I pazienti di oltre 75 anni rappresentano circa un terzo di quelli ricoverati nelle unità coronariche italiane con sindrome coronarica acuta, con una maggiore prevalenza per la presentazione senza sopraslivellamento del tratto ST. Rispetto a quelli più giovani, i pazienti anziani hanno caratteristiche di rischio più elevato e una maggiore incidenza di eventi avversi, soprattutto mortalità e scompenso, e tuttavia ricevono in misura minore cure efficaci, e in particolare meno terapia di riperfusione coronarica. Questo atteggiamento è solo in parte motivato da prudenza nei confronti del rischio iatrogeno delle terapie antitrombotiche e delle manovre invasive, essendo purtroppo stato giustificato in passato da fuorvianti interpretazioni di metanalisi e studi osservazionali. Un atteggiamento più obiettivo si è venuto sviluppando a seguito dei recenti dati di studi randomizzati in cui è stata proprio la popolazione anziana a trarre il maggior beneficio (soprattutto se valutato in termini di “numero di vite salvate”) da strategie precocemente riperfusive, laddove tale beneficio era difficilmente visibile nei pazienti più giovani. Anche il pregiudizio di “non operabilità” delle coronarie dei pazienti anziani è stato sfatato dall’esperienza di chi ha iniziato ad eseguire sistematicamente la coronarografia senza tenere conto dell’età anagrafica. La presenza di gravi copatologie è spesso stata considerata determinante nel limitare l’invasività delle cure. Questa reale difficoltà (peraltro più tipica della settima-ottava decade che del grande anziano) va peraltro considerata specificamente, e non necessariamente in semplice relazione all’età. Il paziente anziano è maggiormente esposto al rischio di emorragia iatrogena: gli schemi terapeutici devono tenere conto di questa maggiore fragilità.