La fibrillazione atriale si associa ad un aumento di morte di 1.5-1.9 volte anche in soggetti senza altre patologie cardiovascolari evidenti. La causa principale di questo incremento di mortalità, e di un ancor più elevato rischio di morbilità, è l’ictus ischemico, secondario al distacco di emboli a partenza da trombi in atrio sinistro o in auricola sinistra. Nello studio Framingham la percentuale di ictus in corso di fibrillazione atriale è stata del 14.7%, aumentando dal 6.7% al di sotto dei 59 anni ad oltre il 36% dopo gli 80 anni. Il rischio di ictus peraltro non è uniforme variando dallo 0.4% al 12% per anno, a seconda del profilo di rischio del paziente.
L’efficacia della terapia anticoagulante orale nella prevenzione dell’ictus embolico è chiaramente dimostrata da un ampio numero di trial clinici randomizzati; tuttavia il timore di eventi emorragici ha portato una sottoutilizzazione della terapia antitrombotica in tali pazienti. Come ausilio ad un corretto approccio terapeutico sono stati proposti diversi schemi di stratificazione del rischio cardioembolico, che tuttavia non sono risultati esenti da limiti intrinseci.
In questa breve relazione verranno affrontati tre punti chiave nell’ambito della problematica della prevenzione dell’ictus ischemico: la comparazione dei differenti schemi di stratificazione del rischio, la percezione ed applicazione dei differenti schemi di stratificazione del rischio nella pratica clinica e gli effetti dei comportamenti terapeutici sugli eventi clinici.