Il colesterolo: fatti, miti e passi avanti
Claudio Borghi
Cattedra di Medicina Interna, Università degli Studi, Bologna

L’identificazione del ruolo dei fattori di rischio cardiovascolare ha rappresentato uno straordinario progresso per la comprensione dei meccanismi che sono alla base dello sviluppo delle malattie cardiovascolari, in quanto ha permesso una definizione quantitativa della probabilità che un determinato soggetto possa sviluppare una malattia cardiovascolare, soprattutto a livello del distretto coronarico e cerebrovascolare. Tra i fattori di rischio con maggiore impatto fisiopatologico e prognostico l’ipercolesterolemia gioca un ruolo di primissimo piano ed insieme all’ipertensione arteriosa costituisce il maggiore responsabile per lo sviluppo della malattia aterosclerotica 1 e delle sue complicanze. Il meccanismo responsabile del danno vascolare nei pazienti ipercolesterolemici è largamente dominato dalla sua “intrusione” a livello degli strati vascolari della parete arteriosa con conseguente innesco di una serie di meccanismi cellulari, neuroumorali ed infiammatori che contribuiscono in varia misura allo sviluppo dell’aterosclerosi dapprima subclinica, poi macroscopicamente evidente e successivamente complicata quando i fattori della coagulazione prendono il sopravvento e sono responsabili dello sviluppo di quelle complicanze acute come infarto miocardico acuto ed ictus/attacco ischemico transitorio che hanno reso la colesterolemia soggetto privilegiato sia della scienza medica che della saggezza popolare e dei media.
In termini clinici, l’aspetto più rilevante per la comprensione del ruolo dell’ipercolesterolemia è tuttavia rappresentato dal fatto che i livelli plasmatici di colesterolo possono essere efficacemente ridotti con un appropriato intervento terapeutico, la cui ricaduta diretta è rappresentata dalla parallela riduzione del rischio e dell’incidenza di complicanze cardiovascolari maggiori1 con conseguenti vantaggi prognostici evidenti per la società e per i pazienti affetti da dislipidemie. Una miriade di studi clinici più o meno ampi e rigorosi hanno dimostrato come sia possibile tracciare una funzione lineare tra la riduzione dei livelli di colesterolo LDL e l’incidenza di cardiopatia ischemica, e come tale linearità resti assai significativa qualora si utilizzi, in luogo della variazione, il valore assoluto dei livelli di colesterolo LDL acquisti per effetto della terapia 2,3. Tale rappresentazione della realtà di intervento ipolipemizzante vale sia per i pazienti con pregressa patologia cardiovascolare (prevenzione secondaria) sia nei soggetti apparentemente sani (prevenzione primaria), anche se è evidente tra le due popolazioni una chiara differenza nel rischio assoluto di incorrere in un evento cardiovascolare.
Per quanto riguarda la prevenzione cerebrovascolare la realtà è analoga, ma richiede una doverosa precisazione che emerge dai dati dello studio MRFIT4 e di un paio di altre esperienze di popolazione che dimostrano come la linearità di rapporto sia limitata alle complicanze cerebrali di natura ischemica in accordo con il razionale fisiopatologico che vuole la colesterolemia elevata artefice dello sviluppo della ostruente malattia aterosclerotica senza alcun impatto sulla solidità di fondo della parate vascolare. Questo aspetto è stato a lungo oggetto di accesa discussione, che ha trovato la sua conclusione con la pubblicazione degli studi clinici che hanno dimostrato come la riduzione farmacologica degli elevati livelli di colesterolo si traduca in una riduzione dell’incidenza di ictus ischemico, oggi annoverato tra i bersagli privilegiati della prevenzione attraverso l’impiego della terapia ipolipemizzante.
La formulazione di raccomandazioni conseguenti alle evidenze sopra citate ha generato una serie di reazioni scomposte in coloro i quali, mitizzando gli aspetti biochimici, sottolineano come il colesterolo sia un elemento essenziale per la sintesi di ormoni e vitamine ed entri di diritto nella composizione delle membrane cellulari influenzandone le proprietà e la vita delle cellule. Tali affermazioni sono certamente innegabili, ma dovrebbero essere corredate dall’informazione che per svolgere tali funzioni gli organismi superiori come l’uomo necessitano di concentrazioni che si aggirano intorno ai 30 mg/dl, quindi largamente inferiori a quelle suggerite anche dalla strategie di prevenzione cardiovascolare più arcigne. Quindi, tra i fatti, certamente quello più rilevante ed inconfutabile è l’evidenza che “ipercolesterolemia” significa un aumento della probabilità di complicanze cardiovascolari, mentre in presenza di un profilo lipidico geneticamente adeguato o ripristinato alla normalità in risposta ad una terapia efficace, tale probabilità si riduce drasticamente.
Il pragmatismo che sprigiona dall’affermazione precedente è stato tuttavia motivo per un’ulteriore contrapposizione tra evidenze (fatti) e presunta strumentalizzazione (miti) quando è stato necessario definire il significato di “normalità” dei livelli di colesterolo. Il problema non è naturalmente di natura semantica, bensì di tipo sostanziale, perché coinvolge la possibilità che ogni tipologia di soggetto possa avere una “sua” normalità in rapporto al profilo di rischio cardiovascolare di fondo ed esclude per contro il sospetto che i livelli di normalità per la colesterolemia siano fissati arbitrariamente per compiacere soggetti con interessi diversi per quanto riguarda la gestione del rapporto tra colesterolemia, controllo del profilo lipidico e malattie cardiovascolari. A tale pretestuosa discussione hanno messo fine le raccomandazioni delle linee guida non solo in ambito di dislipidemie ed aterosclerosi, ma anche di ipertensione arteriosa che, basandosi sull’enorme disponibilità di evidenze epidemiologiche e terapeutiche, hanno dimostrato come il livello di normalità sia funzione del profilo di rischio di base del paziente e quindi sarà progressivamente più ridotto (colesterolo LDL almeno <70 mg/dl) nei pazienti con una dislipidemia ad origine familiare a marcata impronta genetica, in coloro che annoverano un pregresso evento cardiovascolare o un elevato profilo di rischio complessivo, mentre sarà possibile considerare come “normali” livelli di colesterolemia totale e LDL più elevati in coloro nei quali una modesta alterazione sia la sola alterazione del profilo di rischio cardiovascolare 5. Questo aspetto ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana nell’approccio alla prevenzione, in quanto ha incluso tra i soggetti a rischio pazienti con valori assoluti molto vicini alla “normalità laboratoristica” mentre ha apparentemente sottovalutato altri soggetti i cui livelli di colesterolemia LDL appaiono, sulla carta, fuori scala. Da ciò è derivata l’affermazione di un fatto innegabile, e cioè che la prevenzione delle malattie cardiovascolari è incentrata sul paziente e non sui suoi valori numerici secondo una logica vetustamente classista ed antidemocratica a tutta la popolazione, dividendo in maniera manichea i sani dai malati, i buoni dai cattivi, i “normo-arteriati” dai potenziali aterosclerotici. Quindi oggi il dato innegabile che si aggiunge ai precedenti è rappresentato dal fatto che i livelli di colesterolo debbano essere ridotti in maniera individuale, in proporzione al profilo di rischio cardiovascolare del soggetto e adottando una strategia che permetta di raggiungere un target di intervento a livello del quale è ragionevole pensare che il rischio cardiovascolare di un determinato paziente sia accettabile rispetto a quello di un soggetto non affetto.
In quest’ottica si sono sviluppate negli ultimi 25 anni una serie di strategie di intervento terapeutico che hanno visto giganteggiare l’impiego di statine2,3, producendo una serie pressoché infinita di fatti quali: a) la possibilità di ridurre efficacemente i livelli di colesterolo totale ed LDL, b) la dimostrazione che a tale riduzione corrispondeva una minore incidenza di eventi dapprima coronarici e successivamente cerebrovascolari, c) l’esistenza di una correlazione tra entità del successo terapeutico e beneficio clinico, d) l’evidenza che la riduzione della colesterolemia debba essere commisurata al profilo di rischio del paziente. In parallelo alle evidenze di efficacia, si è anche sviluppata una strisciante logica di tossicità, soprattutto muscolare e di intolleranza, talora non supportata da evidenze obiettive, ma mitizzata dalle impressioni soggettive e, spesso, aspecifiche che comunque è stata in grado di limitare il potenziale impatto preventivo delle statine e di fare proliferare soluzioni alternative considerate più tollerabili, ma la cui efficacia non è stata mai realmente dimostrata. L’efficacia clinica delle statine è stata poi recentemente corroborata dalla dimostrazione di una sua potenziale integrazione con altre strategie di intervento che hanno visto primeggiare l’impiego di ezetimibe 6,7, la cui somministrazione additiva alle statine ha ulteriormente contribuito a nutrire il paradigma del rapporto essenziale tra profilo di rischio cardiovascolare e target di intervento, soprattutto in presenza di un pregresso evento cardiovascolare.
Tuttavia, anche in presenza della disponibilità di una strategia terapeutica così composita ed integrata, uno dei fatti più evidenti è rappresentato dall’osservazione che esistono ancora alcune categorie di pazienti con elevato rischio cardiovascolare il cui problema lipidico (e conseguentemente cardiovascolare) può essere risolto in maniera solo marginale dall’impiego dei farmaci disponibili. In particolare, a questa categoria appartengono i pazienti con elevato profilo di rischio cardiovascolare nei quali non è possibile raggiungere quel livello target di sicurezza in grado di prevenire le complicanze cardiovascolari, ma soprattutto i soggetti con dislipidemia familiare omozigote ed eterozigote. Tali individui, caratterizzati da diversi livelli di complessità lipidica, presentano livelli di colesterolemia totale ed LDL elevati sin dall’infanzia e, se non opportunamente trattati, possono sviluppare complicanze cardiovascolari potenzialmente fatali già in età adolescenziale 8. In questi soggetti l’evidenza genetica della mancanza parziale o totale di recettori tissutali per la frazione LDL genera un aumento spropositato dei livelli di colesterolemia ai quali le statine non possono mettere rimedio proprio perché i pazienti sono carenti o privi di uno dei meccanismi cardine dell’efficacia clinica di tale classe di farmaci, e cioè la maggiore disponibilità di recettori proprio per le LDL. Questi pazienti, unitamente a quelli identificati in precedenza e che includono i soggetti ad elevato profilo di rischio cardiovascolare non a target e quelli intolleranti al trattamento con statine, rappresentano l’avanguardia di una popolazione di soggetti dislipidemici, il cui fabbisogno è solo parzialmente soddisfatto dall’impiego delle strategie terapeutiche attuali e il cui destino terapeutico si proietta inevitabilmente in un futuro che, per fortuna, appare assai prossimo. In particolare, la disponibilità di una nuova classe di farmaci costituiti da anticorpi monoclonali diretti nei confronti di una proteina in grado di promuovere il catabolismo della proteina PCSK9 ( proprotein convertase subtilisin/kexin type 9) sarà in grado di risolvere largamente il problema delle ipercolesterolemie genetiche, severe o intrattabili attraverso un meccanismo d’azione originale e sinergicamente integrato con quello delle altre classi di farmaci attualmente impiegati per il trattamento dell’ipercolesterolemia. Tutto ciò rappresenta l’inizio di una nuova era del trattamento delle dislipidemie che si discosta dal tradizionale approccio metabolico e apre una possibilità di intervento in grado di offrire un futuro più favorevole anche a categorie di pazienti fino ad oggi oggetto di un intervento di efficacia solo parziale o, talora, assente.
Il presente Supplemento del Giornale Italiano di Cardiologia affronta tutti questi aspetti con il taglio pratico di cui è dotata la scienza quando viene declinata da chi del problema conosce gli aspetti teorici, ma anche quelli applicativi. In particolare, si rivedranno in dettaglio gli aspetti che caratterizzano l’impiego clinico dei farmaci tradizionali, per poi passare ad esaminare le caratteristiche e le evidenze della nuova classe degli inibitori di PCSK9, mentre gli ultimi due capitoli sono dedicati al paziente target del nuovo trattamento, descrivendone sia gli aspetti peculiari di ordine genetico (ipercolesterolemia familiare) che quelli impegnativi di ordine clinico (sindrome coronarica acuta) che rappresentano oggi quelle aree di carenza di intervento che potranno essere colmate affinché il futuro dei pazienti ipercolesterolemici non sia solo quello della scienza, ma anche e soprattutto quello della sua pratica ed efficace applicazione.
bibliografia
1. Perk J, De Backer G, Gohlke H, et al.; European Association for Cardiovascular Prevention & Rehabilitation (EACPR); ESC Committee for Practice Guidelines (CPG). European Guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice (version 2012). The Fifth Joint Task Force of the European Society of Cardiology and Other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice (constituted by representatives of nine societies and by invited experts). Eur Heart J 2012;33:1635-701.
2. Baigent C, Keech A, Kearney PM, et al.; Cholesterol Treatment Trialists’ (CTT) Collaborators. Efficacy and safety of cholesterol-lowering treatment: prospective meta-analysis of data from 90,056 participants in 14 randomised trials of statins. Lancet 2005;366:1267-78.
3. Baigent C, Blackwell L, Emberson J, et al.; Cholesterol Treatment Trialists’ (CTT) Collaboration. Efficacy and safety of more intensive lowering of LDL cholesterol: a meta-analysis of data from 170,000 participants in 26 randomised trials. Lancet 2010; 376:1670-81.
4. Neaton JD, Blackburn H, Jacobs D, et al. Serum cholesterol level mortality findings for men screened in the Multiple Risk Factor Intervention Trial. Multiple Risk Factor Intervention Trial Research Group. Arch Intern Med 1992;152:1490-500.
5. Catapano AL, Reiner Z, De Backer G, et al. ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias. The Task Force for the management of dyslipidaemias of the European Society of Cardiology (ESC) and the European Atherosclerosis Society (EAS). Atherosclerosis 2011;217:3-46.
6. Baigent C, Landray MJ, Reith C, et al.; SHARP Investigators. The effects of lowering LDL cholesterol with simvastatin plus ezetimibe in patients with chronic kidney disease (Study of Heart and Renal Protection): a randomised placebo-controlled trial. Lancet 2011;377:2181-92.
7. Cannon CP, Blazing MA, Giugliano RP, et al.; IMPROVE-IT Investigators. Ezetimibe added to statin therapy after acute coronary syndromes. N Engl J Med 2015;372:2387-97.
8. Nordestgaard BG, Chapman MJ, Humphries SE, et al.; European Atherosclerosis Society Consensus Panel. Familial hypercholesterolaemia is underdiagnosed and undertreated in the general population: guidance for clinicians to prevent coronary heart disease: consensus statement of the European Atherosclerosis Society. Eur Heart J 2013;34:3478-90a.