L’invecchiamento della popolazione comporta un inevitabile aumento della prevalenza della cardiopatia ischemica. I numerosi studi che hanno valutato l’efficacia dell’approccio chirurgico verso la terapia medica o verso la rivascolarizzazione percutanea hanno, nella maggior parte dei casi, escluso pazienti con età > 75 anni. Questa lacuna scientifica è il principale fattore determinante il differente comportamento dei cardiologi clinici al momento di stabilire l’indicazione ad esame coronarografico nel paziente ottuagenario in quanto i dati a disposizione provengono da studi retrospettivi con una variabilità dei risultati spesso correlata all’eterogeneità dei pazienti esaminati.
I primi risultati dell’angioplastica coronarica nel paziente anziano riguardano delle analisi retrospettive nell’era prestenting con una mortalità acuta variabile dal 3.5 al 7%, 5 volte superiore rispetto a quella osservata nei pazienti più giovani. Con l’avvento dello stenting coronarico, l’approccio percutaneo è diventato molto più sicuro anche nel paziente anziano, con una riduzione della mortalità e della necessità di bypass aortocoronarico d’urgenza. Conseguentemente, il cardiologo interventista ha cominciato a trattare pazienti più complessi sia dal punto di vista clinico sia da quello angiografico ottenendo dei buoni risultati anche nel sottogruppo di pazienti ottuagenari. Nonostante la mortalità sia maggiore nei pazienti anziani (0.2% nei pazienti con età < 70 anni vs 3.0% nei pazienti con età > 80 anni), la percentuale di pazienti liberi da eventi cardiaci avversi a 12 mesi è sovrapponibile a quella osservata nei pazienti più giovani (78% nei pazienti con età < 70 anni vs 75% nei pazienti con età > 80 anni).
Il confronto tra strategia di rivascolarizzazione percutanea e chirurgica nel paziente anziano presenta delle limitazioni per la scarsità di dati provenienti da studi randomizzati. Da quanto disponibile emerge che le due metodiche offrono un simile risultato sia acuto che a lungo termine (sopravvivenza a 5 anni dell’85.7% dopo bypass aortocoronarico e dell’81.4% dopo angioplastica coronarica) con un lieve vantaggio della metodica chirurgica nel sottogruppo di pazienti diabetici. L’indicazione all’una o all’altra metodica viene pertanto valutata in considerazione delle caratteristiche cliniche e angiografiche del paziente. Tuttavia queste considerazioni potrebbero essere completamente stravolte dall’introduzione di nuovi device percutanei come i sistemi per la ricanalizzazione di occlusioni croniche dell’arteria e degli stent a rilascio di farmaci antiproliferativi come la rapamicina ed il taxolo.
Se ancora non è completamente delineato il vantaggio dell’una rispetto all’altra metodica nell’approccio invasivo ai pazienti anziani, la strategia percutanea è superiore al trattamento conservativo con la terapia medica. Un miglioramento dei risultati si è ottenuto anche nel trattamento percutaneo dei pazienti anziani affetti da infarto miocardico acuto (mortalità 28.4% nei pazienti riperfusi vs 38.5% nei pazienti non riperfusi; p = 0.001). Questi miglioramenti sono da attribuire in parte all’introduzione dello stenting coronarico e in parte all’introduzione degli inibitori del recettore IIb/IIIa piastrinico con significativa riduzione delle complicanze acute.
In conclusione, quando una rivascolarizzazione appare indicata quella percutanea dovrebbe sempre costituire il primo approccio terapeutico nel paziente anziano. Ampi studi osservazionali sostengono tale strategia nel paziente con angina stabile, con sindrome coronarica acuta e con infarto miocardico acuto.