Position paper ANMCO:
Malattie del circolo polmonare e COVID-19

Claudio Picariello1, Sergio Caravita2,3, Marco Vatrano4, Iolanda Enea5, Loris Roncon1,
Elisabetta De Tommasi6, Egidio Imbalzano7, Andrea Garascia8, Maria Teresa Manes9,
Leonardo Misuraca10, Stefano Urbinati11, Furio Colivicchi12, Michele Massimo Gulizia13,
Domenico Gabrielli14, a nome dell’Area Malattie del Circolo Polmonare ANMCO

1U.O.C. Cardiologia, Azienda ULSS 5 Polesana, Ospedale Santa Maria della Misericordia, Rovigo

2Dipartimento di Ingegneria Gestionale, dell’Informazione e della Produzione, Università degli Studi di Bergamo, Dalmine (BG)

3U.O.C. Cardiologia, IRCCS Ospedale San Luca, Istituto Auxologico Italiano, Milano

4U.O.C. Cardiologia, Azienda Ospedaliera “Pugliese-Ciaccio”, Catanzaro

5U.O.C. Medicina e Chirurgia d’Urgenza, A.O.R.N. “S. Anna e S. Sebastiano”, Caserta

6U.O.C. di Cardiologia Ospedaliera, Policlinico di Bari

7Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Università degli Studi, Messina

8Dipartimento Cardiotoracovascolare “De Gasperis”, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano

9U.O.C. Cardiologia, Spoke Paola-Cetraro, Cosenza

10U.O.S.D. Cardiologia Interventistica, Ospedale della Misericordia, Grosseto

11U.O.C. Cardiologia, Ospedale Bellaria, Bologna

12U.O.C. di Cardiologia, Ospedale S. Filippo Neri, Roma

13U.O.C. Cardiologia, Ospedale Garibaldi-Nesima, Azienda di Rilievo Nazionale e Alta Specializzazione “Garibaldi”, Catania

14U.O. Cardiologia, Ospedale Civile “Augusto Murri”, Fermo

The new coronavirus disease 2019 (COVID-19), which is causing hundreds of thousands of deaths worldwide, is complex and can present with a multi-organ localization. One of its worst complications is an interstitial pneumonia with acute respiratory failure also known as severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2), which requires non-invasive or invasive ventilation. A severe coagulopathy with poor prognosis is found in 5-10% of cases. SARS-CoV-2 is manifesting as a multi-dimensional disease and, recently, unique co-existing pathophysiological and clinical aspects are being defined: (i) an increased immune and inflammatory response with the activation of a cytokine storm and consequent coagulopathy, which promote both venous thromboembolic events and in situ thrombosis localized in small arterioles and pulmonary alveolar capillaries; (ii) a high intrapulmonary shunt, which often accounts for the severity of respiratory failure, due to reduced hypoxic pulmonary vasoconstriction with pulmonary neo-angiogenetic phenomena. Furthermore, the high incidence of venous thromboembolism in COVID-19 patients admitted to the intensive care unit and the autoptic findings of in situ micro-thrombosis at the pulmonary vascular level, suggest that in this disease coagulopathy, unlike septic disseminated intravascular coagulation, is driven towards a hyper-thrombogenic state, giving rise to a debate (with ongoing studies) about the preventive use of anticoagulant doses of heparin to reduce mortality. The aim of this position paper from the Italian Association of Hospital Cardiologists (ANMCO) is to highlight the main implications that COVID-19 infection has on the pulmonary circulation from a pathophysiological, clinical and management point of view.

Key words. Acute respiratory distress syndrome; COVID-19; Pulmonary circulation diseases; Pulmonary embolism; Pulmonary hypertension; Venous thromboembolism.

INTRODUZIONE

La malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) è una zoonosi causata da un nuovo coronavirus 2, nato da un mix di geni di coronavirus di pangolino e di pipistrello con capacità di “salto di specie” all’uomo1. Quando il virus provoca una sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) è noto come SARS-CoV-2. Dal 21 febbraio ha contagiato ufficialmente circa 235 000 persone in Italia e provocato circa 35 000 morti ufficiali (tasso di mortalità pari a circa il 14.5%)2. Nei casi più gravi, l’infezione può esitare entro 7-10 giorni in un quadro di polmonite interstiziale spesso bilaterale ed insufficienza respiratoria con o senza ipossiemia, ed in una minore percentuale (5%) può evolvere in una sindrome infiammatoria severa con tempesta citochinica ed ipercoagulabilità, spesso a prognosi infausta. Tale “coagulopatia indotta da COVID-19” (CIC), a differenza di quella intravascolare disseminata tipica della sepsi, appare essere a maggior spinta trombotica che emorragica3, esacerbata dalla caratteristica grave ipossia tipica della ARDS. Dati sempre maggiori evidenziano un’incidenza affatto trascurabile di tromboembolismo venoso (TEV) soprattutto nei pazienti con COVID-19 ammessi in unità di terapia intensiva (UTI)4-7, con importanti implicazioni prognostiche negative.

In tali pazienti la gravità delle condizioni cliniche, la presenza di una risposta infiammatoria severa e di fattori di rischio di base (sesso maschile, obesità, neoplasie, precedenti di tromboembolismo) aumentano il rischio di TEV. Per quanto detto, e soprattutto dopo alcuni dati di letteratura incoraggianti in tal senso8,9, è stato considerato l’utilizzo di eparina a basso peso molecolare (EBPM) a dosaggio profilattico e terapeutico per il miglioramento della prognosi in questi pazienti.

In questo position paper ANMCO verranno affrontate le attuali conoscenze epidemiologiche e fisiopatologiche del circolo polmonare in pazienti COVID-19, fornendo indicazioni pratiche sulla prevenzione, diagnosi e terapia del TEV in corso di COVID-19, compresa la gestione della terapia anticoagulante in acuto ed a lungo termine e le interazioni con i farmaci specifici.

SARS-CoV-2: UNA NUOVA MALATTIA

Il primo caso della malattia è stato descritto a Wuhan nel dicembre 201910. A distanza di circa 3 mesi, il 18 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia. La trasmissione interumana avviene mediante aerosol o “droplets” generati da tosse o starnuti, ma anche da contatto con superfici contaminate11. Il virus, a singolo filamento RNA, entra nelle cellule per endocitosi dopo essersi legato alla proteina dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), abbondantemente presente sulle cellule del sistema respiratorio, ma anche su cellule cardiache, vascolari, renali e del tratto gastroenterico12. Le manifestazioni cliniche possono essere variabili: assenti in una grossa percentuale dei soggetti positivi “asintomatici”; lievi come presenza di febbre, tosse secca, ageusia o anosmia; oppure evolvere verso forme più severe come polmonite bilaterale, infiammazione sistemica, disfunzione endoteliale, attivazione piastrinica e coagulopatia, ARDS, e infine disfunzione multiorgano. Molteplici sono le complicanze cardiovascolari descritte in corso di COVID-19: un rialzo della troponina è presente fino al 25% dei pazienti ricoverati13, imputabile a infarto miocardico, miocardite, CIC e TEV14. La diagnosi di COVID-19 viene eseguita sulla presenza di RNA virale nel tampone nasofaringeo o lavaggio bronco-alveolare. La sensibilità del test è solo del 50-80%, a causa di errori di esecuzione, campione o carica virale troppo bassa, o per tempistica sbagliata di esecuzione del tampone15. I test sierologici IgM-IgG, con sensibilità e specificità variabili in relazione alla tecnica di rilevazione, in assenza di conoscenze esaustive sulla cinetica anticorpale non possono essere usati in fase diagnostica in alternativa al tampone nasofaringeo, mentre hanno una valenza nella fase di rilievo a distanza dell’immunizzazione (anche se non è noto il relativo impatto prognostico). La tomografia computerizzata (TC) ad alta risoluzione mostra spesso opacità a vetro smerigliato bilaterali distribuite basalmente e a livello subpleurico, e la sua sensibilità diagnostica può essere più alta del tampone nasofaringeo gravato da falsi negativi16. Dal punto di vista laboratoristico, è molto frequente il rilievo di linfocitopenia relativa, rialzo della lattico-deidrogenasi e di marker infiammatori come proteina C-reattiva, ferritina, interleuchina-6 e, soprattutto, del D-dimero aumentato nel 70% dei pazienti17, che in quanto marker di danno cellulare assumerebbe un valore prognostico negativo18. Altri parametri coagulativi quali il tempo di protrombina, il fibrinogeno e le piastrine risultano meno alterati del D-dimero. A partire dagli studi prognostici sui valori di D-dimero, e dai primi riscontri autoptici di episodi embolici e trombotici polmonari in pazienti COVID-19 intubati e ventilati meccanicamente deceduti in UTI, l’attenzione si è spostata sulle complicanze tromboemboliche (venose, ma anche arteriose) in corso di COVID-1919.

Vi sono diversi modi in cui l’infezione da COVID-19 può associarsi ad eventi tromboembolici: in primis l’ipossia causata dall’infezione polmonare severa può predisporre ad eventi trombotici, di frequente attraverso lo sviluppo di una coagulazione intravascolare disseminata (CID) chiamata nello specifico “CIC”3.

Uno studio cinese ha mostrato che il 71.4% dei pazienti deceduti (e solo lo 0.6% dei sopravvissuti) raggiungeva i criteri dell’International Society on Thrombosis and Haemostasis per CID20, mentre in un’altra analisi solo il 6.4% dei deceduti per COVID-19 presentava segni clinici di CID in vita21. Anche nel corso dell’epidemia di SARS del 2003, la CID era stata riportata nel 2.5% dei casi ed era associata a prognosi peggiore.

Sono stati descritti inoltre casi isolati di manifestazioni tromboemboliche in COVID-19 con positività per IgG e IgA anticardiolipina e anti-β2-glicoproteina, suggerendo che anticorpi antifosfolipidi potrebbero essere alla base dell’aberrante attivazione della cascata coagulativa22. Le ultime raccomandazioni dell’American Society of Hematology per la CIC23 indicano un controllo all’ingresso e poi in modo seriato di tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale attivato, D-dimero e fibrinogeno (come nella CID), e di evitare trasfusioni con emoderivati, ad eccezione dei casi di sanguinamento in atto, dato che potrebbero peggiorare la tendenza alla trombosi.

Nella Figura 1 vengono riassunti i meccanismi postulati alla base della CIC e la patogenesi degli eventi trombotici14.

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI E IMPLICAZIONI PER IL CIRCOLO POLMONARE

I casi più gravi di polmonite interstiziale associata a COVID-19 soddisfano i criteri diagnostici per ARDS24: edema alveolare infiammatorio (edema polmonare non cardiogeno), ridotta compliance polmonare e grave ipossiemia, necessitante ventilazione meccanica25. Il danno parenchimale infiammatorio diffuso rende conto sia della maggiore rigidità dei polmoni sia della limitazione degli scambi gassosi. Per dare un’idea, la compliance polmonare di un paziente con ARDS è in genere di circa 30 ml/cmH2O, ovvero ridotta a meno di un terzo di una normale compliance polmonare26. Inoltre, la presenza di zone di polmone scarsamente o non ventilate costituisce la base anatomica per lo sviluppo di mismatch ventilazione/perfusione con shunt intrapolmonare (Qs/Qt), che si ritiene sia il maggiore determinante dell’ipossiemia grave di questi pazienti27. L’ipertensione polmonare pre-capillare è un riscontro frequente, variabilmente attribuito alla vasocostrizione polmonare ipossica, alla trombosi microvascolare in situ e, talvolta, ad un vero e proprio rimodellamento vascolare polmonare28.




In particolare, la regolazione vascolare riflessa del circolo polmonare in presenza di zone polmonari a bassa tensione di ossigeno può permettere di ridurre di circa il 50% il flusso ematico indirizzato alle zone atelettasiche, migliorando il rapporto ventilazione/perfusione e limitando lo shunt intrapolmonare, al prezzo di un incremento del postcarico ventricolare destro29. Tuttavia, le segnalazioni presenti in letteratura suggeriscono che la SARS-CoV-2 possa presentare degli aspetti diversi dall’ARDS classica, particolarmente rilevanti per il circolo polmonare: a) accentuata ipercoagulabilità e b) attenuata vasocostrizione polmonare ipossica. Gli aspetti principali della CIC sono stati sopra descritti. È tuttavia importante ricordare che durante la tempesta citochinica infiammatoria che caratterizza la SARS-CoV-2, il bilancio tra sostanze pro- e anticoagulanti predispone allo sviluppo di trombosi microvascolare polmonare, sia pre- sia post-capillare, come dimostrato in una piccola serie autoptica30. Tuttavia, nonostante l’ipossiemia, il danno parenchimale polmonare esteso e l’alta frequenza di microtrombosi a livello vascolare polmonare, è stata a più riprese avanzata l’ipotesi di una ridotta vasocostrizione polmonare ipossica che distinguerebbe l’ARDS relata a COVID-19 dall’ARDS “classica”31. Ciò nasce da una prima descrizione, in una piccola casistica, di insufficienze respiratorie severe in pazienti COVID-19 a fronte di una compliance polmonare (50 ml/cmH2O) non particolarmente compromessa ed in presenza di un alto shunt intrapolmonare (Qs/Qt 0.5), la cui entità era difficilmente spiegabile sulla base del danno parenchimale polmonare32. Ulteriori indizi indiretti in favore di un’attenuata vasocostrizione polmonare ipossica come caratteristica peculiare dell’ARDS da COVID-19 oltre a quanto sopra riportato sono rappresentati da:

– l’evidenza, su una piccola casistica di pazienti COVID-19 studiata tramite TC del torace “dual energy”, di una dilatazione e tortuosità delle arteriole polmonari in prossimità degli addensamenti parenchimali e di un’aumentata perfusione prima e nel contesto degli stessi33, che potrebbe rappresentare il substrato macroscopico per lo shunt intrapolmonare;

– la dimostrazione, a livello autoptico su 7 casi deceduti per insufficienza respiratoria da COVID-19, di un’incrementata neoangiogenesi capillare intussuscettiva, differente dall’angiogenesi per gemmazione per un notevole aumento della superficie capillare (caratteristica distintiva da ARDS legata a H1N1)34.

In questi pazienti, l’angiogenesi capillare intussuscettiva potrebbe essere favorita dall’espressione di geni pro-angiogenetici nel contesto dell’infezione da SARS-CoV-2 e da fattori emodinamici. Infatti, un alto flusso ematico locale è in grado di favorire questa peculiare crescita di nuovi vasi35, favorito sia dalla ridistribuzione della gittata cardiaca ai vasi capillari pervi (esenti da trombosi in situ), sia da uno stato di alta gittata secondario a infiammazione, anemia da fase acuta, squilibrio tra l’attività dell’ACE1 ed ACE236 e ridotta vasocostrizione polmonare ipossica31.

Queste sono le variegate basi fisiopatologiche di interesse per il circolo polmonare, che possono rendere conto dell’eterogeneità delle manifestazioni cliniche in corso di COVID-19 e della variabilità del fenotipo clinico nel corso del tempo.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Sindrome da distress respiratorio acuto e ventilazione meccanica: implicazioni emodinamiche del circolo polmonare

Un principio base del trattamento dell’ARDS è la ventilazione meccanica invasiva. Essa risulta fondamentale in pazienti con edema interstiziale infiammatorio diffuso e consolidamenti alveolari, mentre può essere ritardata, pur mantenendo un alto livello di vigilanza, nei pazienti che pure presentino una relativo risparmio del parenchima polmonare, qualora non dispnoici e rispondano bene all’ossigenoterapia ad alti flussi37.

Il polmone nell’ARDS è ventilato in maniera non uniforme, con le zone non areate localizzate prevalentemente nelle regioni declivi, a causa del peso dell’essudato infiammatorio sovrastante. Il volume del polmone ventilato è più piccolo del normale, fenomeno denominato “baby lung”. Questo concetto identifica la bassa compliance del sistema respiratorio proprio nelle zone di consolidamento parenchimale con edema, infiammazione ed atelettasie38.




Proprio a causa del piccolo volume aereo del “baby lung” in corso di ARDS, un principio cardine della ventilazione meccanica invasiva è quello di garantire un piccolo volume corrente (6 ml/kg) per evitare una sovradistensione del parenchima areato con conseguente danno da ventilatore, esercitando una cosiddetta “ventilazione protettiva”, al prezzo di scambi respiratori subottimali (ipercapnia permissiva). Al tempo stesso, un altro principio cardine della ventilazione meccanica invasiva è la pressione positiva di fine espirazione (PEEP): una PEEP ideale dovrebbe essere in grado di prevenire il collasso delle vie aeree distali ad ogni ciclo respiratorio. Il termine “reclutabilità” viene utilizzato proprio per identificare quelle vie aeree distali che possono risultare collassate o edematose, ma che possono essere riabitate dall’applicazione di una PEEP (es. 8-10 cmH2O) al punto da permettere loro di partecipare agli scambi respiratori25.

Nel contesto della polmonite da COVID-19, la ventilazione meccanica invasiva è prerogativa dei pazienti con quadro patognomonico per ARDS. In particolare, pazienti con abbondanti linee B all’ecografia toracica come da sindrome interstiziale possono rispondere molto bene alla PEEP: alti valori di PEEP aumentano il reclutamento alveolare e quindi gli scambi respiratori. Inoltre, in alcuni pazienti la PEEP può ridurre le escursioni della pressione intrapleurica, interrompendo così il circolo vizioso in grado di esacerbare il danno polmonare37. Tuttavia, soprattutto nei pazienti con compliance polmonare relativamente preservata e scarsa reclutabilità polmonare, gli effetti positivi della PEEP sul versante respiratorio possono essere scarsi e ampiamente controbilanciati da effetti emodinamici negativi, soprattutto ad alti valori di PEEP e/o nei pazienti ipovolemici o con ipertensione polmonare precapillare39. Una PEEP eccessiva può ridurre il ritorno venoso e il precarico ventricolare destro; sovradistendere gli alveoli comprimendo i capillari polmonari ed aumentare così le resistenze vascolari polmonari e il postcarico ventricolare destro; ridurre la gittata cardiaca; aumentare l’interdipendenza ventricolare peggiorando il riempimento ventricolare sinistro (Figura 2).

Tromboembolismo venoso: complicanza o causa
di mortalità

L’infezione da COVID-19 espone ad un maggior rischio di TEV: dall’1.1% in pazienti ricoverati in degenza, al 25.7% di una casistica cinese in UTI4 fino al 49% di una recente serie olandese5. Tali percentuali sono più elevate rispetto alla pandemia da SARS del 2002, ove l’incidenza di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare è stata rispettivamente del 20.5% e dell’11.4% in casi autoptici40. La variabilità di tali studi sul rischio di TEV nei pazienti COVID-19 è sicuramente legata all’eterogeneità dei campioni studiati, dei criteri di ammissione in ospedale/UTI, di imaging. La reale incidenza di embolia polmonare in corso di manifestazioni severe da COVID-19 è verosimilmente sottostimata, poiché generalmente solo i pazienti nei quali vi sia un sospetto clinico vengono sottoposti ad angio-TC polmonare, visti i problemi legati all’isolamento e alla contaminazione delle sale radiologiche. È comunque fondamentale mantenere un alto grado di allerta rispetto all’occorrenza di TEV come complicanza in corso di COVID-1941. Inoltre, in questo recente periodo di quarantena e sedentarietà forzata, in alcuni centri cardiologici italiani è stata segnalata un’aumentata incidenza di accessi al pronto soccorso per dispnea con successivo riscontro diagnostico di tromboembolia polmonare anche nei pazienti poi risultati COVID-19 negativi: l’esordio del COVID-19 con dispnea, febbricola, tosse, ipossia e ipocapnia può essere spesso simile a quello di un episodio di TEV, specie in assenza di segni di trombosi venosa profonda. Visto il valore prognostico del D-dimero18, nel caso di aumento dei suoi valori di almeno 3-4 volte nel paziente con sospetto COVID-19, è da considerare (qualora tecnicamente fattibile dal punto di vista di sicurezza organizzativa) l’esecuzione immediata già in pronto soccorso di un’angio-TC toracica anziché semplice TC diretta, se possibile anche in pazienti COVID-19 con D-dimero normale senza controindicazione a mezzo di contrasto42.

Uno studio recente ha infatti rivelato che il 40% (10 su 25) dei pazienti COVID-19 con D-dimero >6 ng/ml che hanno eseguito un’angio-TC toracica avevano un’embolia polmonare, spesso segmentaria43. Inoltre un altro lavoro ha confermato a livello autoptico che in pazienti COVID-19 deceduti per rapido peggioramento emodinamico, la causa era un episodio di embolia polmonare44.

I più recenti editoriali a riguardo raccomandano di considerare più che in altri contesti il sospetto diagnostico di TEV nei pazienti COVID-19 ricoverati in degenza o in UTI, soprattutto in caso di repentina ipotensione, tachicardia, desaturazione arteriosa o modifiche elettrocardiografiche indicative di embolia polmonare45.

Le embolie polmonari riportate vanno da embolie polmonari segmentali e subsegmentali (spesso paucisintomatiche) a embolie polmonari bilaterali con ulteriore deterioramento degli scambi gassosi fino a quadri di cuore polmonare acuto ad esito spesso infausto46-48.

Riguardo ai reperti ecocardiografici, non necessariamente è presente un quadro di disfunzione destra o rialzo delle pressioni polmonari stimate, in quanto il danno embolico può interessare anche regioni segmentarie e subsegmentarie del circolo polmonare e non dare danni diretti/indiretti del cuore destro49. Circa la possibilità di eseguire una compressione venosa con ultrasuoni degli arti inferiori, non vi sono evidenze riguardo il suo utilizzo routinario durante il ricovero per COVID-19 in assenza di segni/sintomi di TEV50. Infine, per la terapia del TEV diagnosticato in corso di COVID-19, anche le ultime raccomandazioni europee consigliano di seguire le indicazioni delle linee guida 201951,52, con preferenza per EBPM o eparina non frazionata (ENF), viste anche le interazioni farmacologiche tra anticoagulanti orali diretti e terapia antiretrovirale.

TERAPIA ANTICOAGULANTE: SOLO UNA TERAPIA PER IL TROMBOEMBOLISMO VENOSO O ANCHE PER COVID-19?

Se nei pazienti con TEV diagnosticato in corso di COVID-19 l’approccio terapeutico è uniforme a quello delle ultime linee guida europee51, è dibattuto se l’EBPM (es. enoxaparina 1 mg/kg x 2) a dose anticoagulante e non profilattica possa essere considerata un’opzione terapeutica con buon rapporto rischio/beneficio anche in pazienti COVID-19 senza TEV dimostrato53.

Dati molto recenti dall’ospedale di Wuhan4 hanno mostrato come pazienti COVID-19 che ricevevano ENF o EBPM non avessero differenze nella sopravvivenza a 28 giorni, ma dall’analisi multivariata l’eparina riduceva la mortalità nei pazienti con D-dimero >3 μg/ml (6 volte i valori normali) o con uno score SIC (coagulopatia indotta da sepsi) >4. Inoltre, un piccolo studio pilota ha mostrato che l’uso off-label dell’attivatore tissutale del plasminogeno (25 mg) in 3 pazienti con quadro clinico severo induceva un miglioramento temporaneo della coagulazione, senza complicanze emorragiche. Poiché non si notavano benefici sulla sopravvivenza, gli autori concludevano che si dovrebbero testare regimi terapeutici più aggressivi54. Nonostante non sia stato possibile dimostrare il beneficio derivante dalla somministrazione di EBPM in pazienti senza elevazione del D-dimero, è stato suggerito che la somministrazione di eparina potrebbe avere altri effetti positivi sulla cascata infiammatoria55.

Nella sindrome da anticorpi antifosfolipidi l’utilità dell’eparina sembrerebbe derivare dalla doppia azione antitrombotica ed anticomplemento56. La tesi che l’eparina potrebbe interrompere la reciproca attivazione di infiammazione e trombosi57 deriva da esperimenti in vitro e preclinici, che hanno mostrato che l’eparina può inibire il rilascio di interleuchina-6 dalle cellule epiteliali polmonari58. In linea con queste osservazioni, una metanalisi su casi di ARDS ha notato che l’uso precoce di eparina è associato a miglioramento della sopravvivenza e del rapporto tra pressione parziale e frazione inspiratoria di ossigeno (PaO2/FiO2)59. Infine è stato dimostrato che l’eparina possiede attività antivirale, interferendo con l’adesione alla superficie cellulare di diversi virus e in quanto capace di legare la proteina S del SARS-CoV-260. In alcune categorie di pazienti ambulatoriali (allettati o poco mobilizzati, grandi obesi, con pregressi episodi tromboembolici, pazienti oncologici), e nei pazienti COVID-19 paucisintomatici, è da valutare in accordo col curante l’uso profilattico di EBPM, utilizzando score di rischio già validati in pazienti ospedalizzati (Padua Prediction Score >4)61. In questi casi l’inizio precoce di EBPM a dose profilattica anche a domicilio sembra possa in qualche modo prevenire la cascata infiammatoria pro-trombotica che porta alla CIC. Tutti i più recenti documenti di consenso sono comunque unanimi nel raccomandare dosi profilattiche di eparina (possibilmente aggiustate per peso corporeo e funzionalità renale) in tutti i pazienti ospedalizzati per COVID-19, tranne in caso di piastrinopenia severa (<25 000/mm3) o sanguinamento attivo62-64. In questi ultimi due casi, è indicata un’elasto-compressione degli arti inferiori.

Iniziano inoltre ad esserci evidenze di un ruolo prognostico dell’eparina a dose anticoagulante in pazienti COVID-19 di UTI ventilati meccanicamente: uno studio retrospettivo ha mostrato una significativa riduzione della mortalità (29.2% vs 62.7%) associata all’utilizzo del farmaco9. Lo studio però è limitato dall’assenza di dettagli sulle caratteristiche dei pazienti, sulle indicazioni all’anticoagulante e sulle terapie concomitanti. Altre esperienze europee hanno comunque mostrato un’aumentata incidenza di TEV in corso di terapia con EBPM profilattica in pazienti critici COVID-19 ricoverati in UTI5,65, per cui in un recente documento di consenso americano64 si suggerisce in questa categoria di pazienti dosi intermedie di EBPM (enoxaparina 0.5 mg/kg x 2/die, eparina 7500 U sottocute x 3/die, o ENF a bassa intensità).

In Italia, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha promosso diversi protocolli di ricerca su questo argomento, tuttora in corso (INHIXA COVID, COVID-19 HD, EMOS COVID, https://www.aifa.gov.it/sperimentazioni-cliniche-covid-19). Alla luce di quanto descritto, si propone un algoritmo terapeutico per l’utilizzo di EBPM a diversi dosaggi nei diversi contesti COVID-19 (Figura 3).

Riguardo alla possibilità di proseguire una terapia anticoagulante post-dimissione nei pazienti COVID-19, non vi sono ancora studi o evidenze66. Il rischio di TEV post-ricovero, come per altre patologie, dura circa 90 giorni e l’indicazione può essere valutata caso per caso in pazienti a basso rischio emorragico che presentino le seguenti caratteristiche: ricovero in UTI con sedazione, intubazione e allettamento prolungato, oppure persistenza di fattori di rischio maggiori per TEV alla dimissione (ipomobilità, mancato ritorno allo stato funzionale iniziale). In questi casi, un recente documento di consenso americano64 suggerisce di utilizzare anticoagulanti orali diretti (DOAC) a dosi profilattiche (betrixaban 160 mg poi 80 mg/die per 40 giorni – non disponibile in Europa – o rivaroxaban per un periodo fino a 40 giorni)67, o in alternativa l’uso di EBPM (aggiustata per peso e funzionalità renale) o aspirina68 educando i pazienti a riconoscere precocemente segni e sintomi di TEV a domicilio, possibilmente con un monitoraggio ogni 1-3 mesi dei valori di D-dimero. Un altro tema di interesse è sicuramente la presenza di frequenti interazioni tra terapia anticoagulante e le terapie immunomodulanti e antiretrovirali impiegate per la cura del COVID-1969. Ad esempio, in caso di terapia con anticorpi monoclonali (sarilumab o tocilizumab) è necessario aumentare la dose di warfarin, apixaban e rivaroxaban, mentre in caso di terapia antiretrovirale (lopinavir/ritonavir) rivaroxaban e apixaban sono controindicati, mentre è necessario aumentare il dosaggio di warfarin e ridurre quello di edoxaban. Nel caso di pazienti in terapia cronica con warfarin, per limitare i controlli ematici in periodo di pandemia, bisogna sempre valutare lo switch a DOAC tranne nei casi controindicati (protesi meccaniche, gravidanza/allattamento, sindrome da anticorpi antifosfolipidi).

CONCLUSIONI

La malattia da COVID-19 è associata ad uno stato ipercoagulativo, una risposta infiammatoria acuta e alterazioni laboratoristiche differenti dalla CID con rialzo marcato del D-dimero, e rischio trombotico molto più alto di quello emorragico. Il rischio di episodi di TEV è pertanto maggiore, soprattutto in pazienti ricoverati in UTI ventilati meccanicamente, in percentuali variabili (fino al 25-49%) spesso anche in corso di anticoagulazione profilattica. I pazienti affetti da SARS-CoV-2 più gravi presentano polmonite interstiziale, una ARDS con attenuata vasocostrizione polmonare ipossica e ridotta compliance polmonare, con gradi variabili di mismatch ventilazione/perfusione. Dal punto di vista della meccanica respiratoria, va considerata in tali pazienti una ventilazione protettiva (6 ml/kg) garantendo livelli di PEEP adeguati alla compliance polmonare ma bilanciati per evitare ridotto ritorno venoso e sovraccarico ventricolare destro. La terapia anticoagulante (preferibilmente eparina) va somministrata nei pazienti COVID-19 affetti da TEV come da linee guida europee 2019, evitando in fase acuta i DOAC per le interazioni farmacologiche con la terapia antiretrovirale. Sono tuttora in corso (ed in parte conclusi) studi sull’utilizzo di eparina a dosi anticoagulanti (e non profilattiche) in pazienti COVID-19 ricoverati in UTI allo scopo di ridurre complicanze tromboemboliche fatali, descritte in alcuni studi autoptici. Il clinico dovrà comunque mantenere un alto livello di sospetto, anche guidato dai livelli di D-dimero, per la diagnosi di TEV in corso di COVID-19.




PRINCIPALI RACCOMANDAZIONI

1. In pazienti con sospetto COVID-19 con elevati valori di D-dimero (almeno 3 volte), valutare l’esecuzione di TC multistrato del torace con mezzo di contrasto per escludere la concomitante presenza di embolia polmonare già al momento del ricovero.

2. In corso di polmonite interstiziale/ARDS da COVID-19, mantenere una ventilazione protettiva (6 ml/kg) garantendo livelli di PEEP adeguati alla compliance polmonare ma bilanciati per evitare ridotto ritorno venoso e sovraccarico ventricolare destro.

3. L’infezione da COVID-19 si accompagna spesso nei pazienti ospedalizzati, o prima del ricovero, ad un’aumentata incidenza di TEV, pertanto è raccomandata nei pazienti ospedalizzati una profilassi con EBPM, e in quelli in quarantena domiciliare se ad alto rischio di TEV (Padua Prediction Score >4). Se ad elevato rischio emorragico o con piastrine <25 000/mm3 è indicata l’elasto-compressione.

4. Gli eventi tromboembolici, soprattutto venosi, sono molto frequenti nei pazienti COVID-19 ricoverati in UTI, per cui il clinico deve mantenere un elevato livello di sospetto soprattutto in caso di immediata ed inspiegata instabilità emodinamica (shock cardiogeno), alterazioni elettrocardiografiche caratteristiche di embolia polmonare, comparsa di segni/sintomi di trombosi venosa profonda.

5. Nei pazienti COVID-19 in UTI ventilati meccanicamente l’uso di terapia anticoagulante a dose intermedia o piena è giustificata, qualora non eseguibile angio-TC toracica di conferma, solo in caso di instabilità emodinamica (ipotensione e/o tachicardia) e/o rialzo significativo del D-dimero (almeno 3 volte) non altrimenti spiegati, o alterazioni elettrocardiografiche-ecocardiografiche tipiche di TEV, se rischio emorragico non elevato.

6. Dopo la dimissione, in presenza di fattori di rischio per TEV (obesità, sesso maschile, pregresso TEV, cancro), valutare nei pazienti COVID-19 la prosecuzione della terapia anticoagulante (EBPM per almeno 14 giorni o DOAC a dosaggio ridotto fino a 40 giorni).

7. In caso di TEV in corso di ricovero per COVID-19, si confermano le indicazioni delle linee guida ad anticoagulazione orale per almeno 3-6 mesi.

8. Porre attenzione alle interazioni tra terapia anticoagulante (soprattutto warfarin e DOAC) con alcuni farmaci immunomodulanti/antiretrovirali per il COVID-19, più sicuro l’uso di EBPM.

RIASSUNTO

La malattia da coronavirus 2019 (COVID-19), che sta provocando centinaia di migliaia di morti nel mondo, è complessa e può presentare una localizzazione multiorgano. Essa può determinare polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria acuta nota come sindrome respiratoria acuta severa da coronavirus 2 (SARS-CoV-2), con necessità di ventilazione non invasiva o invasiva. Nel 5-10% dei casi si rileva coagulopatia severa a prognosi infausta. La SARS-CoV-2 si configura quale malattia multidimensionale di cui si stanno definendo aspetti fisiopatologici e clinici caratteristici a volte coesistenti: a) un’aumentata risposta immunologica ed infiammatoria con attivazione di uno storm citochinico e conseguente coagulopatia, che favorisce sia eventi di tromboembolismo venoso (TEV), sia la trombosi in situ a livello delle arteriole e dei capillari alveolari polmonari; b) un alto shunt intrapolmonare, che rende spesso ragione della severità dell’insufficienza respiratoria, attribuito ad una ridotta vasocostrizione polmonare ipossica con fenomeni neo-angiogenetici polmonari. Inoltre, l’elevata incidenza di TEV nei pazienti COVID-19 ricoverati in unità di terapia intensiva ed il riscontro autoptico di microtrombosi in situ a livello vascolare polmonare, sta evidenziando che in tale malattia, la coagulopatia, a differenza della coagulazione intravascolare disseminata in corso di sepsi, è sbilanciata verso un’aumentata trombogenicità dando luogo ad un dibattito (con studi in corso) circa l’uso preventivo di dosi anticoagulanti di eparina per ridurre la mortalità. Scopo del presente position paper ANMCO vuole essere quello di sottolineare le principali implicazioni che l’infezione da COVID-19 ha sul circolo polmonare dal punto di vista fisiopatologico, clinico, terapeutico e gestionale.

Parole chiave. COVID-19; Embolia polmonare; Ipertensione polmonare; Malattie del circolo polmonare; Sindrome da distress respiratorio acuto; Tromboembolismo venoso.

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