risk49 ha arruolato 2343 pazienti con cardiopatia ischemica (120 con FE ≤30%), valutando la correlazione di un’anormale HRT con la MI in un follow-up di 5 anni. La presenza di una severa depressione del tono autonomico nei pazienti con FE >30% evidenziava un gruppo di pazienti con rischio di MI simile a quello dei pazienti con FE ≤30% ma normale tono autonomico.
Una conferma dell’utilità dell’associazione di più test è stata fornita dallo studio REFINE114 in 322 pazienti con cardiopatia ischemica, studiati a differente distanza dall’infarto (2-4 settimane e 10-14 settimane). Nelle analisi effettuate a 10-14 settimane dall’infarto, il valore predittivo di una depressa HRT (HR 2.91; IC 95% 1.13-7.48) aumentava se il test era associato ad un test con TWA anormale (HR 4.18; IC 95% 2.06-8.32) nei riguardi di un endpoint combinato di morte cardiaca e di eventi aritmici maggiori. L’ulteriore aggiunta di un FE <50% portava il valore dell’HR a 6.22 (IC 95% 2.88-13.42). Questa combinazione di test permetteva di identificare il 52% dei pazienti a rischio con un valore predittivo negativo del 95%. Considerando la FE, il voltaggio della TWA e la depressione della HRT come variabili continue ed indipendenti, costruendo le curve ROC il valore dell’area sottesa alla curva era di 0.66 per il test con HRT ed aumentava a 0.73 con l’aggiunta del test con TWA; aggiungendo anche il valore della FE il valore dell’area sottesa alla curva aumentava a 0.81 che viene considerato un livello di buona capacità discriminante. Una successiva analisi cumulativa 115 degli studi REFINE e CARISMA, volta ad evidenziare il ruolo prognostico del recupero del tono autonomico dopo un infarto, documentava come la persistenza di una depressione dell’HRT a distanza di 6-14 settimane dall’infarto si accompagnava ad un aumentato rischio di eventi aritmici (HR 9.4; IC 95% 1.2-71.6, per il CARISMA e HR 7.0; IC 95% 1.6-29.6, per il REFINE) con un valore predittivo negativo molto elevato (98-99%). In base a questi risultati è stato iniziato lo studio randomizzato REFINE-ICD, già precedentemente descritto a proposito dello studio della TWA.
Un’ulteriore conferma del ruolo prognostico dell’HRT nei pazienti con FE solo moderatamente depressa è fornita dai risultati dello studio di Makikallio et al.7: in 2130 pazienti con cardiopatia ischemica l’HRT era l’unico indice autonomico che restava significativo per MI all’analisi multivariata (HR 5.9; IC 95% 2.9-11.7) nel gruppo di pazienti con FE compresa tra 36% e 50%. Infine, anche in una sottoanalisi dello studio GISSI-HF116, che arruolava pazienti con scompenso cardiaco da ogni causa, l’HRT risultava essere un predittore di eventi aritmici nei pazienti con FE >30%.
L’HRT sembra quindi essere al momento la metodica più interessante per la studio del tono autonomico nella cardiopatia ischemica, in particolare nei pazienti con FE solo moderatamente depressa. Tuttavia necessita di una registrazione Holter della durata di alcune ore per contenere un numero adeguato (>30) di battiti prematuri ventricolari per poter calcolare i parametri dell’HRT49. Nei pazienti che non presentano extrasistolia ventricolare non è possibile utilizzare questo marker di rischio aritmico, anche se la stessa registrazione Holter può essere utilizzata per il calcolo di altri indici di alterato tono autonomico come la variabilità della frequenza cardiaca.
Sintesi: Nei pazienti con FE solo moderatamente depressa, una ridotta HRT (in particolare se associata ad una positività del test con TWA) sembra identificare un sottogruppo di pazienti a rischio relativamente alto di MI. Tuttavia, per un utilizzo della metodica nella valutazione di un eventuale impianto di ICD sembra opportuno attendere i risultati di ulteriori studi ed in particolare quelli dello studio randomizzato REFINE-ICD.
Biomarcatori
Si stanno moltiplicando gli studi sul ruolo dei biomarcatori, sia nella cardiopatia ischemica che nella cardiopatia dilatativa non ischemica, nella speranza di evidenziare un loro valore predittivo nel differenziare il rischio di mortalità totale da quello di MI. Purtroppo i risultati sono stati fino ad ora controversi e deludenti117-123.
Nonostante alcune analisi abbiano suggerito una correlazione tra livelli di peptidi natriuretici e incidenza di aritmie ventricolari e/o MI117,118, attualmente il ruolo dei biomarcatori resta confinato nella valutazione del grado di gravità della disfunzione ventricolare/scompenso cardiaco con la peraltro nota rilevanza prognostica negativa, in caso di marcato/persistente loro aumento. Tale considerazione viene confermata dai recenti dati del PROSE-ICD122 in 1189 pazienti con cardiopatia ischemica e cardiopatia dilatativa non ischemica, sottoposti ad impianto di ICD e seguiti prospetticamente per 4 anni; valori elevati dei biomarcatori di infiammazione, di danno cardiaco e di attivazione neurormonale risultavano predittori di mortalità totale ma non di MI.
Un potenziale ruolo per i biomarcatori potrebbe essere quello di rendere più affidabile l’identificazione dei pazienti da escludere da ipotesi d’impianto, per l’elevato gravità clinica e per il conseguente rischio di mortalità precoce122,123, come confermato anche recentemente dai risultati dello studio PROSE-ICD che ha permesso la costruzione di uno score di stratificazione prognostica per la mortalità totale43.
Sintesi: Nonostante il dosaggio dei biomarcatori sia comunemente utilizzato in cardiologia nella stratificazione prognostica, la capacità di rivelarsi predittori di MI non è dimostrata per i biomarcatori normalmente impiegati nella pratica clinica.
Studio genetico
Con gli studi di “genome-wide association” sono stati evidenziati numerosi polimorfismi comuni che si associano ad un aumentato rischio di tachicardia/fibrillazione ventricolare in pazienti con cardiopatia ischemica124,125. Tuttavia questi studi sono in fase iniziale e non possono essere ancora impiegati dal punto di vista clinico.
Ben diversa è la situazione per la cardiopatia dilatativa non ischemica. Almeno il 25% dei casi di cardiopatia dilatativa non ischemica hanno una trasmissione familiare che suggerisce un’origine genetica126,127. Analogamente ad altre forme di cardiomiopatia, il semplice riscontro anamnestico di familiarità per cardiomiopatia dilatativa con episodi di MI può essere considerato un criterio di alto rischio di MI. Nelle linee guida 2013 sull’appropriatezza all’impianto di ICD in prevenzione primaria, nei pazienti con familiarità per cardiomiopatia dilatativa associata ad episodi di MI e disfunzione ventricolare (anche con FE >35%) viene data un’appropriatezza all’impianto di classe I 5. Inoltre, le linee guida attribuiscono un’appropriatezza di classe II nei pazienti con ECG ed ecocardiogramma normali ma presenza di mutazione genetica causale. Questo concetto è stato ripreso anche dal recente documento di consenso dell’HRS/ACC/AHA del 2014 sulle indicazioni all’ICD in pazienti non adeguatamente rappresentati nei grandi trial23. Anche in questo caso il consenso è che i pazienti con cardiomiopatia dilatativa familiare con storia familiare di MI possono beneficiare di un ICD in prevenzione primaria anche durante le fasi iniziali della malattia nonostante un miglioramento della funzione di pompa con terapia medica.
Il progresso nelle conoscenze sulle basi genetiche della cardiomiopatia dilatativa sta aumentando il numero di pazienti per i quali la causa genetica viene confermata. Mancano tuttavia ampi studi di correlazione tra tipo di mutazione e rischio di MI. Dati preliminari suggeriscono che mutazioni in alcuni geni possono essere particolarmente aritmogeniche e associate ad aumentato rischio di MI, come nel caso dei geni LMNA, TNNT2, SGCD, RBM20, e CHRM23. Particolare attenzione dovrebbe essere data alle mutazioni del gene della lamina A/C (LMNA)128,129. Mutazioni del gene LMNA possono essere osservate nell’8% dei casi di cardiomiopatia dilatativa familiare e in circa il 2% dei casi sporadici126,130. Una laminopatia può essere sospettata in particolare in presenza di elevati livelli di creatinfosfochinasi e di blocco atrioventricolare130,131. Pasotti et al.132 hanno dimostrato che i pazienti con difetti del gene LMNA sono a rischio sia di scompenso cardiaco che di MI; tuttavia il rischio aritmico sembra essere quello predominante. In uno studio multicentrico129 di 269 pazienti portatori di una mutazione della lamina A/C il rischio di aritmie ventricolari maligne era elevato, in particolare in presenza di mutazione “non-missense”, FE <45%, TVNS e genere maschile. Al contrario i pazienti con cardiomiopatia dilatativa “X-linked”, dovuti ad una mutazione del gene della distrofina, hanno un rischio di scompenso cardiaco nettamente superiore rispetto al rischio di MI133.
Siamo in attesa della parte genetica dello studio PROSE-ICD134, già precedentemente descritto per i biomarcatori, nel quale sono stati prelevati campioni di sangue per un’analisi genomica, proteomica e metabolomica. L’indagine genetica clinica è ormai diventata efficiente sia dal punto di vista dei tempi che dei costi grazie alle tecniche di sequenziamento di nuova generazione. Bisogna tuttavia ricordare che l’interpretazione dei test genetici è molto complessa e deve essere affidata a genetisti clinici competenti in centri di riferimento 126.
Sintesi: Associato alla misurazione della FE, lo studio genetico, clinico e laboratoristico può contribuire alla stratificazione del rischio di MI. Ne viene proposto l’utilizzo nella cardiomiopatia dilatativa su base familiare, in particolare per l’identificazione di una familiarità per MI e per l’identificazione di una mutazione patologica della lamina A/C, aspetti che selezionano pazienti ad alto rischio di MI pur in presenza di una FE solo moderatamente depressa.
CONCLUSIONI
È opinione corrente che le attuali linee guida, basate sul valore della FE, non permettano la miglior selezione dei pazienti da sottoporre ad impianto di ICD in prevenzione primaria, non consentendo quindi il miglior utilizzo dell’ICD sia nella cardiopatia ischemica che nella cardiopatia dilatativa non ischemica. La FE da sola ha dei limiti sia di sensibilità che di specificità. Un’analisi del rischio aritmico con una combinazione di più test (FE associata ad uno o più marker che analizzino il fenomeno aritmico) potrebbe in parte sopperire a questi limiti.
In particolare vi sono tre gruppi di pazienti, per ora non completamente valutati nelle linee guida, nei quali l’appropriatezza dell’impianto di ICD potrebbe essere migliorata da un’analisi poliparametrica come sopra riportato: 1) pazienti con FE severamente depressa, ma con alto rischio competitivo per morte da scompenso cardiaco o da patologia extracardiaca nei quali verosimilmente l’impianto di un ICD non modificherebbe in modo significativo la prognosi; 2) pazienti con FE severamente depressa, ma con rischio relativamente basso di MI, nei quali l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria potrebbe essere attentamente riconsiderata; 3) pazienti con FE solo moderatamente depressa, ma con un rischio relativamente alto di MI, nei quali l’indicazione all’impianto di ICD in prevenzione primaria potrebbe essere presa in considerazione. In questi pazienti, in attesa di una più completa valutazione nelle linee guida, le indicazioni all’ICD andrebbero criticamente valutate caso per caso in base alla storia familiare, alla clinica e ad una valutazione strumentale poliparametrica come sopra riportato (Figure 2 e 3). Le conclusioni e le incertezze dovrebbero essere condivise con il paziente e dovrebbero portare ad un consenso veramente “informato”. Il concetto che si sta imponendo di “sharing the work” o di “healthcare co-production” tra paziente e medico dovrebbe avere come campo di realizzazione preferenziale quello dell’uso dell’ICD come strumento terapeutico preventivo .
Deve inoltre essere ricordato come l’impianto di un ICD non sia privo di effetti indesiderati. Una recente revisione sistematica della letteratura di Persson et al.12 ha evidenziato una incidenza di eventi indesiderati severi all’impianto dell’1.2-1.4%, caratterizzati in particolare da pneumotorace ed arresto cardiaco, e di eventi indesiderati nel lungo periodo dello 0.1-6.4%, caratterizzati in particolare da complicanze legate ai cateteri, infezioni e trombosi. Circa un paziente su 5 lamenta degli shock inappropriati che, oltre allo scadimento della qualità di vita, possono determinare anche un aumento della mortalità 135. Inoltre l’ICD è un apparecchio costoso che richiede frequenti controlli durante il follow-up. Benché i dati non siano tutti concordanti14, l’impianto di un ICD, effettuato secondo le attuali linee guida, viene considerato costo-efficace136. Tuttavia se una strategia di stratificazione del rischio aritmico più complessa potesse migliorare l’appropriatezza degli impianti, ciò determinerebbe un notevole vantaggio sia nel rapporto costo-beneficio che nel rapporto rischio-beneficio. Il modesto aumento dei costi legato alla stratificazione del rischio sarebbe ampiamente compensato dalla migliore appropriatezza dell’impianto.






Va infine ricordato come la definizione del rischio non sia statica, ma possa evolvere nel tempo, rendendo necessaria la sua periodica rivalutazione a distanza di tempo in base all’evoluzione del quadro clinico. Ad esempio viene attualmente suggerito di rinviare di 3-9 mesi l’impianto di un ICD nello scompenso cardiaco di recente diagnosi, per valutare se una terapia medica ottimale possa migliorare in modo significativo la disfunzione del ventricolo sinistro23. Nessun test di stratificazione del rischio aritmico può essere considerato valido “per sempre”; tuttavia la scelta dei tempi per la sua periodica ripetizione sono condizionati oltre che dagli aspetti clinici del paziente anche dalla complessità della metodica impiegata.
Vi sono ancora dei limiti all’impiego di marker di rischio di MI diversi dalla FE, legati oltre all’assenza di studi randomizzati, alla necessità di una standardizzazione delle metodiche, alla definizione dei criteri di positività, alle competenze richieste per un’esatta valutazione e, per alcuni, ai costi. Tuttavia, l’attuazione di un’analisi poliparametrica che utilizzi tecniche di valore informativo e prognostico incrementale sembra essere la strada più efficace per migliorare l’appropriatezza nell’impiego degli ICD e in tal senso dovrebbero orientarsi le ricerche future. I dati oggi disponibili danno segnali incoraggianti.
RIASSUNTO
È opinione corrente che le attuali linee guida, basate sul valore della frazione di eiezione, non permettano la miglior selezione dei pazienti da sottoporre ad impianto di cardioverter-defibrillatore (ICD) in prevenzione primaria, non consentendo quindi il miglior utilizzo dell’ICD nella disfunzione ventricolare sinistra sia di origine ischemica che non ischemica. La frazione di eiezione da sola ha dei limiti sia di sensibilità che di specificità. Una valutazione del rischio di morte improvvisa con una combinazione di più test (la frazione di eiezione associata ad altri marker di rischio aritmico) potrebbe in parte sopperire a questi limiti.
In questo position paper viene discussa la possibile utilità di un’analisi poliparametrica utilizzando alcuni dei marker di rischio di morte improvvisa più studiati, quali la risonanza magnetica cardiaca con valutazione della captazione tardiva del gadolinio, la stimolazione ventricolare programmata, l’alternanza dell’onda T, il tono autonomico, i biomarcatori e i test genetici.
Parole chiave. Alternanza dell’onda T; Aritmie ventricolari; Cardioverter-defibrillatore impiantabile; Morte improvvisa; Risonanza magnetica cardiaca; Scompenso cardiaco.
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