La relazione tra elevata frequenza cardiaca e mortalità è stata valutata in 38 studi. La maggior parte di questi ha mostrato che dopo aggiustamento per svariati altri fattori di rischio la frequenza cardiaca mantiene un ruolo indipendente nel predire la mortalità totale e/o cardiovascolare. Questa associazione è risultata più debole nelle donne. I quattro studi effettuati in pazienti con ipertensione arteriosa hanno riscontrato tutti un’associazione significativa tra frequenza cardiaca e mortalità. Nonostante questa evidenza inconfutabile, la frequenza cardiaca rimane ancora oggi un fattore di rischio cardiovascolare negletto. Questo a dispetto del fatto che anche i meccanismi patogenetici che spiegano l’associazione tra frequenza cardiaca e morbilità cardiovascolare siano stati chiariti. Numerosi studi retrospettivi hanno documentato il beneficio della riduzione della frequenza cardiaca con farmaci ad azione bradicardizzante in pazienti con sindromi coronariche acute o con scompenso cardiaco. Non esistono invece trial che documentino un simile beneficio in soggetti non cardiopatici ed in particolare in pazienti ipertesi. Nell’attesa che questi trial vengano eseguiti appare comunque ragionevole trattare i soggetti ipertesi con frequenza cardiaca > 80-85 b/min con betabloccanti o calcioantagonisti non diidropiridinici. Anche la nuova classe di farmaci bradicardizzanti con azione sui canali If potrebbe trovare utile impiego in questi pazienti.