Coronavirus COVID-19:
quali implicazioni per la Cardiologia?

Giuseppe Di Pasquale

Editor, Giornale Italiano di Cardiologia

L’attuale grave epidemia, o forse pandemia, del nuovo coronavirus COVID-19 emerso in Cina a Wuhan alla fine del 2019 ha dimostrato di avere un devastante impatto planetario di salute pubblica. La Cardiologia sembra essere solo parzialmente toccata dal problema rispetto ad altri contesti clinico-assistenziali come quelli della sanità pubblica, malattie infettive, pneumologia, pronto soccorso e rianimazione. In realtà le implicazioni cardiologiche del coronavirus COVID-19 sono tutt’altro che marginali e costituiscono l’occasione per richiamare l’attenzione del cardiologo sulle rilevanti interazioni tra infezioni da virus respiratori o altri agenti patogeni e rischio cardiovascolare. È nota da tempo la correlazione tra infezione da virus influenzale e infarto miocardico, come pure quelle tra infezione pneumococcica ed eventi cardiovascolari. Altrettanto noto è il valore protettivo della vaccinazione anti-influenzale nei confronti della sindrome coronarica acuta e dello scompenso cardiaco e così pure quello della vaccinazione anti-pneumococcica, pur se con evidenze più deboli1. Nonostante queste evidenze, finora purtroppo è stata riservata una scarsa attenzione al burden cardiovascolare delle pandemie influenzali e da altri virus respiratori2.

È opportuno pertanto esaminare le implicazioni cardiache del coronavirus COVID-19 e di analoghe epidemie virali respiratorie.

Il coronavirus COVID-19 è caratterizzato da un’elevata contagiosità; nell’85% dei casi determina una malattia subclinica o di grado lieve, ma rispetto all’influenza provoca più facilmente complicanze respiratorie come polmoniti gravi e polmoniti interstiziali nel 10-15% dei casi; il 5% dei pazienti contagiati richiede ricovero in terapia intensiva. La letalità è stimata intorno al 2-3%. Rispetto alle precedenti epidemie da coronavirus la contagiosità è maggiore, ma la mortalità decisamente più bassa in confronto ad esempio alla severe acute respiratory syndrome (SARS-CoV) del 2002 e la Middle East respiratory syndrome (MERS-CoV) del 2012, entrambe associate ad un’elevata mortalità, rispettivamente del 9.5% e 34.4%.

Nei pazienti con polmonite da COVID-19 un primo report relativo a 99 soggetti ricoverati nel periodo 1-20 gennaio 2020 presso il Jinyntan Hospital di Wuhan, Cina, ha evidenziato che nel 40% dei casi era presente una preesistente malattia cardiovascolare o cerebrovascolare3. In un report successivo relativo a 138 pazienti con polmonite da COVID-19 ricoverati nel periodo 1-28 gennaio 2020 presso il Zhongnan Hospital dell’Università di Wuhan il 26% ha richiesto un trattamento in terapia intensiva. I pazienti per i quali è stato necessario un trattamento in ambiente intensivo erano quelli con una significativa maggiore prevalenza di comorbilità quali diabete, malattia cardiovascolare e cerebrovascolare. Di questi pazienti il 16.7% ha sviluppato complicanze aritmiche ed il 7% danno miocardico acuto4. Questo dato è stato confermato in una più ampia casistica pubblicata il 28 febbraio sul New England Journal of Medicine relativa a 1099 pazienti con infezione da COVID-19 ricoverati in 552 ospedali della Cina5. La presenza di patologie concomitanti, tra le quali ipertensione, diabete, malattia coronarica e cerebrovascolare, è risultata più frequente nel gruppo dei 177 pazienti con la forma più severa della malattia rispetto al gruppo dei 926 pazienti con malattia non severa (38.7% vs 21.0%). Infine nel report più recente pubblicato su JAMA il 24 febbraio 2020 dal Chinese Center for Disease Control and Prevention relativo a 72 314 casi, a fronte di una mortalità complessiva del 2.3%, questa è risultata del 10.5% nei pazienti con preesistente malattia cardiovascolare e del 7.3% in quelli con diabete6. Un’elevata prevalenza di ipertensione, cardiopatia ischemica e diabete sembra essere confermata anche in Italia dai dati preliminari riportati dall’Istituto Superiore di Sanità relativi a 73 pazienti deceduti. Risulta evidente pertanto la maggiore vulnerabilità dei pazienti cardiologici.

L’American College of Cardiology (ACC) a tale proposito ha rilasciato in febbraio 2020 un bollettino nel quale sono sottolineate le potenziali implicazioni cardiache dell’infezione da coronavirus7. Al di là delle strategie di sanità pubblica per la prevenzione della diffusione dell’infezione virale, l’ACC raccomanda che nelle aree dove si concentrano i focolai di infezione è opportuno attuare precauzioni aggiuntive nei pazienti con malattia cardiovascolare nota. L’ACC in questo documento richiama anche l’importanza della vaccinazione anti-influenzale e anti-pneumococcica e mette in guardia sul rischio di sottodiagnosticare un infarto miocardico acuto nel contesto di un’infezione grave da COVID-19. In un successivo update pubblicato il 6 marzo l’ACC raccomanda di adottare precauzioni protettive addizionali nei pazienti con malattia cardiovascolare, di sostituire le visite ambulatoriali con controlli telefonici o di telemedicina nei pazienti stabili e di predisporre specifici protocolli per la gestione dell’infarto nel contesto dell’epidemia da COVID-19.

Le implicazioni cardiache richiamate dall’ACC per il COVID-19 in realtà riguardano altre pandemie virali respiratorie ad iniziare dall’influenza e arrivare alla precedenti epidemie da coronavirus. È noto che in tutte le pandemie influenzali la mortalità per cause cardiovascolari risulta superiore a quella per tutte le altre cause, compresa la polmonite secondaria. Unica eccezione la pandemia influenzale “spagnola” del 1918 rievocata a distanza di un secolo in un editoriale del New England Journal of Medicine che richiamava la necessità dell’identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio in occasione di future pandemie virali8. La prima segnalazione di una possibile correlazione tra influenza e infarto miocardico risale ai primi decenni del ’900 in seguito a rilevazioni epidemiologiche eseguite durante diverse epidemie influenzali verificatesi negli Stati Uniti nel periodo 1918-299, seguita negli anni da altre sporadiche segnalazioni di un pattern stagionale dell’infarto simile a quello dell’influenza.

L’ipotesi patogenetica della correlazione tra infezione da virus influenzale ed infarto miocardico è quella dell’instabilizzazione di una preesistente placca coronarica mediata dal processo infiammatorio sistemico con conseguente rottura del cappuccio fibroso, esposizione di materiale trombogenico ed occlusione trombotica del vaso. Lo stato infiammatorio può portare a questo risultato tramite numerosi meccanismi, quali la tachicardia con l’aumentato stress di parete, l’ipossia, il rilascio di citochine infiammatorie, l’ipertono simpatico con conseguenti effetti sul tono vascolare ed uno stato di aumentata trombofilia10.

Anche nei pazienti con SARS e MERS nel 60% dei casi esistevano comorbilità preesistenti, in particolare malattia cardiovascolare, diabete e malattia cronica renale ed entrambe le epidemie virali sono risultate associate ad un rischio di infarto miocardico, scompenso cardiaco acuto e miocardite11. Nei pazienti con SARS uno studio ecocardiografico eseguito su 36 pazienti ha documentato che una più bassa frazione di eiezione ventricolare sinistra all’ingresso risultava predittiva di necessità di ventilazione meccanica e che l’infezione respiratoria può determinare una disfunzione diastolica subclinica senza compromissione sistolica12.

Il cardiologo clinico e intensivista sono oggi coinvolti frequentemente a gestire pazienti con patologie infettive prevalentemente respiratorie. La tipologia dei pazienti ricoverati oggi nelle nostre unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC) è profondamente cambiata rispetto al passato. Molti pazienti delle UTIC contemporanee hanno patologie acute non cardiovascolari e tra queste è frequente la sepsi che in uno studio recente è risultata la quinta diagnosi primaria (5%) di ricovero in UTIC13.

Quando ci lasceremo alle spalle l’emergenza del COVID-19 c’è da augurarsi una crescita della sensibilità del cardiologo per la protezione dei pazienti con malattia cardiovascolare nei confronti delle infezioni respiratorie e non solo. Questa dovrebbe associarsi ad una maggiore diffusione anche nell’ambito cardiologico di due strumenti sulla cui efficacia non esistono dubbi: la vaccinazione anti-influenzale ed il lavaggio delle mani.

L’infezione da COVID-19 nel nostro Paese è coincisa con il picco dell’epidemia influenzale della stagione 2019-2020. Per molti pazienti con semplice infezione e febbre da virus influenzale è subentrata la psicosi dell’infezione da coronavirus. Una maggiore copertura vaccinale avrebbe ridotto i casi di influenza per i quali è scattato il sospetto di infezione da COVID-19. La consapevolezza dei benefici della vaccinazione anti-influenzale per i pazienti con scompenso cardiaco è già parzialmente acquisita da parte della comunità cardiologica. È auspicabile che la sensibilità del cardiologo cresca anche nei confronti della protezione dei pazienti con malattia coronarica e dei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare. Diversi studi hanno confermato la sicurezza della vaccinazione anti-influenzale in pazienti ad elevato rischio cardiovascolare, anche se eseguita in corso di ricovero per sindrome coronarica acuta, e la sua efficacia nella riduzione degli eventi coronarici14,15.

Ogni anno sono colpiti in Italia da sindrome influenzale 5-9 milioni di persone. La letalità dell’influenza è bassa, dell’ordine dello 0.1%, ma in considerazione dell’elevato numero di persone colpite il numero di morti annuali è ragguardevole, di circa 300-400 con circa 200 morti per polmonite virale primaria. A questi secondo le stime epidemiologiche vanno aggiunte 4000-10 000 morti “indirette” dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari legate all’influenza. I pazienti che muoiono sono nella maggioranza dei casi anziani e con patologie preesistenti, tra le quali emergono per importanza la patologia cardiovascolare ed il diabete.

Le linee guida 2019 della Società Europea di Cardiologia (ESC) sulle sindromi coronariche croniche indicano per la vaccinazione anti-influenzale annuale una raccomandazione di classe I, livello di evidenza B16. Per i pazienti con scompenso cardiaco le linee guida ESC 2016 raccomandano sia la vaccinazione anti-influenzale che quella anti-pneumococcica17.

È necessario che cresca anche la sensibilità nei confronti dell’opportunità della vaccinazione anti-influenzale degli operatori sanitari ospedalieri, in particolare del cardiologo e del personale assistenziale che opera nei reparti di Cardiologia e UTIC. La copertura vaccinale stagionale anti-influenzale del personale sanitario a livello nazionale è intorno al 30%, arrivando al massimo al 40% nelle regioni più virtuose come l’Emilia-Romagna; ancora più bassa è quella del personale infermieristico rispetto a quello medico. La vaccinazione anti-influenzale in questo caso non costituisce soltanto una protezione individuale nei confronti del virus respiratorio, ma anche e soprattutto una misura di protezione nei confronti dei pazienti ricoverati per patologie cardiache acute per i quali una complicanza infettiva respiratoria potrebbe avere conseguenze gravi. Non vanno inoltre trascurate le conseguenza dell’assenza dal lavoro per sindrome influenzale di medici ed infermieri proprio nel periodo nel quale è maggiore la pressione dei ricoveri in ospedale.

L’altra misura della quale si è parlato moltissimo in queste settimane è quella dell’igiene delle mani. Il lavaggio delle mani con acqua e sapone e la frizione con gel idroalcolico sono ritenuti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le misure più efficaci per la prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza e dell’antimicrobico-resistenza18. L’OMS indica come standard di riferimento un consumo ≥20 litri di gel che ogni 1000 giornate di degenza vengono utilizzati dal personale sanitario, pazienti e caregiver. Questo indicatore, semplice da ottenere e calcolare, è utilizzabile a diversi livelli (regionale, aziendale, reparto). Purtroppo in molti reparti, anche UTIC, le rilevazioni annuali evidenziano consumi di gel idroalcolico decisamente inferiori rispetto ai valori target di riferimento.

In conclusione, al di là delle non trascurabili implicazioni cardiologiche della nuova epidemia da coronavirus COVID-19, l’emergenza che stiamo vivendo può costituire l’occasione per riflettere sull’importanza delle patologie infettive respiratorie nel contesto della Cardiologia. È probabile che sempre più spesso il cardiologo dovrà gestire nella propria UTIC pazienti con infezioni gravi da virus respiratori o batteri resistenti agli antibiotici tradizionali. L’infettivologo in molte realtà cardiologiche ospedaliere è diventato un consulente abituale al pari di altri specialisti come il diabetologo o il nefrologo. Ma questo da solo non basta. È necessario che la cultura della prevenzione, che è fortemente radicata nel cardiologo nei confronti dei fattori di rischio cardiovascolare, cresca anche nell’ambito infettivologico che oggi non possiamo più ignorare.

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