In questo numero

editoriale




Hokusai-VTE Cancer: un’ondata di novità in tema di anticoagulazione nel paziente neoplastico con tromboembolismo venoso

Da lungo tempo abbiamo imparato che il trattamento del tromboembolismo venoso, sia in forma di trombosi venosa profonda che di embolia polmonare, nel paziente con neoplasia va preferibilmente effettuato per i primi 3-6 mesi con eparina a basso peso molecolare sottocute anziché warfarin per via orale. Tale consuetudine rischia oggi di essere travolta dall’onda dei risultati favorevoli dello studio Hokusai-VTE Cancer, il primo ad essere condotto con un “nuovo” anticoagulante orale, cioè edoxaban, nel paziente con cancro attivo e tromboembolismo venoso. L’endpoint primario combinato di sicurezza ed efficacia, comprendente la recidiva di tromboembolismo venoso e il sanguinamento maggiore nei 12 mesi successivi alla randomizzazione, è infatti risultato significativamente inferiore nel gruppo randomizzato ad eparina a basso peso molecolare sottocute per 5 giorni seguito da edoxaban 60 mg/die per os rispetto alla sola eparina a basso peso molecolare. Nell’editoriale di Iris Parrini e Irma Bisceglia vengono discussi i punti di forza e di debolezza dello studio Hokusai-VTE Cancer e viene proposto un algoritmo per il corretto impiego di edoxaban nel trattamento del tromboembolismo venoso nel paziente neoplastico. •

dieci quesiti in tema di...




Il versamento pericardico: 10 risposte ai nostri dubbi

Il rilievo di un versamento pericardico, di entità più o meno importante, all’ecocardiogramma è frequente e deve essere contestualizzato e indagato. Massimo Imazio et al., rispondendo a 10 quesiti, ci aiutano a districarci nella difficile valutazione del versamento pericardico, che non indica sempre la presenza di una pericardite e che talora, anche se di notevole entità, può essere cronico senza dar luogo a ripercussioni emodinamiche. Le principali cause di versamento pericardico sono le infezioni, le neoplasie e le cause iatrogene, che ne determinano di conseguenza la prognosi. In presenza di un versamento pericardico la valutazione iniziale deve escludere se provoca tamponamento cardiaco. Il follow-up ecocardiografico può essere annuale, semestrale o trimestrale in base all’entità del versamento e all’andamento clinico. •

rassegne




Mitrale, facciamo i conti

L’insufficienza mitralica costituisce un importante scoglio per il Cardiologo che si trova a dover rispondere a molteplici domande: acuta o cronica? Organica o funzionale? Lieve, moderata o severa? Come va quantificata? Quali i segni indiretti della sua gravità? La risposta a questi quesiti non è facile in quanto vi è spesso una inappropriata applicazione dei metodi ecocardiografici e la mancanza di un’idea condivisa su come quantificarla. Donato Mele et al. espongono una messa a punto dei principali parametri e segni ecocardiografici da considerare nella valutazione dell’insufficienza mitralica ponendo l’accento sulla necessità di un approccio multiparametrico che richiede conoscenze, competenze, capacità e tempo; a questa, come alle altre valvulopatie, si associa un quadro clinico complesso che va tenuto in considerazione per l’interpretazione dei valori ecocardiografici riportando il Cardiologo dallo strumento di quantificazione alla clinica mediante la contestualizzazione dei parametri. •




Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sulla vitalità miocardica...

La presenza ovvero l’assenza di vitalità miocardica riveste un ruolo chiave nella gestione diagnostico-terapeutica dei pazienti con malattia coronarica e concomitanti alterazioni della cinetica ventricolare sinistra. La ricerca della vitalità può quindi in molti pazienti essere di grande aiuto per guidare la scelta della rivascolarizzazione (vs strategia conservativa), per individuare i segmenti che possano beneficiarsi di rivascolarizzazione e quindi i vasi da trattare, e di conseguenza anche per indirizzare verso una tecnica di rivascolarizzazione percutanea piuttosto che chirurgica (oppure viceversa). Inoltre, in situazioni particolari, essa ha spazio anche nell’iter diagnostico della valvulopatia aortica. Eppure, rispetto ad un ruolo così rilevante, nella pratica clinica l’importanza della ricerca di vitalità miocardica non è sempre adeguatamente considerata, così come spesso è oggetto di controversia (e talvolta di confusione) quale metodica sia preferibile utilizzare per indagarla. La rassegna di Elena Giulia Milano et al. affronta in modo estremamente fruibile ma con grande precisione scientifica il tema della vitalità miocardica: sia in quali pazienti essa debba essere indagata per poter guidare la strategia terapeutica, sia con quali metodiche essa possa essere indagata adeguatamente. La rassegna confronta infatti le principali tecnologie a disposizione attraverso un approccio fisiopatologico per poi illustrare dal punto di vista clinico quali siano i punti di forza e di debolezza di ciascuna metodica rispetto a quelle alternative, utilizzando un approccio molto didattico e di grande utilità per il lettore. •




Miocardio non compatto: siamo sicuri che esista?

Ecco finalmente un meritevole punto della situazione su una tematica spesso sovra-diagnosticata e dagli aspetti molto controversi: parliamo del “miocardio non compatto”. A distanza di quasi 30 anni dalla scoperta di questa entità nosologica non abbiamo ancora a disposizione criteri diagnostici chiari dal momento che la non compattazione del miocardio rappresenta un continuum che va da condizioni chiaramente fisiologiche (una certa quota di trabecolatura miocardica è presente nella popolazione generale ed una quota più accentuata in altre condizioni fisiologiche) a condizioni chiaramente patologiche. Francesco Negri et al. riportano in modo preciso, esauriente e sistematico tutti i criteri diagnostici proposti dall’esordio fino ad oggi, dove sofisticati software di risonanza magnetica consentono di valutare la quantità di porzione non compatta attraverso un modello matematico che si basa sulla complessità attraverso cui le strutture biologiche riempiono lo spazio (fractal dimension). Oltre a ciò gli autori affrontano uno per uno specifici temi di forte interesse clinico: dalla complessità della base genetica al ruolo prognostico della fibrosi rilevata mediante risonanza magnetica, fino al delicato management di questa malattia nell’ambito dell’attività sportiva agonistica. •

studi osservazionali




20 anni di cardiopatie congenite in Italia

Veramente interessante il lavoro di Alberto Cresti et al. che hanno determinato in una ampia popolazione di più di 30 000 nati, l’incidenza attuale delle cardiopatie congenite diagnosticate nel primo anno di vita e sottoposte ad un follow-up minimo di un anno. La valutazione dell’incidenza è stata fatta attraverso l’analisi delle schede di dimissione ospedaliera e il primo dato che emerge è che il sospetto di una cardiopatia congenita è presente in ben un terzo dei nati pari a 10 167 neonati (32.6%). Tale sospetto risulta fortunatamente verificato solo nel 5.2% degli esami ecocardiografici con incidenza totale pari a 16.8/1000/annui. I difetti interventricolari isolati erano 343, di questi 198 si sono chiusi spontaneamente entro il primo anno di vita; ad un anno il numero quindi scende a 326 con un’incidenza di 10.35/1000/annui. Oltre al difetto interventricolare, i più comuni erano i difetti del setto interatriale (6.9%), seguiti da dotto arterioso (4.2%), coartazione aortica (4%), stenosi polmonare (3.3%) e tetralogia di Fallot (3.1%). Veramente interessante infine è l’allargamento del periodo di inclusione ad un anno che ha consentito di includere difetti non evidenti alla nascita mentre il follow-up di un anno ha permesso di escludere quei difetti di significato emodinamico non chiaro alla nascita. •




Il ruolo della “Transition Clinic” nel difficile passaggio tra adolescenza ed età adulta nel cardiopatico congenito: validazione di un modello

I progressi della cardiologia-cardiochirurgia pediatrica attualmente consentono ai bambini nati con cardiopatia congenita di essere trattati e di diventare adulti. C’è però un momento estremamente delicato in questo percorso, rappresentato dal passaggio tra l’età adolescenziale e l’età adulta che, se già complesso di per sé, diventa ancora più difficile nei pazienti affetti da cardiopatia congenita. In questi pazienti la gestione di una patologia cronica e i difficili aspetti psico-sociali diventano determinanti specifici dello stato di salute e di benessere. In questo lavoro Serena Francesca Flocco et al. hanno valutato con un modello quasi-sperimentale quanto un set standardizzato di interventi educazionali possa impattare sulla percezione dello stato di salute di adolescenti con cardiopatia congenita. Questo modello assistenziale, denominato “Transition Clinic”, è stato implementato da alcuni anni presso la Cardiologia Pediatrica del Policlinico San Donato di Milano. Il lavoro ha interessato i primi 100 pazienti di una più ampia casistica inserita in questo percorso, il cui studio generale è attualmente in corso. I pazienti della casistica in oggetto hanno una età media di circa 14 anni e sono stati valutati in due momenti della loro vita: al T0 e al T1 dopo un anno dall’inizio del percorso. In questo contesto temporale sono stati valutati alcuni indicatori fondamentali e la comparazione tra questi due momenti nella vita del paziente con cardiopatia congenita trattato con la “Transition Clinic”, ha permesso di evidenziare un miglioramento statisticamente significativo rispetto alla percezione del dolore, alla presenza di ansia e depressione, alla percezione dello stato di salute, alla condizione di benessere generale e alla qualità di vita. Ovviamente si tratta di uno studio preliminare su una popolazione limitata ma i primi risultati incoraggiano a estendere sia il modello organizzativo che l’analisi dei dati per la sua validazione. •

caso clinico




Un palloncino per non far male alla radiale

L’accesso radiale è ormai pressoché universalmente divenuto l’accesso vascolare di prima scelta per l’interventistica coronarica grazie alla sua minore invasività, al vantaggio della mobilizzazione precoce e al minor rischio di complicanze emorragiche rispetto all’approccio femorale. Tuttavia, una delle sue principali limitazioni è rappresentata, soprattutto nelle persone con un’arteria radiale di calibro più ridotto o con varianti anatomiche, dallo spasmo dell’arteria che oltre ad essere una complicanza dolorosa per il paziente a volte impedisce il passaggio del catetere se non al prezzo di un alto rischio di complicanze emorragiche data la fragilità della stessa. Soprattutto il passaggio del catetere guida, per via del “tip” non rastremato e a margini netti e quindi potenzialmente “taglienti” è a rischio di insuccesso ed anche di complicanze in corso di spasmo della radiale o dell’omerale. Il caso presentato da Giovanni Lorenzoni et al. illustra la tecnica denominata “balloon-assisted tracking” per consentire il passaggio in modo atraumatico del catetere guida attraverso l’arteria spasmizzata facendolo avanzare su una guida intracoronarica sulla quale si è montato un palloncino semicompliante che viene gonfiato a basse pressioni all’estremità distale del catetere. In tal modo il palloncino protegge il “tip” e può quindi consentire il passaggio del sistema anche nelle arterie più difficili e in caso di spasmo refrattario ai farmaci, evitando sia il rischio di complicanze che la necessità di eseguire un cambio di accesso vascolare nel corso della procedura. •