Si definisce occlusione coronarica cronica un’ostruzione datante da almeno 3 mesi con completa assenza del flusso anterogrado a valle. Istologicamente essa risulta costituita da una diversa combinazione di placca ateromasica e trombo, a seconda del meccanismo di formazione dell’occlusione e della sua durata. Si rinviene nel 35% degli studi angiografici, ma è il target di non più del 10% delle procedure interventistiche, in quanto è frequente motivo di indicazione a terapia medica o chirurgica. La disostruzione di un’occlusione coronarica cronica è una procedura complessa, costosa, non priva di rischi, con basse probabilità di successo immediato e a distanza. È indicata quando vi siano i presupposti di un possibile beneficio per il paziente (ischemia o vitalità nel territorio di competenza dell’arteria occlusa) e coesistano favorevoli caratteristiche angiografiche dell’occlusione (morfologia rastremata, lunghezza < 15 mm, assenza di calcificazioni e di bridging collaterals, ecc.). La ricanalizzazione di un’occlusione cronica può migliorare l’angina e la funzione ventricolare sinistra, ridurre il ricorso al bypass aortocoronarico, aumentare la sopravvivenza. L’incapacità di attraversare la lesione con il filo guida è la principale causa di insuccesso procedurale. L’impianto dello stent, rispetto al trattamento con solo pallone, riduce la frequenza della restenosi; è verosimile che gli stent medicati migliorino i risultati a distanza.