Edoxaban nel paziente con fibrillazione
atriale e cancro

Nicola Maurea1, Letizia Riva2

1S.C. Cardiologia, Istituto Nazionale Tumori, IRCCS Fondazione G. Pascale, Napoli

2U.O.C. Cardiologia, Ospedale Maggiore, Bologna

Advances in cancer therapy have led to a significant improvement of survival in most types of malignancies over the past few decades. As a result, there is a growing population of cancer survivors, expected to reach 18 million people in 2030 in the US and a similar number in Europe. Interestingly, cancer survivor studies have shown that although about half of these patients eventually die of cancer, one third of them actually die of cardiovascular disease. Arrhythmias represent a significant part of cardiovascular complications and atrial fibrillation is the main arrhythmia occurring in cancer patients.

Antithrombotic therapy is a challenge: the optimal international normalized ratio (INR) level in patients on therapy with vitamin K antagonists is achieved in only 12% of them; in these patients, direct oral anticoagulants seem to be effective and safe for the prevention of stroke and systemic embolic events compared to warfarin and have similar risk of major bleeding. Among the trials, ENGAGE AF-TIMI 48 provides more data on the efficacy and safety of edoxaban in cancer patients.

Key words. Atrial fibrillation; Cancer; Direct oral anticoagulants; Edoxaban.

LA PROFILASSI DEL RISCHIO TROMBOEMBOLICO NEI PAZIENTI AFFETTI DA FIBRILLAZIONE ATRIALE E CANCRO

Ad oggi la terapia antitrombotica della fibrillazione atriale (FA) nei pazienti con cancro continua a rappresentare una sfida, poiché il cancro comporta sia un aumento del rischio trombotico sia un aumento del rischio emorragico (in particolare nei casi di tumore del sistema ematopoietico e di eteroplasia intracranica)1.

È comunque bene sottolineare che la storia di cancro è comune tra i pazienti con FA: un quarto dei pazienti infatti ha entrambe le patologie. Dai dati del registro ORBIT-AF su 9749 pazienti si evince che il 23.8% aveva storia di cancro (rispettivamente il 57% tumore solido, l’1.3% leucemia, il 3.3% linfoma, il 40% altri tipi di tumore e il 2.2% cancro metastatico). I pazienti con storia di cancro erano più anziani, avevano maggiori probabilità di avere malattie cardiovascolari, fattori di rischio cardiovascolare e precedenti sanguinamenti gastrointestinali, ma nessuna differenza è stata osservata, tra i pazienti con cancro e senza cancro, per quanto riguarda l’incidenza di ictus, attacco ischemico transitorio o embolia sistemica, né di morte cardiovascolare. Per contro, come è noto, i pazienti oncologici avevano un più alto rischio di sanguinamento maggiore e di morte non cardiovascolare2.

Gli score per la stratificazione del rischio tromboembolico ed emorragico della FA, come il CHA2DS2-VASc e l’HAS-BLED, non sono stati validati in popolazioni con cancro attivo e pertanto non possono dare una stima corretta del rischio effettivo di questi pazienti3,4, ma come vedremo nella trattazione, possono aiutare nella decisione terapeutica, ma solo dopo aver analizzato le caratteristiche di rischio di sanguinamento o di trombofilia legate alla tipologia di tumore e alle terapie effettuate. La mancanza di evidenze impone, quindi, nella gestione della FA dei pazienti con cancro un approccio individualizzato, basato anche sulle raccomandazioni disponibili in letteratura per i pazienti non affetti da cancro5 e sui primi dati di evidenza nei pazienti oncologici6,7. La terapia della FA e della prevenzione degli eventi tromboembolici legati ad essa nel paziente oncologico ha peculiarità e problematiche particolari rispetto al paziente non oncologico. Nella Figura 1 è mostrato l’algoritmo proposto da Farmakis et al.8 per la gestione della FA in oncologia.




La prima cosa da valutare sono le caratteristiche di alto rischio di sanguinamento in relazione al cancro. Queste possono essere legate al tipo di neoplasia, per esempio neoplasia cerebrale, neoplasie ematologiche con difetti della coagulazione, trombocitopenia indotta da terapia oncologica o malattia epatica metastatica. Se sono presenti, non si può prescrivere la terapia antitrombotica. Se, invece, non sono presenti si possono applicare gli score di rischio. Quindi, ad esempio, se il CHA2DS2-VASc è ≥2 e l’HAS-BLED è <3 si procede con la terapia antitrombotica; se il CHA2DS2-VASc è =0 e l’HAS-BLED è ≥3 la terapia antitrombotica diventa opzionale. Questo significa che può essere considerata solo in presenza di alto rischio tromboembolico associato ad alcuni tipi di cancro (es. cancro del pancreas, dell’ovaio, del polmone, del fegato) o a particolari terapie oncologiche (es. cisplatino, gemcitabina, 5-fluorouracile, eritropoietina, fattori di crescita dei granulociti). D’altra parte nelle schede dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), per tutti e quattro gli anticoagulanti orali diretti (direct oral anticoagulants, DOAC), le controindicazioni relative alla neoplasie riguardano solo l’alto rischio di sanguinamento, che inoltre nel paziente con cancro comporta maggiori difficoltà di gestione rispetto al paziente non oncologico9.

LA TERAPIA ANTICOAGULANTE NEI PAZIENTI AFFETTI DA FIBRILLAZIONE ATRIALE E CANCRO

Nella popolazione generale gli antagonisti della vitamina K, come il warfarin, rappresentano il “gold standard” dell’anticoagulazione per minimizzare il rischio di ictus nei soggetti con FA10. Tuttavia, diverse problematiche legate al cancro e al suo trattamento possono complicare la terapia anticoagulante orale con warfarin in oncologia. Il paziente oncologico ha uno scarso controllo dell’international normalized ratio (INR), cui contribuiscono le interazioni farmacologiche, le fluttuazioni dell’assorbimento della vitamina K, le interruzioni di terapia, la presenza di disfunzione epatica, le mucositi e la diarrea11,12. In un recente lavoro condotto su 2168 pazienti con FA non valvolare e nuova diagnosi di neoplasia, l’INR ottimale era raggiunto solo nel 12% dei casi13. Un anno dopo la diagnosi, solo i pazienti in trattamento con dicumarolici con un tempo in range terapeutico ≥60%, avevano una migliore sopravvivenza cumulativa libera dagli endpoint compositi, eventi cardiovascolari maggiori e sanguinamenti maggiori, rispetto ai pazienti che non assumevano dicumarolici. Gli autori concludono pertanto che, durante il primo anno da una diagnosi di neoplasia, il trattamento anticoagulante orale con dicumarolici non migliora l’endpoint composito a causa di un cattivo controllo dell’INR dovuto ai trattamenti oncologici stessi.

Per quanto riguarda l’eparina a basso peso molecolare (EBPM), le recenti linee guida della European Heart Rhythm Association (EHRA) hanno ribadito che non esiste nessuna evidenza di efficacia di questo farmaco per la prevenzione dell’ictus nella FA nel paziente oncologico14.

Uno dei più significativi avanzamenti della farmacologia degli ultimi anni è stato lo sviluppo dei DOAC, inibitori della trombina (dabigatran) o inibitori del fattore X attivato (rivaroxaban, apixaban ed edoxaban), che effettivamente hanno portato al superamento dei noti limiti dell’anticoagulazione con warfarin15. Nel contesto della FA sono risultati almeno non inferiori, se non superiori, al warfarin nella riduzione di ictus ed embolie sistemiche16-19. Ma la peculiarità, che più li ha contraddistinti, è la sicurezza d’impiego con una significativa riduzione del rischio emorragico, in particolare dei sanguinamenti intracranici, tanto che, sulla base di questo dato, le più recenti linee guida della Società Europea di Cardiologia favoriscono l’impiego dei DOAC in sostituzione del warfarin nella maggior parte dei pazienti affetti da FA con CHA2DS2-VASc score ≥25.

Nei pazienti con cancro attivo ad oggi sono disponibili i primi risultati confortanti, provenienti dai trial clinici randomizzati dei DOAC nel trattamento del tromboembolismo venoso (TEV), che hanno comparato edoxaban e rivaroxaban vs EBPM20,21. Per quanto riguarda la FA, sono invece disponibili dati di analisi di sottogruppi di pazienti che hanno sviluppato una neoplasia maligna dopo l’arruolamento negli studi clinici dei DOAC, in cui i soggetti con tumore attivo sono stati come di regola esclusi, oppure dati provenienti da piccoli studi di mondo reale.

Nel trial ARISTOTLE su 18 183 pazienti arruolati, che presentavano un CHA2DS2-VASc score medio pari a 3.6 e un HAS-BLED score medio pari a 2.2, per i quali erano disponibili in anamnesi informazioni sulla presenza o assenza di cancro, 1236 soggetti avevano una storia di tumore e di questi 157 avevano un cancro attivo o avevano effettuato terapie per il cancro nei 12 mesi precedenti l’arruolamento. La maggior parte dei tumori era costituita da tumori solidi della prostata, mammella, vescica e colon. Durante lo studio, durato 1.8 anni, il 30% circa dei pazienti con tumore attivo ha interrotto il trattamento anticoagulante, più frequentemente dei soggetti senza tumore (22%). Complessivamente apixaban ha mantenuto efficacia e sicurezza rispetto a warfarin nei pazienti con e senza tumore attivo per ogni singolo outcome (ictus ischemico/embolia sistemica, mortalità per tutte le cause, infarto miocardico, sanguinamento maggiore o non maggiore clinicamente rilevante)6. Questa analisi presenta, d’altra parte, alcune limitazioni: la dimensione del campione era molto piccola e mancavano informazioni su un eventuale sviluppo di tumore durante lo studio. Inoltre, trattandosi di un’analisi post-hoc secondaria di uno studio randomizzato con criteri di inclusione ed esclusione, può avere escluso pazienti con tumori più gravi o a più alto rischio di sanguinamento, introducendo quindi un bias di selezione e limitando la generalizzazione dei risultati.

Rivaroxaban è stato valutato in un’altra piccola casistica di 163 pazienti con cancro attivo e FA, nell’ambito di un progetto oncologico di valutazione della qualità durato circa 2 anni presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSKCC)7. Il cancro era definito attivo in base alla documentazione di neoplasia o di elevati livelli ematici di marcatori tumorali, o a seguito di terapia oncologica in atto (chemioterapia, terapia ormonale o radioterapia). Sono stati esclusi i soggetti con carcinoma a cellule squamose della pelle. Gli endpoint primari erano: ictus ischemico, embolia sistemica, morte, sanguinamento maggiore o non maggiore clinicamente rilevante. Il punteggio medio del CHA2DS2-VASc score dei soggetti arruolati era 3.2, mentre quello dell’HAS-BLED era 1.2. L’incidenza cumulativa di ictus è risultata pari all’1.4%/anno nei pazienti con cancro attivo, simile a quella dello studio ROCKET AF (1.7%/anno), in cui i soggetti arruolati non avevano cancro attivo, mentre il tasso di sanguinamenti maggiori è stato decisamente inferiore rispetto a quello del trial clinico randomizzato di fase III (1.2 vs 3.6%/anno). Gli autori pertanto concludono che rivaroxaban è efficace e sicuro per la profilassi del rischio tromboembolico della FA nei pazienti con tumore attivo. Anche questo studio presenta il bias di selezione di soggetti a più basso rischio, in quanto quelli con tumore dell’apparato gastroenterico e genito-urinario, a più alto rischio emorragico, sono stati esclusi. Inoltre 74 soggetti sono usciti prematuramente dallo studio per motivi vari, per cui la casistica analizzata risulta numericamente limitata.

Dal mondo danese provengono numerosi dati sull’uso dei DOAC nei pazienti con cancro. In proposito è stato recentemente pubblicato un ampio studio di coorte, che ha analizzato le prescrizioni di antagonisti della vitamina K e DOAC per FA effettuate dal 2004 al 2013 in 68 119 soggetti di età media 77 anni, dei quali 11 855 risultavano avere una diagnosi di cancro22. È stato valutato il rischio ad 1 anno di complicanze tromboemboliche, emorragiche o di morte e non sono state osservate differenze statisticamente significative nei rischi assoluti di tali complicanze tra i pazienti con e senza cancro e indipendentemente dal trattamento con antagonista della vitamina K o DOAC. I tumori più frequentemente rappresentati erano: urologici (15%), mammari (12%), gastrointestinali (12%), polmonari (4%) e del sistema ematopoietico (3%). Più della metà di questi tumori era stata diagnosticata alcuni anni prima della prescrizione della terapia anticoagulante orale.

L’efficacia e la sicurezza dei DOAC vs warfarin sono state infine valutate anche in un’ampia popolazione di mondo reale di soggetti con cancro e FA, selezionati all’interno di database assicurativi nord-americani (MarketScan)23. Sono stati identificati 16 096 soggetti di età media 74 anni, per il 40% di sesso femminile, in trattamento per cancro attivo, che hanno iniziato nel periodo compreso tra il 2010 e il 2014 una terapia anticoagulante orale per la profilassi del rischio tromboembolico della FA, rispettivamente 6075 un DOAC (dabigatran, rivaroxaban o apixaban, in quanto lo studio è stato condotto prima dell’approvazione di edoxaban) e 10 021 il warfarin. I pazienti in trattamento con DOAC avevano un punteggio CHA2DS2-VASc più basso rispetto a quelli in warfarin (4.2 vs 4.6). Le neoplasie più rappresentate erano i tumori dell’apparato genito-urinario, della mammella, del polmone e dell’apparato gastroenterico. Non vi erano differenze significative tra i due gruppi circa l’impiego di chemioterapia, terapia ormonale o radioterapia. Sono stati analizzati i seguenti endpoint: ictus ischemico, sanguinamento grave, altro sanguinamento e TEV. Rispetto al warfarin, per i tre DOAC non sono state osservate differenze nell’incidenza di ictus ischemico, mentre i sanguinamenti e gli episodi di TEV sono risultati inferiori con apixaban (hazard ratio [HR] 0.37, intervallo di confidenza [IC] 95% 0.79-1.39). L’interpretazione dei risultati dello studio risente però della tipologia retrospettiva della raccolta dei dati, ma soprattutto della provenienza di essi da database assicurativi, che come tali non sono esenti da bias, in particolare nella classificazione degli eventi.

Per quanto riguarda edoxaban, sono stati presentati all’American College of Cardiology del 2017, i risultati di un’analisi post-hoc dello studio ENGAGE AF-TIMI 4824. Nel trial erano stati arruolati 21 105 pazienti con FA e CHADS2 score ≥2, alcuni dei quali durante il follow-up durato 2.8 anni (il più lungo nell’ambito degli studi con DOAC nella FA), hanno sviluppato un cancro attivo, definito come cancro di nuova diagnosi post-randomizzazione o recidiva di un cancro pregresso. Anche in questo trial, come di regola, erano stati esclusi dall’arruolamento i soggetti con storia di cancro o terapie oncologiche entro 5 anni dalla randomizzazione. Complessivamente nella sottoanalisi sono stati osservati nel tempo 1153 soggetti con FA e cancro di nuova insorgenza, che più frequentemente era localizzato a livello dell’apparato gastro­enterico (15.6%), della prostata (13.6%) o dei polmoni (11%) e che nel 2.6% dei casi aveva multiple localizzazioni. Per il 69%, i pazienti con cancro erano di sesso maschile e avevano 75 anni (mediana). Il punteggio CHA2DS2-VASc medio era 4.4 vs 4.3 nel braccio di controllo con warfarin. In proposito occorre sottolineare che il tempo in range terapeutico del warfarin raggiunto nello studio ENGAGE AF-TIMI 48 è stato il migliore ottenuto in tutti i trial sui DOAC nella FA (mediana 68.2%). Endpoint di efficacia era l’incidenza di ictus ed embolia sistemica, mentre endpoint di sicurezza il tasso di sanguinamenti maggiori. Nei pazienti con riscontro di neoplasia post-randomizzazione, rispetto a quelli senza cancro attivo, è stata osservata una simile incidenza di ictus, embolie sistemiche ed eventi avversi maggiori cardiovascolari, in associazione ad un incremento della mortalità per tutte le cause (12 vs 3.6%/anno; HR 3.3, IC 95% 3.0-3.7) e, ovviamente trattandosi di pazienti oncologici, di sanguinamenti maggiori (7.4 vs 2.5%/anno; HR 2.9, IC 95% 2.4-3.4) (Figura 2). Edoxaban è risultato efficace nella prevenzione dell’ictus ischemico e delle embolie sistemiche rispetto al warfarin con un rischio simile di emorragia maggiore (Figura 3).




Gli autori concludono che nell’ENGAGE AF-TIMI 48 una nuova neoplasia o una recidiva di neoplasia erano un fattore di rischio indipendente per sanguinamento maggiore, ma non per ictus o embolia sistemica. Il profilo di efficacia e di sicurezza di edoxaban non era influenzato quindi dalla presenza o assenza di neoplasia. In conclusione, nei pazienti con FA e cancro attivo, edoxaban rappresenta un’alternativa al warfarin efficace e sicura, pur rimanendo la necessità di studi clinici randomizzati mirati.

Nella popolazione generale i risultati ottenuti e la maneggevolezza di utilizzo hanno rapidamente reso i DOAC farmaci di prima scelta per la prevenzione del tromboembolismo nella FA. Per contro, in ambito oncologico, l’aumentato rischio di trombosi e sanguinamento correlato alla malattia di base, la tendenza a possibili peggioramenti della funzione renale o epatica e la mancanza di antidoto per gli inibitori del fattore X attivato, destano preoccupazione sull’impiego di questi farmaci in pazienti a così alto rischio25. In particolare le alterazioni acute della funzione renale ed epatica possono influenzare i livelli plasmatici dei DOAC, a tal punto da richiedere un aggiustamento della dose o la sospensione del farmaco. È pertanto prudente usare in tale contesto i DOAC che presentano una minore quota di escrezione renale. L’uso dei DOAC nell’insufficienza epatica, invece, non è stato ancora ben studiato, ma deve essere sicuramente evitato nei soggetti classificati Child-Pugh C, non solo per l’impatto che la malattia epatica può avere sulle concentrazioni plasmatiche e sul metabolismo del farmaco, ma anche a causa della coagulopatia spesso associata, che può fare aumentare gli eventi emorragici.

Bisogna quindi attenersi a precisi criteri di utilizzo dei DOAC nei pazienti oncologici, e fra questi segnaliamo:

• fattori di rischio per sanguinamento: nessun evento di sanguinamento maggiore nei 2 mesi precedenti; assenza di tumori intracranici o viscerali ad alto rischio di sanguinamento maggiore;

• numero di piastrine: deve essere superiore a 50 000/μl e non vi deve essere alcuna previsione di riduzione dovuta alla chemioterapia;

• parametri della coagulazione (tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale attivata e fibrinogeno): devono essere normali;

• insufficienza epatica significativa: non deve essere presente;

• funzione renale: la clearance della creatinina deve essere >30 ml/min e non deve esserne prevista una riduzione dovuta a chemioterapia.

Inoltre i livelli plasmatici dei DOAC possono alterarsi per interazioni con altri farmaci, anche se numericamente molto ridotte rispetto a quelle degli antagonisti della vitamina K26,27. Le molecole che influenzano l’attività del citocromo CYP3A4 o della P-glicoproteina possono, infatti, modificare significativamente le concentrazioni plasmatiche dei DOAC.

Il citocromo CYP3A4 è coinvolto a livello epatico nel metabolismo ossidativo di rivaroxaban e apixaban. In quanto substrati, i due farmaci sono influenzabili sia dagli induttori sia dagli inibitori di questo enzima, con conseguente potenziale tossicità o riduzione di efficacia. Dabigatran, invece, non viene metabolizzato dal citocromo CYP3A4, mentre edoxaban lo è in minima parte (<4%).

La P-glicoproteina è una glicoproteina di membrana con funzione di pompa ATP-dipendente, che esercita un importante meccanismo protettivo contro la potenziale tossicità di sostanze esogene, compresi i farmaci. In base alla sua localizzazione anatomica, può limitare l’assorbimento o la distribuzione dei farmaci che sono substrato per essa, fino anche ad eliminarli completamente. Analogamente a quanto accade con il citocromo CYP3A4, anche la P-glicoproteina può essere inibita o indotta da alcuni farmaci, portando ad una riduzione o ad un aumento della sua attività e pertanto ad un accumulo o ad una aumentata eliminazione dei suoi substrati. Tutti e quattro i DOAC approvati sono substrato della P-glicoproteina, suscettibili di interazioni farmacologiche con forti inibitori o induttori di tale proteina. È fondamentale lo studio delle interazioni con i farmaci concomitanti (antimicotici, inibitori delle proteasi, immunosoppressori ed antiepilettici, spesso usati in associazione agli antitumorali) (Tabella 1), che in linea di massima se forti induttori o inibitori del citocromo CYP3A4 e della P-glicoproteina andrebbero evitati. In alcuni casi può essere ridotta la dose del DOAC, come nel caso del solo edoxaban in associazione a itraconazolo, ketoconazolo, voriconazolo (fungostatici). Anche nel caso dell’utilizzo di antibiotici (come claritromicina ed eritromicina), l’utilizzo è permesso solo per edoxaban, e sempre con l’accortezza di ridurre il dosaggio14.

È poi fondamentale considerare la lista di farmaci chemioterapici, biologici, ormonali e di supporto, che modulano il citocromo CYP3A4 (Tabella 2) e la P-glicoproteina25 (Tabella 3). La scarsa interferenza con il citocromo CYP3A4 costituisce sicuramente un vantaggio in oncologia essendo preponderante questa via metabolica per i farmaci oncologici rispetto alla P-glicoproteina. Vi è infatti anche la possibilità che i farmaci antineoplastici, agendo attraverso le stesse vie metaboliche degli anticoagulanti orali, risultando quindi inibitori o induttori di queste vie metaboliche, possano aumentare o diminuire i livelli plasmatici dell’anticoagulante orale.







Con edoxaban il problema delle interazioni farmacologiche con i chemioterapici viene decisamente ridimensionato, poiché il suo profilo metabolico (scarsa interazione con il citocromo CYP3A4) ne garantisce una maggiore facilità d’uso; infatti la via del citocromo CYP3A4 è quella percentualmente più coinvolta nel metabolismo dei farmaci oncologici. Inoltre tra i DOAC edoxaban si distingue, oltreché per efficacia, sicurezza e ampia maneggevolezza in considerazione delle scarse interazioni farmacologiche, per disponibilità di dati di impiego in un ampio numero di pazienti con FA e cancro attivo.

Nel recente update della guida pratica EHRA sull’uso dei DOAC, sebbene sia raccomandata estrema cautela, viene incoraggiato l’uso dei DOAC nei pazienti con cancro ed FA14. Sono necessari, comunque, algoritmi dedicati, che valutino prima le caratteristiche di alto rischio di sanguinamento e di trombofilia del tipo di tumore e poi gli score di rischio.

RIASSUNTO

I progressi nella terapia del cancro hanno portato ad un importante miglioramento della sopravvivenza nelle ultime decadi. Ne consegue che c’è una crescente popolazione di sopravviventi al cancro, che si stima possa raggiungere 18 milioni di persone nel 2030 negli Stati Uniti e un numero simile in Europa. Gli studi sulle cause di morte nei pazienti oncologici hanno dimostrato che metà dei pazienti muore di cancro, ma un terzo di essi muore a causa di malattie cardiovascolari. Le aritmie sono una parte significativa delle complicanze cardiovascolari e la fibrillazione atriale è la principale patologia del ritmo cardiaco che si verifica nel paziente oncologico.

La terapia antitrombotica rappresenta in questi pazienti una sfida: il livello ottimale di international normalized ratio (INR), quando si utilizza la terapia con antagonisti della vitamina K, è raggiunto solo nel 12% dei casi; in questi pazienti, gli anticoagulanti orali diretti sembrano efficaci e sicuri nella prevenzione dell’ictus e delle embolie sistemiche rispetto al warfarin con un rischio simile di sanguinamento maggiore. Tra i trial, l’ENGAGE AF-TIMI 48 fornisce maggiori e solidi dati sull’efficacia e sicurezza di edoxaban nei pazienti oncologici.

Parole chiave. Anticoagulanti orali diretti; Cancro; Edoxaban; Fibrillazione atriale.

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