In questo numero

covid-19 e cardiologia




COVID-19 e ricerca clinica

Mai come in occasione della pandemia COVID-19 si è assistito ad una mobilitazione planetaria per la ricerca affannosa di terapie capaci di sconfiggere il virus. Se questo da una parte rappresenta un fatto positivo, dall’altra comporta il rischio di disperdere le energie in una miriade di sperimentazioni cliniche spesso sottodimensionate e di bassa qualità metodologica. L’enfasi sulla dubbia efficacia di alcuni farmaci COVID-19 sulla base di deboli segnali provenienti da studi clinici non controllati ha creato inoltre false aspettative nella popolazione. I media, spesso in buona fede, hanno contribuito ad alimentare speranze illusorie e molti trial oggi rischiano di essere interrotti per difficoltà dello sperimentatore a proporre ai pazienti l’adesione a studi clinici randomizzati. In questo editoriale Giuseppe Di Pasquale e Aldo Maggioni fanno il punto sugli studi clinici in corso per la malattia COVID-19, sottolineando i limiti e soprattutto i rischi di una ricerca clinica non rigorosa. Soltanto attraverso la ricerca clinica collaborativa ed i trial clinici randomizzati di ampie dimensioni è possibile produrre risultati solidi trasferibili nella pratica clinica che potranno portare un reale beneficio per i pazienti. •




COVID-19: il virus e la coagulopatia

Solo al termine del lockdown abbiamo informazioni un po’ più precise sull’infezione da COVID-19, che si è rivelata molto più che una polmonite virale. Ad oggi infatti si ritiene sia una malattia sistemica complessa, multiorgano, in cui un elemento chiave nelle fasi conclamate sia uno stato infiammatorio con effetto pro-coagulante. Simona Pierini et al. illustrano le evidenze cliniche ed anatomo-patologiche della coagulopatia da COVID-19, ossia di uno stato di ipercoagulabilità sistemica e di trombofilia, con tendenza alla trombosi venosa, arteriosa e microvascolare e nei casi più gravi alla coagulazione intravascolare disseminata. Si ipotizza che il danno vascolare sistemico determinato dal virus sull’endotelio possa essere la causa principale della coagulopatia, che quindi non sarebbe una complicanza della malattia, ma un vero e proprio elemento patogenetico primitivo dell’infezione da COVID-19. L’effetto prognostico favorevole del trattamento anticoagulante con eparina a basso peso molecolare nei pazienti affetti da questa patologia sosterrebbe tale ipotesi. Questa patologia è comunque di recente comparsa. Occorrerà altro tempo per comprenderla in dettaglio terminando l’enigmatico puzzle della sua patogenesi. •




Raccomandazioni in tema di terapia antitrombotica nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2

Numerosi pazienti con infezione da SARS-CoV-2 necessitano di terapia antiaggregante o anticoagulante per patologie cardiovascolari precedenti. Nei tanti giorni passati in ospedale a tentare di curare i pazienti con COVID-19 abbiamo gestito anche le terapie antitrombotiche e a livello internazionale stanno emergendo le prime raccomandazioni sul tema. Giuseppe Patti et al., a nome del Gruppo di Studio Aterosclerosi, Trombosi e Biologia Vascolare (ATBV), hanno analizzato le evidenze attualmente disponibili per fornire raccomandazioni pratiche relative alla gestione delle terapie antitrombotiche in alcuni scenari prevalenti durante l’infezione da SARS-CoV-2 tenendo conto delle interazioni tra farmaci e delle complicanze trombotiche del virus stesso. •




Pandemia COVID-19 e cardiologia:
il mistero degli infarti spariti

Durante la pandemia COVID-19 si è registrata a livello internazionale una significativa riduzione delle ospedalizzazioni per infarto miocardico. Sabine Vecchio et al. in questa rassegna forniscono una revisione aggiornata della letteratura e l’esperienza dell’UTIC di Ravenna, centro hub per l’angioplastica primaria, durante il primo mese di lockdown. La riduzione dei ricoveri per infarto è comune a tutte le casistiche aggirandosi intorno al 30-50%
con una riduzione maggiore per l’infarto senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI) rispetto agli infarti con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Nell’ambito degli STEMI è stato inoltre registrato un maggiore ritardo sia nei tempi extra che intraospedalieri e questo può avere condizionato un aumento della mortalità. La riduzione dei ricoveri cardiologici non ha interessato solo le sindromi coronariche acute ma anche lo scompenso cardiaco e altre patologie cardiovascolari acute. Le cause di questo fenomeno non sono del tutto chiarite. Una spiegazione ottimistica è quella della riduzione degli infarti in conseguenza del riposo a domicilio imposto dal lockdown. È però più probabile che la riduzione degli infarti sia in realtà avvenuta in relazione ad un minore accesso in ospedale da parte dei pazienti per il timore del contagio nosocomiale durante la pandemia COVID-19 e in alcuni casi ad una difficoltà di accesso ai servizi sanitari sovraccarichi a causa dell’emergenza coronavirus. •




La cardiologia dopo il COVID-19

Lo tsunami COVID-19 ha pesantemente colpito anche la cardiologia e la drammatica riduzione dei ricoveri per patologie cardiovascolari acute, insieme alla drastica riduzione dell’attività ambulatoriale avvenute durante la pandemia, sono destinate a determinare un significativo impatto organizzativo nella cosiddetta fase 2 di ripresa delle attività. Un nuovo position paper dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) a cura di Adriano Murrone et al. si propone di fornire linee di indirizzo per la riprogrammazione delle attività cardiologiche ambulatoriali e la ristrutturazione delle attività dei reparti cardiologici. Il documento, oltre a fornire utili indicazioni pratiche per le modalità di ripresa delle attività cardiologiche, sottolinea anche l’importanza di cogliere attraverso la crisi l’opportunità per rappresentare al decisore pubblico proposte concrete per una ristrutturazione definitiva delle attività cardiologiche con un’attenzione alla telemedicina, oggetto finora di limitati investimenti, l’appropriatezza prescrittiva e l’integrazione ospedale-territorio. La cardiologia, che durante l’emergenza COVID-19 è stata scarsamente consultata da parte delle istituzioni, intende adesso riaffermare il suo ruolo di protagonista nella proposizione di modelli assistenziali innovativi a superamento della logica prestazionale e consulenziale che non appartiene alla cultura clinico-organizzativa della cardiologia italiana. •




Lo sport riparte!

Sì, ma a quale prezzo, sia da un punto di vista del comportamento da tenere per gli atleti sia per la riammissione agli allenamenti. La Federazione Medico Sportiva Italiana ha stilato le raccomandazioni per la riammissione agli allenamenti ed alle gare delle varie discipline sportive agonistiche con specifiche raccomandazioni nei casi di atleti negativi alla ricerca dell’RNA virale ed in quelli risultati positivi. Nell’articolo di Elisa Lodi et al. vengono ben esplicitate tali raccomandazioni e con quali esami strumentali eseguire la valutazione negli atleti agonisti. L’articolo si conclude con le raccomandazioni per la ripresa dell’attività sportiva non agonistica e dell’attività fisica per la prevenzione cardiovascolare, attività anch’esse sottoposte ad estrema limitazione nel periodo di emergenza sanitaria e che interessano un numero ben maggiore di soggetti che possono avere non contratto e contratto il virus; per questi ultimi soggetti sarà importante una valutazione da parte del medico sportivo, andando a rafforzare il collegamento che si sta instaurando tra medicina sportiva e prevenzione secondaria mediante la prescrizione di un farmaco davvero poco costoso: l’attività fisica. Buona lettura e... buona ripresa dell’attività a tutti! •




L’inatteso oltre la polmonite
da SARS-CoV-2

In questi terribili mesi caratterizzati dalla pandemia COVID-19 abbiamo capito che nulla poteva essere impossibile con l’infezione da SARS-CoV-2. Tutti i medici che hanno affrontato sul campo la pandemia hanno purtroppo avuto a che fare con sintomi atipici, presentazioni cliniche anomale, esami di laboratorio alterati ma non suggestivi, falsi positivi, falsi negativi, con tutte le difficoltà diagnostiche e terapeutiche che ne sono conseguite. Un altro terribile risvolto della pandemia COVID-19 sono state le complicanze inattese e di difficile diagnosi e gestione. In questo numero del Giornale, Geza Halasz et al. presentano 3 casi di pazienti affetti da COVID-19 il cui decorso clinico si è complicato tardivamente nonostante una terapia ottimale con embolia polmonare. I colleghi ci guidano nel loro procedimento diagnostico e ci illustrano come hanno gestito questa temibile complicanza. •

questioni aperte




Grey zones sulla duplice terapia antipiastrinica

Le linee guida, pur essendo fondamentali strumenti per operare scelte terapeutiche corrette nella pratica clinica quotidiana, presentano ancora molte “zone grigie”, ovvero indicazioni che mancano di solide evidenze scientifiche e, quindi, di una chiara indicazione sull’atteggiamento clinico più adeguato. Tali zone grigie si traducono in una incertezza dell’atto medico che da un lato ha l’obiettivo di salvaguardare la salute e la qualità di vita dei pazienti, dall’altro cerca di agire nel rispetto delle normative vigenti. In questo articolo Stefano De Servi et al. affrontano alcune zone grigie sulla gestione della duplice terapia antipiastrinica (DAPT), presentandone le argomentazioni a favore o contro e riportando successivamente un commento riassuntivo con dei pratici “take home messages” da utilizzare in corsia. La prima zona grigia di cui si discute è l’utilità degli score per ridurre la durata della DAPT nei pazienti ad alto rischio emorragico, la seconda esamina la correttezza del livello di evidenza per il prolungamento della DAPT oltre l’anno nei pazienti ad alto rischio ischemico e l’ultima riguarda la possibilità di adottare la singola terapia antiaggregante piastrinica più anticoagulante rispetto alla triplice terapia antitrombotica in pazienti con fibrillazione atriale e sindrome coronarica acuta. •

rassegna




L’anticoagulante nella malattia vascolare stabile

Nonostante l’utilizzo della terapia antiaggregante, il rischio residuo di complicanze e di eventi avversi in pazienti con malattia vascolare stabile rimane elevato. E nonostante i continui progressi scientifici, la mortalità derivante dalle malattie cardiovascolari continua ad essere alta. Tra le diverse strategie valutate per cercare di ridurre il rischio di eventi avversi, lo studio COMPASS ha indagato l’utilizzo di rivaroxaban associato ad aspirina in pazienti ad alto rischio cardiovascolare con storia di malattia coronarica stabile o vasculopatia periferica. In questa rassegna, Giuseppe Patti et al. riassumono i presupposti di partenza e i risultati dello studio COMPASS sottolineando l’importanza di strategie antitrombotiche che coinvolgano anche la cascata della coagulazione oltre che l’aggregazione piastrinica nel prevenire la ricorrenza di eventi cardiovascolari. •

studio osservazionale




Edoxaban nel “real world” italiano della fibrillazione atriale: dati ad 1 anno di trattamento

L’avvincente maratona di edoxaban in Italia prosegue. Sono infatti disponibili i dati dei pazienti affetti da fibrillazione atriale dopo 1 anno di trattamento, provenienti dal registro ETNA-AF Europe, in cui sono stati arruolati 13 980 soggetti, che saranno monitorati per 4 anni. In Italia sono stati arruolati 3509 pazienti, prevalentemente anziani, nel 40% dei casi con CHA2DS2-VASc ≥4 e nel 20% dei casi definiti “fragili”. Pietro Ameri et al. illustrano come l’incidenza di eventi clinici in ETNA-AF Italia sia stata bassa: sanguinamento maggiore 1.63%/anno, emorragia intracranica 0.16%/anno, ictus o evento embolico sistemico 0.50%/anno, mortalità per tutte le cause 3.72%/anno. Rilevante è inoltre il fatto che l’incidenza di emorragia intracranica è risultata bassa indipendentemente dalla dose di edoxaban assunta e dall’età dei pazienti. In tal modo l’ultimo anticoagulante orale diretto entrato in commercio, inibitore del fattore X attivato, si conferma più che mai sicuro ed efficace nella nostra pratica clinica quotidiana. •

caso clinico




Quando l’occhio clinico fa la differenza

La dispnea è uno dei sintomi più frequenti fra i pazienti cardiopatici; da cardiologi siamo ben avvezzi a valutarla, etichettarla e trattarla. Tuttavia, a volte, un sintomo “semplice” può nascondere un problema clinico più raro e complesso e la corretta diagnosi può sfuggire se non si guarda agli indizi clinici dalla giusta prospettiva. Nel caso clinico in questione la protagonista è la sindrome platipnea-ortodeossia, patologia caratterizzata da dispnea e desaturazione arteriosa in posizione ortostatica, con miglioramento dei sintomi in posizione supina. In questo report Pietro Pieri et al. sottolineano proprio le caratteristiche cliniche particolari che hanno guidato i clinici in un processo diagnostico per nulla ovvio, portando al rilievo certo di forame ovale pervio e alla successiva scelta di un trattamento invasivo tempestivo con l’uso di una procedura, quale la chiusura percutanea che, contrariamente a quanto accade di norma, in questo caso si è resa necessaria in urgenza. •